Contro il razzismo
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Contro il razzismo

Quattro ragionamenti

Marco Aime, Guido Barbujani, Clelia Bartoli, Federico Faloppa, Marco Aime

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Contro il razzismo

Quattro ragionamenti

Marco Aime, Guido Barbujani, Clelia Bartoli, Federico Faloppa, Marco Aime

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In Europa avanzano movimenti xenofobi e in Italia si denunciano sempre piú spesso episodi di razzismo. Quattro studiosi con competenze diverse provano qui a vagliare i concetti di identità e differenza, a comprendere i diritti dello straniero in Italia, a misurare quanto profonde siano le nostre convinzioni sulle differenze biologiche e culturali e come se ne debba parlare. Guido Barbujani sceglie la prospettiva della genetica per decostruire le presunte basi scientifiche del razzismo; Marco Aime usa un approccio antropologico per comprendere alcune nuove declinazioni, di carattere culturale, assunte da certi razzismi. Federico Faloppa compie un'analisi linguistica, utile a capire gli elementi discriminatori che mettiamo in atto, spesso inconsciamente, usando le parole in un certo modo; infine Clelia Bartoli usa lo sguardo socio-giuridico per comprendere come le insidie del razzismo si celino anche nelle istituzioni «democratiche».

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Information

FEDERICO FALOPPA

Per un linguaggio non razzista

Questo è il coro della razza predona che sono tutti quelli che si nascondono dietro una faccia distinta e perbene e non si mettono mai in discussione mai mai mai mai.
MAU MAU, Razza predona
(da Bàss paradis, 1994).
Lanciare il sasso, nascondere la mano.
Si è scritto spesso della fortuna, se cosí vogliamo chiamarla, dell’espressione «non sono razzista, ma…»: della sua diffusione, del suo uso cosí frequente e pervasivo. E di come in genere le persone che la utilizzano esprimano invece – piú o meno consapevolmente, attraverso la figura retorica della preterizione – opinioni e posizioni molto ambigue, quando non chiaramente razziste, introdotte dalla congiunzione avversativa «ma».
Meno spesso si è fatto notare, però, che se la frase ha cosí larga circolazione non è (sol)tanto per l’aumentata presenza e visibilità dei norapperi – termine inventato nel 2007 dal giornalista Giovanni Maria Bellu per indicare quelli che, appunto, dicono «non sono razzista, però…» –, quanto perché, malgrado tutto, il razzismo (e il dichiararsi apertamente razzisti) è considerato ancora causa di stigma sociale, in Italia. Ovvero, nessuno (o quasi) vuole o vorrebbe sentirsi bollare come razzista per paura di incorrere nella censura, nella sanzione e nell’isolamento sociale, quali che siano le sue reali posizioni.
Anche in presenza di gesti e atti verbali che definiremmo razzisti – ovvero discriminanti sulla base di una presunta distinzione e superiorità (razziale) di un gruppo rispetto ad altri –, sentiremmo probabilmente dire, dai responsabili di questi comportamenti, «non sono razzista», «questo non è razzismo», «sono solo realista». O cose del genere.
Uno degli esempi piú recenti di questa negazione (in alcuni casi gli psicologi la chiamerebbero piú propriamente denegazione: il parlante si impedisce, attraverso la verbalizzazione, di ammettere ciò che invece desidererebbe pensare e fare) è stato fornito da alcuni videoclip che in Italia hanno fatto il giro del web nel mese di luglio 2015. Videoclip che mostravano alcuni esponenti di Forza Nuova e alcuni abitanti di Casale San Nicola, piccolo centro alle porte di Roma, nell’atto di protestare contro la temporanea sistemazione di un gruppo di rifugiati presso una struttura di accoglienza della zona. A rivedere quelle immagini (e quella chiusura rabbiosa nei confronti dei nuovi arrivati da parte dei manifestanti), si nota ad esempio come i protagonisti delle intidimidazioni – malgrado la loro violenta opposizione alla presenza dei profughi – non volessero essere etichettati come «razzisti». «Non siamo razzisti», ripetevano infatti a chi chiedeva loro le ragioni della protesta.
