Per volare mi bastano gli occhi
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Per volare mi bastano gli occhi

La mia lotta contro la SLA, il mio amore per la vita

Paolo Palumbo

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  1. 256 Seiten
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Per volare mi bastano gli occhi

La mia lotta contro la SLA, il mio amore per la vita

Paolo Palumbo

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Über dieses Buch

Paolo ha diciassette anni, tanti amici, successo con le ragazze, una famiglia meravigliosa, l'argento vivo addosso. E un sogno: diventare chef. Quando un giorno in cucina un coltello gli sfugge dalle mani non ci fa troppo caso, pensa a una distrazione, pensa che la sera non farà più così tardi se la mattina dopo deve lavorare. Solo che poi i brutti segnali aumentano, e quando arriva una diagnosi certa il responso è terribile: SLA, sclerosi laterale amiotrofica, di cui Paolo diventa il più giovane ammalato in Europa. Le conseguenze estreme della malattia sono la paralisi completa, l'impossibilità di respirare autonomamente, di deglutire cibo di qualsiasi consistenza - proprio lui che ne era un cultore -, di parlare emettendo suoni. Molti la riterrebbero una sentenza più che una diagnosi, ma non Paolo. Paolo che, circondato e protetto dalla sua famiglia, continua a inseguire i suoi sogni; Paolo che diventa tutt'uno con il fratello Rosario, il quale non esita un minuto a lasciare ogni suo progetto per stargli vicino; Paolo che incontra Obama e papa Francesco, che arriva fino al palco del Festival di Sanremo con una canzone autobiografica, Paolo che ogni giorno, sui social, si batte al fianco di chi soffre come lui, Paolo che moltiplica l'amore. Per volare mi bastano gli occhi è la testimonianza straordinaria di un ragazzo speciale, un racconto profondo e sincero di attaccamento alla vita, sempre.

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Information

Verlag
RIZZOLI
Jahr
2020
ISBN
9788831801997
1

Ma io che dovrei fare?

