Vita meravigliosa
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Patrizia Cavalli

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Patrizia Cavalli

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Über dieses Buch

Fosse vissuta sei o sette secoli fa, nelle terre umbre dov'è nata, Patrizia Cavalli sarebbe stata senz'altro una delle grandi mistiche di quel periodo. Le sue esatte visioni verbali avrebbero narrato i misteri piú sensibili della divinità, e le sue estasi, i suoi terrori e le sue ebbrezze sarebbero stati registrati e trascritti con devozione dai fedeli amici intorno a lei. Nei nostri tempi, invece, Patrizia Cavalli si è proposta il compito, piú arduo, di dare parola ai misteri profani di cui tutti facciamo esperienza: all'indicibile nostalgia di settembre, che ogni anno, regolarmente, ci trafigge; al pulsare frenetico della «nemica mente», quando insegue e controlla ogni lieve mutamento del corpo; alla felicità che scende, come rugiada dal cielo, se una certa luce pomeridiana si mostra all'improvviso. In ogni verso, il ragionare poetico di Patrizia Cavalli non cerca, ma trova. Il suo ardente, ostinato desiderio conoscitivo non chiede altro che arrendersi, infine, dinanzi allo stupore e all'evidenza dell'apparizione poetica. Vita meravigliosa rappresenta una summa della poesia di Patrizia Cavalli, attraverso le ossessioni ricorrenti, i temi e i molteplici registri stilistici che la caratterizzano. Insieme ai molti fulminei epigrammi, comici o filosofici (spesso le due cose insieme), compaiono i monologhi ipocondriaci, quasi teatrali, oltre alle tante poesie d'amore, non prive di ferocia descrittiva, e un breve poemetto, Con Elsa in Paradiso, dove la promessa - o la minaccia? - della vita eterna apre al poeta la possibilità terrestre di «abolire, non dico la realtà | ma ogni traccia di verosimiglianza». Poco importa che il poeta dica sempre 'io': quell'io è talmente dilatato, talmente elastico da includere nella sua lingua ogni cosa, purché esista e viva. Con questa raccolta fuori dal tempo, Patrizia Cavalli si conferma tra i poeti piú ricchi e piú indispensabili del nostro tempo.

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Information

Verlag
EINAUDI
Jahr
2020
ISBN
9788858434604

Il mio felice niente

Cosa non devo fare
per togliermi di torno
la mia nemica mente:
ostilità perenne
alla felice colpa di esser quel che sono,
il mio felice niente.
Avere il whisky in casa è un gran vantaggio,
in quattro sorsi passi dal peggio al meglio,
ogni parola splende e ne convieni
e i destini sfortunati li sollevi
all’esistenza nella gloria, o almeno
semplicemente a esistere cosí.
Questo dimostra che noi non siamo
quel che siamo, che il nostro essere
si accende quando è caldo, o si disperde
nel freddo buio della sobrietà.
Ma in ogni caso qui non si conclude
niente, è questo il bello, non si conclude
niente, per quanto vorrei dire
che sono soddisfatta di aver aperto
la bottiglia buonissima di whisky
che mi è costata tanto e che altrettanto
mi restituisce quel che deve – si tratta
di un Benrinnes novantasei, sedici
anni soli di vecchiaia, che non è niente
per un whisky con pretese, ma
che vi devo dire, a me mi ha steso
quasi felice, anzi, direi mi ha acceso
senza limite inoltrata non so
dove, di certo ora ubriaca.
Per due ore ho camminato in compagnia
per due ore ho raccontato del mio amore.
Per prendere respiro mi fermavo
spostando da me al cielo l’attenzione.
Grande architetta delle mie parole,
trasformavo il dolore in colpa mia.
Ancora? Ancora? Di nuovo? Davvero?
Sí, è cosí, è vero, ci credo,
ecco bellezza chiara, sí la vedo
meravigliosa uguale esultanza
con passo saldo e lucido io incedo
sempre uguale, se mi guardo indietro
sempre uguale lo spazio sereno
del bene certo offerto in esultanza.
Io qui presente, la tua solitudine
mi offende. Porterò via il mio corpo
lo metterò in viaggio
e nel trasporto, tra scosse di treni
e paure di voli, ritroverò la confidenza
materiale. Con altro peso allora
calpesterò la mattonella sconnessa
che, a metà strada verso la tua stanza,
con un suono leggero ti avvisava.
Ma tu protetta da questa dolce
ripetizione continuavi a leggere,
rimandavi a piú tardi ogni emozione.
La mia fatica è del pensiero quando
ti vuole mantenere anche sparita
agli occhi materiali che non sanno
vedere la tua faccia che m’invita.
Vero pensiero, non astratta mente,
per cui ogni giorno provo il mio valore
che se lo perdo perdo quel sapore
cosí forte, sicuro, che non mente.
Sono di mattina nevicata
dal calo bianco addormentato,
lasciando le spalle agli spigoli
aspetto i disegni involontari
le pieghe delle nuvole,
nei fermenti delle sedie
la nascita dei suoni.
Allora, sicura del vortice,
lascio che i versi si sciolgano
nell’incidente della rima
dove gli incontri si inteneriscono
e chiusi nell’apparente parentela
si concedono all’estasi.
Quel verde che, secondo gli studi sul cervello,
non dovrebbe in sé esistere, proprio non dovrebbe
se non nel nostro attrezzatissimo cervello,
è cosí bello, cosí assolutamente
irresistibilmente bello, ha sfumature
talmente nuove, talmente sconosciute,
che io non posso credere
che dipenda da me, dalle mie cellule.
Lui mi sorprende, esiste in sé e la luce
lo sorprende.
Lemme lemme in bicicletta se ne andava
stancamente pedalava,
avrà visto la mia sciarpa rosa ardente?
Falsamente me ne andavo alla conquista.
Di che cosa, avanti, dimmi, di che cosa?
Della sposa?
Ah questo no, non della sposa.
Bene, allora di che cosa alla conquista?
M’inoltravo nella torre mostruosa.
Che cercavi, avanti, dimmi, che cercavi?
I conclavi?
Ah questo no, non i conclavi.
Bene, allora perché mai era mostruosa?
Io partendo mi portavo i miei sicari.
Chi uccidevi, avanti, dimmi, chi uccidevi?
I tuoi allievi?
Ah questo no, non i miei allievi.
Bene, allora perché andavi coi sicari?
Me ne andavo tutta nuda nella notte.
Per che fare, avanti, dimmi, per che fare?
Per scappare?
Ah questo no, non per scappare.
Bene, allora perché nuda nella notte?
Me ne andavo senza mai poter partire.
Come mai, avanti, dimmi, come mai...

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