Questa (de)negazione è stata in qualche modo riecheggiata dalla versione online del «Corriere della Sera», che all’indomani di quei fatti chiese ai propri lettori attraverso un sondaggio: «Le proteste contro gli immigrati a Casale San Nicola sono un episodio di nuovo razzismo? Sí/no?» Né i voti (468, divisi tra un 28% di «sí» e un 72% di «no») né i commenti dei lettori si fecero attendere: e per la stragrande maggioranza degli intervenuti non si trattava affatto di razzismo, ma di legittima difesa di un territorio – e dei suoi abitanti – minacciato dall’arrivo di un gruppo di estranei, implicitamente pericolosi per la comunità.
Ma se non era razzismo, che cos’era? si chiese sempre dalle pagine del «Corriere», Donatella Di Cesare in un breve ma incisivo corsivo pubblicato domenica 19 luglio:
[...] come definire la violenza con cui gli abitanti di Casale San Nicola sono riusciti nell’impresa di allontanare un pullman di 19 immigrati? […] Forse non si deve parlare di razzismo perché non teorizzano l’esistenza delle razze? Allora dobbiamo parlare di «nuovo razzismo» e di odio verso l’altro e lo straniero?
Le parole per dirlo.
Già, come definire quella violenza? Razzismo? Nuovo razzismo? Odio verso lo straniero? Un primo passo per disarticolare il discorso razzista sarebbe quello di chiamarlo per nome. Di non tentennare davanti alle definizioni, anche se queste cambiano, mutano, sembrano sfuggenti. Perché – anche solo per opposizione semantica, per chiarezza terminologica – l’antirazzismo è tanto piú efficace se si misura con qualcosa di preciso. Se chiama le cose col loro nome, senza timore di indorare la pillola, di affrontare la realtà per quello che è.
Tuttavia, non sempre questo è facile, immediato, evidente.
Lo sappiamo da almeno tre decenni: il razzismo cosiddetto «classico» (un insieme di teorie elaborate tra Sette e Ottocento e culminate nel Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, di Joseph-Arthur de Gobineau, 1853-55), basato sull’idea che il patrimonio biologico-culturale delle popolazioni determini la loro psicologia e i loro comportamenti morali, e che esistano razze superiori perché piú pure rispetto ad altre, oggi trova raramente eco se non in qualche circolo di invasati o nelle parole di qualche agent provocateur smanioso di notorietà. E il razzismo per come lo si è conosciuto nel XX secolo – figlio di quello «classico», padre dei campi di sterminio e della Soluzione finale – è certamente mutato nelle sue rivendicazioni e articolazioni: con un punto di non ritorno, ci si augura, segnato dalla caduta, a inizio anni Novanta del secolo scorso, dell’ultimo regime politico basato sull’ineguaglianza razziale sancita per legge, il Sudafrica dell’apartheid. Come è mutato, di conseguenza, il discorso razzista, che non si regge piú tanto (o soltanto) su conclamate ed esplicite gerarchie razziali su base biologica, ma su un intreccio articolato di fattori (e rivendicazioni) sociali e culturali, come ci ha spiegato nelle pagine precedenti Marco Aime.
Tuttavia, le nuove articolazioni del pensiero razzista – che, come ha scritto Martin Barker già nel 1981 nel suo The New Racism: Conservatives and the Ideology of the Tribe, diffondono la convinzione che gruppi umani portatori di determinate caratteristiche culturali siano incompatibili con la cultura dominante, e siano quindi una minaccia per la sua integrità e sopravvivenza – si presentano al pari di quelle «classiche» come un sistema ideologico finalizzato a giustificare discorsi, politiche e pratiche di esclusione ai danni di persone, ad esempio i migranti o le cosiddette «minoranze etniche», ritenuti indesiderabili perché estranei non tanto al patrimonio biologico quanto a quello culturale della maggioranza. E pur in assenza di razze – la cui esistenza è stata definitivamente messa in discussione dalle scienze biologiche e sociali, ma la cui invenzione è stata ed è alla base di ogni razzismo – queste articolazioni si consolidano intorno a un sistema discorsivo eterogeneo ma nella sua approssimazione estremamente coeso e coerente, che va da elementi iconici e simbolici riconoscibili (svastiche, croci celtiche, certa reiterata iconografia coloniale) agli assalti o alle aggressioni verbali (insulti a sfondo razziale: «sporco ebreo», «negro di merda» ecc.), da atti linguistici pragmaticamente dissonanti (il dare del «tu» a qualcuno perché ritenuto inferiore anche quando le regole della pragmatica e della politeness prevedono il «lei») a stereotipi e rozzezze terminologiche («gli zingari son tutti ladri», l’uso di marocchino per indicare una qualsiasi persona proveniente dall’Africa), dalle generalizzazioni volutamente semplificanti (se uno straniero commette un crimine allora tutti gli stranieri sono criminali) alla negazione di argomentazioni solide e razionali a favore di slogan e isterici piagnistei («Perché l’accoglienza di questi venti profughi a Casale San Nicola sarebbe un problema?», «Perché l’Italia è piena. Ora basta!», «Perché a noi chi ci accoglie?»)