Sabato 10 settembre 2016, quando tutti si disperano tranne io che ho incassato il colpo da giorni e comincio a pensare a come metterla in quel posto alla SLA.
È come un film. Se riavvolgo il nastro, ne rivedo ogni scena. Una di quelle clou, di quelle che devono dare una svolta alla storia, è molto simile al momento della sentenza. Il verdetto di condanna a morte pronunciato da un qualche giudice di un qualche stato americano con la pena capitale. Nel mio film però non c’è nessun tribunale. Nessun giudice. C’è un ospedale, una stanza dei medici, con un lettino e una scrivania. Dietro la scrivania c’è una dottoressa abbastanza giovane, non tanto alta, robusta, porta gli occhiali, ma dietro le lenti intravedo una persona molto umana: è la neurologa; dall’altra parte i personaggi principali della storia, Rosario, Marco, Sonia e ovviamente io. Paolo. O Paoletto, per la famiglia e qualche amico, anche se a vedermi è l’ultimo soprannome che mi daresti. Diciamo che il protagonista principale sono io, sono perfetto per il ruolo di quello a cui è capitata addosso una sfiga di dimensioni colossali... Il coprotagonista è mio fratello Rosario, poi ci sono tutti gli altri. Ognuno fondamentale a suo modo, ma io e Rosario di più.
Dopo ventotto giorni di ricovero sono stato convocato dalla dottoressa, la quale però mi ha dato l’impressione che l’ultima persona con cui volesse parlare fossi proprio io. Io so già cosa deve dirmi. Dopo un anno passato a cercare di capire quello che stava succedendo al mio corpo, oggi siamo arrivati al giorno della verità. La dottoressa comincia a leggere quello che c’è scritto su alcuni fogli che ha tirato fuori dalla mia cartella clinica. Io non batto ciglio. Man mano che prosegue nella lettura, la sua voce si fa più precaria, come se non riuscisse a pescare abbastanza fiato per fare risuonare le corde vocali come dovrebbe. Da precaria diventa tremante, fino a rompersi del tutto. Una voce rotta da quelle che mi sembrano lacrime. Ma la dottoressa che piange anche no, mi pare che si comincino a confondere un po’ i ruoli... Devo fare qualcosa. E lo faccio interrompendola.
«Dottoressa» le dico gentilmente, «non ha davvero senso che lei pianga e legga la diagnosi, io so già di cosa si tratta!»
La dottoressa si blocca. Non se lo aspettava, pare confusa. Non sono uno scemo, mi sono documentato e per di più, un giorno, lei e i suoi colleghi si sono dimenticati la cartella clinica sul mio letto. Secondo loro, non dovevo leggere cosa c’era scritto? Ovviamente sì, e dopo aver fatto qualche ricerca in rete, ho capito subito.
Per quello che mi riguarda sono stato già abbastanza in questa stanza. Ho voglia di uscire all’aperto, fumarmi una sigaretta. E poi fare la borsa e tornarmene a casa. È sabato, se ci sbrighiamo ho tutto il tempo di andare da Stefano, il mio parrucchiere, sistemarmi barba e capelli, e poi fare serata con gli amici. È un mese che non esco!
La dottoressa mi spiega che devo stare tranquillo, che comunque mi darà una terapia che può bloccare l’incedere della malattia. Rosario la guarda con tanto di occhi e le chiede il nome del farmaco che avrebbe questi poteri... perché, nel frattempo, anche lui ha passato notti insonni a documentarsi, e se c’è una cosa che ha ben chiara è quanto inesorabile sia questa malattia che, non a caso, in tanti chiamano “la bastarda” o “la stronza”. Un po’ imbarazzata, la dottoressa ci dice il nome del farmaco e Rosario, che per fortuna ha sempre avuto modi più raffinati dei miei, le fa capire che sta dicendo una fesseria: il farmaco in questione non serve a fermare la malattia, nemmeno a rallentarla. Ovviamente lei lo sa benissimo, il suo era un tentativo di addolcirmi la pillola... Secondo la neurologa, insomma, non era il caso che io sapessi proprio tutto della mia malattia.
«Ma se non la sa lui, la verità, chi la deve sapere?!» le dice Rosario.
Esatto, proprio così. Apprezzo l’umanità di questa dottoressa, anche le sue parole per incoraggiarmi, ma io ne ho abbastanza. Adesso ho proprio bisogno di quella sigaretta. Devo uscire di qui, l’aria è troppo pesante e poi non ce la faccio a sostenere la disperazione che vedo sulla faccia dei miei genitori.
