La società senza dolore
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La società senza dolore

Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite

Byung-chul Han, Simone Aglan-Buttazzi

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La società senza dolore

Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite

Byung-chul Han, Simone Aglan-Buttazzi

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Byung-Chul Han, tra i pensatori piú importanti e piú letti dei nostri tempi, affronta con stile nitido e conciso una delle fratture al cuore della società di oggi: la paura del dolore.Il mondo contemporaneo è terrorizzato dalla sofferenza. La paura del dolore è cosí pervasiva e diffusa da spingerci a rinunciare persino alla libertà pur di non doverlo affrontare. Il rischio, secondo Han, è chiuderci in una rassicurante finta sicurezza che si trasforma in una gabbia, perché è solo attraverso il dolore che ci si apre al mondo. E l'attuale pandemia, argomenta il filosofo tedesco-coreano, con la cautela di cui ha ammantato le nostre vite, è sintomo di una condizione che la precede: il rifiuto collettivo della nostra fragilità. Una rimozione che dobbiamo imparare a superare. Attingendo ai grandi del pensiero del Novecento, Han ci costringe, con questo saggio cristallino e tagliente come una scheggia di vetro, a mettere in discussione le nostre certezze. E nel farlo ci consegna nuovi e piú efficaci strumenti per leggere la realtà e la società che ci circondano.«Han è un ottimo candidato a essere il filosofo della nostra epoca».
Los Angeles Times «Il filosofo tedesco piú letto nel mondo».
El País «Uno dei piú importanti filosofi contemporanei».
Avvenire «La punta di diamante di una nuova, accessibile filosofia tedesca».
The Guardian «Dovremmo essere grati per l'audacia con cui Byung-chul Han cerca di ritrarre un mondo la cui complessità rischia ogni giorno di sopraffarci».
Der Spiegel