Questo neorazzismo, piú che come un paradigma, si configurerebbe quindi come un insieme (articolato) di manifestazioni che attraversa ceti sociali diversi, che si specchia nel «razzismo istituzionale» di cui scrive Clelia Bartoli in questo volume, e che fa certamente leva su sentimenti ancestrali di appartenenza (o estraneità), e di questi si serve in difesa di una presunta identità territoriale ritenuta omogenea. Presentandosi frequentemente, non a caso, come reazione alla mobilità degli esseri umani, come paura del nuovo e del diverso, come rifiuto della contaminazione, come richiesta di mettere al bando categorie di persone ritenute inammissibili, inadatte, pericolose perché nuove, diverse. Ed è proprio questa sua eterogeneità, questa sua possibilità di essere declinato in molti modi (banalmente riassunti anche dall’espressione «non sono razzista, ma…», appunto) che lo rende piú pervicace, trasversale, difficile da riconoscere e quindi da contrastare.
Senza contare che l’ampliamento semantico (razzismo usato in senso lato, senza piú alcun riferimento esplicito al suo significato «classico» o ideologico) e l’occorrenza sul piano sintagmatico (ovvero all’interno di sequenze in cui il termine razzismo co-occorre con altri termini), riscontrabili investigando vasti corpora di testi – come ad esempio le migliaia di testi recenti estratti dal web e raccolti nei corpora indicizzati ItTenTe10 o Ridire –, documentano chiaramente non solo l’alta frequenza relativa del termine (razzismo) ma anche il suo uso ampio e spesso generico. Data la stringa di testo «razzismo + aggettivo», ad esempio, il razzismo può essere «istituzionale», «biologico», «nuovo», «culturale», «strisciante», «latente», «fascista», «puro», «quotidiano», «becero», «ordinario» (gli aggettivi sono in ordine decrescente di occorrenze); o ancora, data la stringa «razzismo e/o + sostantivo», razzismo può far coppia – talvolta in veri e propri binomi lessicali – con «xenofobia», «discriminazione», «violenza», «antisemitismo», «intolleranza», «guerra», «odio», «sessismo», «nazionalismo», «sfruttamento»; e infine, che dire di razzista (all’interno del pattern «razzista e/o + sostantivo») in combinazione con «fascista», «xenofobo», «leghista», «estremista», «populista», «schiavista», ma anche «mafioso», «picchiatore», «nazionalista», «evasore», «stronzo», solo per citare le co-collocazioni piú frequenti?
Basta (rimuovere) la parola?
Definire allora che cosa si intenda per razzismo oggi, precisando del vocabolo ambiti e contesti d’uso, diventa ancora piú urgente: sia per evitare che tutto sia «razzismo» e quindi – in buona sostanza – nulla lo sia in modo specifico, sia per non aver paura di chiamare le cose col loro nome. E qui bisogna intendersi. Definire aiuta a rendere chiari discorsi e argomentazioni. Ma non significa che si possa risolvere tutto con aggiustamenti nominali o forzate raccomandazioni linguistiche. A maggior ragione se queste passano per sostituzioni e rimozioni, che renderebbero ancora piú sfuggente il problema e la sua riconoscibilità.
Una (discussa) risposta dall’alto al razzismo (e quindi, alla definizione di razzismo), «classico» o «neo-» che sia, è ad esempio la proposta di sopprimere la parola razza dai testi legislativi, a cominciare dalla Costituzione. È una proposta che ha le sue ragioni (per togliere legittimità al razzismo e visibilità al suo vocabolario, si sradichi la sua base lessicale – a cominciare da razza – dal discorso), ma che pare piú utile a suscitare un dibattito che non a fornire indicazioni realmente spendibili. Per questo, per motivi di merito e metodo, vale la pena soffermarvisi.
In Italia, il dibattito sull’abolizione della parola razza è stato sollecitato nell’ottobre 2014 da Gianfranco Biondi e Olga Rickards, i due antropologi autori de L’errore della razza (2011), che con un accorato appello chiedevano al presidente della Repubblica e ai presidenti di Camera e Senato di rimuovere la parola razza dall’articolo 3 della Costituzione («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali ecc.»). Una proposta poi ripresa e rilanciata, tra gli altri, da Adriano Favole e Stefano Allovio, in un articolo pubblicato nel supplemento «La Lettura» del «Corriere della Sera» il 7 febbraio 2015, con l’augurio di dar vita a una campagna «dal forte valore simbolico».