Dietro la porta della stanza dei medici, nel corridoio della neurologia, al settimo piano dell’ospedale di Nuoro, mi aspettano zii, cugini, nonni e qualche amico. Sì, siamo una famiglia molto unita e numerosa, solo mio padre ha undici fratelli! Nella folla intravedo lo sguardo di nonna Maria, la madre di mia madre. Cerca nei nostri occhi una risposta e la trova. A poco a poco la trovano tutti quella risposta che cerchiamo da tempo, e l’aria diventa ancora più pesante. È pesante quando aspettiamo l’ascensore per scendere, è pesante mentre usciamo in cortile, è pesante quando ci ritroviamo tutti quanti fuori.
C’è un caldo umido e appiccicoso, ma almeno splende il sole e il cielo è terso. Questo sole e questo cielo sopra di noi non c’entrano molto con la scena del film che stiamo girando, ma me li godo comunque. Mentre cerco accendino e sigaretta, mi ritrovo al centro di un cerchio di persone che mi si stringe sempre più addosso, siamo tantissimi. Come dicevo ci sono gli zii, i cugini, i nonni che abitano tutti a Nuoro. Anche noi stavamo qui una volta, io e Rosario siamo nati proprio in questo ospedale, ma quando eravamo piccoli ci siamo trasferiti a Oristano, dove papà aveva aperto un nuovo ristorante e dove abitiamo tuttora. Con Nuoro però ho ancora un legame forte e bello, perché è la città dove vivono tutti i miei parenti e a cui sono legati i miei primi ricordi d’infanzia. Ogni volta che varco l’ingresso della città, mi sento sempre a casa. In questo periodo, soprattutto quando mamma, papà e Rosario tornavano a Oristano, i miei parenti non mi hanno mai lasciato solo e facevano a turno per farmi compagnia. Dalla mia stanza c’era un viavai continuo di persone, cosa che non è andata giù a qualche infermiere zelante a cui non sono risultato molto simpatico e che ha fatto di tutto per farmelo capire, rendendomi impossibile la degenza. C’è anche chi, purtroppo, sfoga le sue frustrazioni in modo meschino, prendendosela con i malati. Per fortuna, si tratta spesso di casi isolati.
Prendo una sigaretta dal pacchetto e mentre l’accendo mi guardo attorno. Mi fissano tutti. Rosario si allontana con la scusa che deve telefonare a un amico. Ha lo sguardo basso e cerca di nascondersi, ma io lo so che i suoi occhi verdi sono pieni di lacrime. Rosario, ma se mi molli tu, io che faccio? Ho bisogno della tua serenità, ho bisogno di te. Non piangere, almeno tu.
Niente... Fumo la mia sigaretta e continuo a osservare le reazioni da post sentenza: lacrime e disperazione. Quelle di mamma e papà mi pesano più di tutte. Non posso sentirmi in colpa, questa almeno non me la sono andata a cercare io, ma vederli soffrire così fa malissimo.
Finisco di fumare. Questi pochi minuti mi sono bastati per riflettere sulle varie possibilità. La prima sarebbe quella di disperarmi anch’io, che alla fine è anche l’ipotesi più scontata, pure quella che potrei permettermi; la seconda sarebbe quella di darci un taglio, perché se è vero come ho letto che non mi rimane molto da vivere, allora questa vita che mi resta io la vorrei vivere al massimo e con il sorriso sulle labbra e nel cuore. E poi, sono un ottimista: finché ci sono, non escludo la prospettiva di continuare a esserci per molto... Non so se mi sono spiegato.
«Ma se voi fate così, io che cazzo dovrei fare?» dico serio a parenti e amici.
Sì, è una frase un po’ a effetto, ma non fa una piega. Anche Rosario, che nel frattempo è tornato dalla sua finta telefonata, mi guarda sorpreso. Forse non se l’aspettava, ma ha capito al volo quello che sto cercando di dire e riconosce in queste parole la grinta che non mi è mai mancata. Si asciuga le lacrime e torna a essere il fratello maggiore che conosco e in cui trovo tanta della mia forza. Anche gli altri smettono di piangere. Era ora... Obiettivo raggiunto!
Così è iniziata la mia battaglia contro la SLA. Quel giorno di settembre, quando avevo compiuto da poco diciotto anni! Proprio allora mi sono detto che nella vita hai sempre due possibilità: puoi provare a combattere e tentare di vincere oppure stare fermo a guardare e perdere in partenza. E a me stare fermo a guardare non è mai piaciuto. Mai.
2