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Information

Verlag
EINAUDI
Jahr
2021
ISBN
9788858435700

Ontologia del dolore

Il dolore dona la sua forza terapeutica laddove non la supponiamo.
MARTIN HEIDEGGER, Dall’esperienza del pensiero
RESIDUO CANTABILE – il profilo
di colui che muto s’aprí un varco
attraverso la scrittura a mo’ di falce,
in disparte, nel luogo innevato.
PAUL CELAN, Singbarer Rest
Scrive Heidegger in una nota a margine del testo Sul dolore di Jünger:
Un saggio, Sul dolore, che non tratta mai e in nessun modo del dolore stesso; che non chiede della sua essenza. La dignità di interrogazione della domanda non mostra mai sé stessa poiché, in conseguenza dell’atteggiamento normativo dell’oggettivazione del dolore, non può affatto essere colpita dal segreto del dolore1.
È evidente come Jünger parta dal presupposto che ognuno sappia cos’è il dolore. A lui interessa soprattutto il nostro rapporto col dolore:
Il dolore è una di quelle chiavi che servono ad aprire non solo i segreti dell’animo ma il mondo stesso. Quando ci si avvicina a quei punti in cui l’uomo si mostra all’altezza del dolore, o superiore a esso, si accede alle sorgenti della sua forza e al mistero che si nasconde dietro il suo potere. Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei!2
A tale proposito commenta Heidegger: «Dimmi il tuo rapporto con l’essere, nel caso in cui tu ne abbia un presentimento, e ti dirò come e se tu ti “occuperai” “del dolore” o se ti è possibile riflettere su di esso col pensiero»3.
La replica vagamente ironica di Heidegger a Jünger ha un nocciolo filosofico. Heidegger intende affrontare la questione del dolore partendo dall’essere. Solo l’essere ci garantisce l’accesso all’«essenza», al «mistero» del dolore. Heidegger direbbe addirittura: essere è dolore. Con questo non s’intende tuttavia che l’esistenza umana sia particolarmente dolorosa. Heidegger ha in mente piuttosto un’ontologia del dolore. Vuole penetrare nell’«essenza» del dolore passando per l’essere.
Sofferenze enormi serpeggiano e dilagano sulla Terra, e la marea della sofferenza continua a salire, eppure l’essenza del dolore si cela. […] Ovunque ci tormentano innumerevoli e incommensurabili sofferenze. Noi però siamo privi di dolore, non siamo traspropriati nell’essenza del dolore4.
Il pensiero di Heidegger prende le mosse dalla differenza ontologica tra essere ed essente. Questi deve la propria evidenza, la propria comprensibilità, all’essere. L’essere dev’essere aperto affinché sia possibile un atteggiamento comprensivo nei confronti dell’essente. Prima che io indirizzi la mia attenzione verso un oggetto, mi trovo già in un mondo aperto e preriflessivo. Per cui Heidegger rimanda al potere della tonalità emotiva di dischiudere mondi. Il mondo dischiuso mediante la tonalità emotiva, del quale non si è espressamente consapevoli, anticipa l’intenzionalità indirizzata all’oggetto: «La tonalità emotiva ha già sempre aperto l’essere-nel-mondo nella sua tonalità, rendendo cosí possibile un dirigersi verso…»5 Già fenomeni come la tonalità emotiva suggeriscono come il pensiero di Heidegger sia rivolto all’indisponibile. Noi non disponiamo del mondo dischiuso in chiave preriflessiva. Noi vi siamo gettati, siamo alla sua mercé, esso ci pre-dispone. La tonalità emotiva è qualcosa che ci coglie, della quale non ci possiamo impadronire.
Nell’Heidegger degli ultimi anni l’essere viene mistificato diventando «il terreno da cui sgorga[no]»6 le cose, che non le crea ma le fa approdare a ciò che esse sono di volta in volta. Anche l’essere umano deve a esso la sua esistenza.
L’uomo rimane disposto (ge-stimmt) a ciò da cui la sua essenza viene predisposta (be-stimmt). Nella pre-disposizione (Be-Stimmung) l’uomo viene colpito e chiamato da una voce (Stimme) che suona tanto piú pura, quanto piú senza suono essa risuona attraverso ciò che è sonoro7.
Quella voce senza suono che pre-dispone e connota, si sottrae a qualsiasi disponibilità. Viene da un altrove, dal completamente Altro. Il pensiero è dolore, passione per il mistero, è l’indugiare «in tale sottrarsi»8.
Heidegger intende il linguaggio come un dono: l’essere umano parla corrispondendovi. Non dispone del linguaggio. La differenza ontologica tra essere ed essente determina anche il linguaggio: «Un “è” appare là dove la parola vien meno. Venir meno qui significa: la parola possibile a pronunciarsi ritorna nel silenzio, là donde essa trae origine e possibilità, ritorna nel suono della quiete […]»9. L’«è» marca l’origine indisponibile del linguaggio che non si lascia recuperare come silenzio nella parola che trapela. Solo infrangendo la parola si ode il silenzio. E solo la poesia rende percepibile quel silenzio privo di suoni, quel residuo cantabile, che fa breccia attraverso la parola che trapela. La poesia restituisce il leggibile all’illeggibile dal quale proviene. La cucitura che unisce il leggibile e il cantabile fa male. La «cucitrice e approssimatrice»10 veglia sul dolore. Esso è lo strappo attraverso il quale il silenzio, l’Esterno indisponibile irrompe nel pensare. Il residuo cantabile è una rima col dolore.
Il dolore è la tonalità fondamentale della finitezza umana. Heidegger lo pensa partendo dalla morte: «Il dolore è la morte nel piccolo; la morte è il dolore nel grande11. Il pensiero di Heidegger indaga su ogni ambito dell’essenza «in cui dolore e morte e amore si coappartengono»12. È proprio l’indisponibilità dell’Altro a tenere desto l’amore come eros. Quest’ultimo è il desiderio dell’Altro, che mi nega l’accesso. La morte non è la semplice fine della vita pensata come processo biologico. È piuttosto un particolare modo di essere. Si protrae nella vita come un «mistero dell’essere». È lo «scrigno del nulla, ossia di ciò che, sotto tutti i rispetti, non è mai qualcosa di semplicemente essente, e che tuttavia è, e addirittura si dispiega con il segreto dell’essere stesso»13. La morte significa che l’essere umano è in relazione con l’indisponibile, col completamente Altro che non proviene da lui.
Per cui l’essere si rende percepibile solo nel dolore «della vicinanza, della vicinanza pura che sostiene la lontananza14. Il dolore rende l’essere umano ricettivo nei confronti dell’indisponibile che gli offre soggiorno e appiglio. Il dolore regge l’esistenza umana. In ciò si distingue dal piacere. Non è uno stato temporaneo ed eliminabile: costituisce piuttosto la forza di gravità dell’esistenza umana.
Sennonché quanto piú gioiosa è la gioia, tanto piú pura è la tristezza che in essa si nasconde. Quanto piú profonda la tristezza, tanto piú forte la gioia, che è in essa, fa udire il suo richiamo. Tristezza e gioia si intrecciano. Il gioco che accorda l’una all’altra, avvicinando ciò che è lontano e allontanando ciò che è vicino, è il dolore. Per questo entrambe, la gioia piú alta e la tristezza piú profonda, sono, ciascuna a modo proprio, dolorose. Il dolore però tocca l’animo dei mortali in guisa che questo deriva da quello – dal dolore – la sua gravità. Quest’ultima mantiene i mortali – nonostante ogni loro vacillare – nella quiete del loro essere vero. L’«animo» che corrisponde al dolore, l’animo effettivamente improntato dal e al dolore, è la gravezza15.
L’essere nascosto è la figura basilare del pensiero di Heidegger, che appartiene fondamentalmente alla verità intesa come «non essere nascosto». L’essere quale «radura» è circondato dalla foresta buia. Anche la «Terra» rappresenta l’«essenzialmente occludentesi» che si sottrae a qualsiasi accesso:
La Terra fa […] infrangere contro di sé ogni tentativo di invaderla. La terra ribalta in disastro ogni pervasività puramente calcolatrice. Quest’ultima può anche assumere ai propri occhi la parvenza di un dominio e di un progresso nella figura di oggettualizzazione tecnico-scientifica della natura, ma un tale dominio rimane pur sempre un’impotenza del volere. La terra appare apertamente illucata in quanto terra solo là dove viene guardata e salvaguardata, avverata e verecondita come la essenzialmente indischiudibile, come quella che retrocede davanti a ogni disclusione, e cioè si mantiene costantemente occlusa […]. La terra è la essenzialmente occludentesi16.
Se la Terra viene trattata come una risorsa che va dischiusa, ecco che essa, per quanto «sostenibile» possa essere il nostro intervento, è già distrutta, in quanto «essenzialmente indischiudibile». Il salvataggio della terr...

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