Beninteso, è un testo chiaro e documentato quello della petizione, e basa la sua richiesta sulle ricerche nel campo della biologia e della genetica che hanno dimostrato «per via sperimentale» che il «concetto di razza non può essere applicato alla nostra specie» (come racconta anche qui Guido Barbujani). E non c’è dubbio che una campagna del genere, dal forte valore simbolico, farebbe parlare molto di sé. Tuttavia, l’idea di modificare il testo dell’articolo 3 della Carta costituzionale, sostituendone un termine (con che cosa? E solo quello? Ma allora varrebbe la pena di riflettere anche sulla complessità e la potenziale ambiguità dei termini sesso, lingua e religione contenuti in quell’articolo) lascia perplessi per alcune ragioni.
Certo, dovendo essere per sua natura un testo sempre attuale, la Costituzione dovrebbe confrontarsi, anche, con le novità giuridiche, sociali e culturali emerse negli ultimi decenni. Come è altrettanto plausibile che, cambiando le conoscenze, anche il linguaggio dovrebbe in qualche modo adeguarsi e modificarsi, per rendere ragione di quei cambiamenti. Ma, ed è questo il primo elemento di perplessità, il linguaggio si modifica a partire soprattutto dall’uso dei parlanti. È l’uso dei parlanti, e la loro accettazione di norme e regole – all’interno di una visione linguistica che sia descrittiva e non prescrittiva –, la prima vera cartina di tornasole di ciò che si dice e non si dice (piú).
Prima di imporre un cambiamento dall’alto, sarebbe quindi utile capire, forse, se e quanto gli italiani usano (ancora) la parola razza, e come la usano. Siamo certi che nel linguaggio corrente razza sia stata ormai sostituita, ad esempio, da gruppo etnico o da altre formule (etnia, cultura, tradizione) ritenute piú accettabili?
Un’inchiesta a largo spettro sulla lingua condotta attraverso l’analisi di grandi corpora di italiano dell’uso forse aiuterebbe a capire se e come parole e concetti si sono modificati non solo nel campo della conoscenza scientifica o dell’insegnamento superiore, ma anche nella lingua comunemente usata da parlanti e scriventi. D’altronde, se ci sforziamo di ripetere – anche in questo volume – che le razze non esistono, è proprio perché paradossalmente il senso comune (e il linguaggio attraverso cui questo si trasmette) è ancora intriso del concetto di razza, e delle sue traduzioni verbali e iconiche. E non per il contrario.
Inoltre, ed è il secondo elemento di perplessità, la proposta di espungere razza pare offrire il fianco a chi dice che gli intellettuali hanno il vizio non soltanto del politicamente corretto – concetto su cui ritorneremo piú avanti – ma anche di un politicamente corretto «retroattivo». Ovvero: non vogliono solo censurare la lingua dell’oggi, ma anche cambiare la lingua di ieri in ragione delle sensibilità di oggi. Imponendo, di fatto, categorie e definizioni anacronistiche. Sarebbe davvero legittimo – e soprattutto utile – intervenire su un testo scritto in un determinato contesto storico, per determinate ragioni e con determinate attenzioni formali, a partire dalla lingua? E cambiarne il lessico per scrupoli che poco hanno a che fare con quel contesto?
Testo e contesto.
Alla fine della Seconda guerra mondiale, malgrado le atrocità commesse in nome del concetto, razza – soprattutto al plurale – era termine di uso corrente, in tutti i registri linguistici. Ce lo dicono dizionari, libri, giornali del tempo (si vedano ad esempio le ricorrenze di razza/razze negli articoli di un quotidiano come «La Stampa» della seconda metà degli anni Quaranta). E quindi, necessariamente, di razza doveva parlare la Carta costituzionale se voleva rispondere agli orrori del razzismo nazista e fascista; se voleva annullare le tassonomie razziste; se voleva, soprattutto, essere compresa dalle persone cui si rivolgeva.
C’è una cosa, a proposito, che forse non andrebbe dimenticata, quando si parla di Costituzione. Lo ha ricordato tra gli altri il linguista Tullio De Mauro: il lessico e la sintassi della Carta sono stati scrupolosamente selezionati, discussi, limati. Come è noto, fu chiesto allo scrittore e critico letterario Pietro Pancrazi di rivedere linguisticamente tutto il testo, affinché non...

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