Nato per lottare

Mi dicono che sono una forza della natura. Vero, ma una volta questa energia andava nel verso sbagliato.
Sono nato a Nuoro il 16 agosto del 1997, sotto il segno del Leone. Sono affascinato dall’astrologia e ho sempre pensato che il Leone sia un lottatore e abbia energia da vendere. Io ce l’ho e, da che mi ricordo, ne ho sempre avuta. Mi dicono però che quando ero piccolo non c’entravo nulla con il Paolo di oggi. Fino ai cinque anni ero davvero Paoletto, e forse è proprio per questo che Rosario ha cominciato a chiamarmi così. Ero minuto, magro magro, praticamente pelle e ossa... Insomma, proprio un’altra persona! Non mangiavo quasi nulla, ma la cosa che odiavo di più era il pesce, che per uno vissuto sul mare dall’età di quattro anni, con il papà bravissimo a cucinarlo, era davvero il colmo. Colpa dell’asilo e della mensa dove ci propinavano pesce di dubbia qualità e cotto pure male. Risultato? Un trauma durato quasi undici anni, da cui però sono uscito, per fortuna. Il pesce lo odiavo proprio, il resto me lo facevo andare bene, ma non si può dire che fossi la buona forchetta che sono poi diventato. Pare anzi che fossi patito a tal punto che mamma, preoccupata, si rivolse alla pediatra, la quale le consigliò una cura ricostituente. La cura ricostituente funzionò: nel giro di un anno esplosi e in prima elementare ero già un bel bambinone che non stava nemmeno con le gambe sotto il banco di scuola, condizione con la quale dovetti convivere per il resto della mia carriera scolastica. All’età di quattordici anni ero alto 186 centimetri e pesavo quasi 120 chili, alle medie mi aggiravo intorno agli 80... ma già alle elementari, in confronto ai miei compagni di classe, sembravo quello che era stato bocciato per tre anni di fila. Un bambino molto molto cresciuto. Non so che cosa ci fosse in quella cura della pediatra, ma si rivelò davvero micidiale.
Insieme alla stazza, ho sempre avuto un bel carisma. Un modo garbato per dire che ero una testa calda, spesso pronta a usare le mani se qualcuno faceva il gradasso con i compagni più deboli che venivano presi di mira. Non ho mai sopportato i bulli e non sono mai rimasto a guardare quando entravano in azione. In terza media il mio temperamento mi costò dieci giorni di sospensione a poche settimane dalla fine della scuola, e il mio voto in condotta ne risentì, ma diciamo che quella fu solo la goccia, perché nei tre anni appena passati ne avevo combinate un bel po’. L’apice lo avevo raggiunto quando mi ero inventato una doppia vita scolastica: quella vera era tempestata di note e brutti voti, quella finta mi vedeva studente modello. Per rendere possibile tutto ciò avevo due diari, e quello che portavo a casa era ovviamente fasullo. Il gioco durò per qualche mese, fino ai colloqui con gli insegnanti, che misero mia madre di fronte alla dura realtà dei miei “piccoli” imbrogli.
Non avere mai dato prova di grande maturità portò i miei genitori a negarmi lo scooter quando finalmente raggiunsi l’età per guidarlo. Dovettero tirare un sospiro di sollievo quando fui bocciato all’esame di teoria per il patentino (non avevo studiato niente), perché l’idea che io, testa calda com’ero, fossi pure motorizzato non li faceva dormire tranquilli.
Di fronte alla bocciatura e alla decisione dei miei genitori non mi diedi per vinto. Incurante del patentino che non avevo, con qualche soldo messo da parte mi comprai uno scooter strausato da un amico e cominciai ad assaporare la libertà per le strade di Oristano, dove giravo felice. Per nasconderlo ai miei, lo parcheggiavo in un vicoletto vicino a casa, e quando invece mi fermavano i carabinieri facevo la scenetta di quello che aveva dimenticato il portafogli con i documenti. Al momento poi di comunicare le generalità, invece del mio nome davo quello di Rosario, che il patentino lo aveva, e il gioco era fatto. Anche qui non durò molto. Un giorno fui fermato da un carabiniere che conosceva sia me sia Rosario, oltre che i nostri genitori... Vi lascio immaginare come andò a finire. Ciao scooter!
Poi è arrivata quella che io chiamo “la mia redenzione”, quando mi è successa una cosa brutta che mi ha fatto riflettere parecchio e cambiare strada, lasciando perdere tutti i casini. Un punto di svolta anche questo... poco prima che mi diagnosticassero la SLA.
Era una sera d’estate e mi trovavo in un locale notturno di Oristano con un amico. Come sempre, eravamo tutti belli e tirati a lucido, ci piaceva vestirci bene quando andavamo fuori a divertirci. La serata procedeva tranquilla, fino a quando un ragazzo di un paese vicino, che conoscevamo per la sua fama di grande provocatore, ci raggiunse al tavolo e, volontariamente, versò il cocktail che aveva appena ordinato sul mio amico, sporcandogli pantaloni, giacca e camicia.
Mi alzai d’istinto e lo avvicinai per spiegargli che aveva sbagliato persone a cui dare fastidio. Lui, subito, si scusò e si allontanò. La questione sembrava risolta e noi nel frattempo eravamo andati a ballare e a divertirci. A un certo punto ebbi bisogno di andare in bagno, il mio amico mi seguì e si mise ad aspettarmi fuori. Dopo qualche minuto sentii delle voci e un po’ di movimento che veniva da dietro la porta, ma non ci feci molto caso, tanto più che eravamo in un locale affollato. Mi lavai le mani e uscii con calma. Una volta fuori, trovai il mio amico accerchiato da cinque persone, il provocatore e i suoi amici, tutti più grandi di noi di età, ma solo all’anagrafe. Lo stavano spintonando dandogli una pappina dietro l’altra. A quel punto mi arrabbiai moltissimo, mi fece impazzire che si stessero approfittando della loro superiorità numerica, che avessero scelto proprio quel momento per fare i bulli con una persona che ovviamente non si poteva difendere. Li conoscevo quei tizi, sapevo che si trattava del classico branco di deficienti che escono per dare fastidio a chi nemmeno li pensa, che in gruppo credono di essere invincibili ma presi da soli hanno paura della loro stessa ombra. Li ho sempre detestati quelli come loro, ho sempre odiato le prevaricazioni e chi si approfitta delle situazioni di vantaggio per fare male agli indifesi. Potevo anche prendere il mio amico e andare via, ma fui letteralmente accecato dalla rabbia, al punto di invitare tutti a chiarire la questione fuori dal locale.
Uscimmo e, come prima cosa, presi da parte quello del cocktail. «Ti consiglio di non cercare chi non ti cerca, perché prima o poi con il fuoco ti bruci...» gli dissi.
Lui mi chiese nuovamente scusa, poi, fingendo di abbracciarmi, cercò di darmi una testata. A quel punto, purtroppo, mi salì l’ignoranza, e gli diedi due ceffoni così forti che cominciò a barcollare. Preso dall’ansia degli altri quattro che si stavano facendo avanti, gridai al mio amico di aprire il cofano della sua macchina, parcheggiata lì vicino. Sapevo che dentro c’era il cric, perché solo qualche sera prima l’avevamo usato per cambiare una ruota. Lo impugnai con la mano sinistra, girandomi mi trovai addosso uno di quei tizi, d’istinto gli tirai un pugno con il destro che gli fece perdere l’equilibrio. Mentre cadeva, mi avventai su di lui brandendo il cric per colpirlo, ma sentii una voce che mi gridava di lasciare perdere, di fermarmi. E io, miracolosamente, anche se accecato dalla rabbia, mi fermai. Se lo avessi colpito, lo avrei ucciso, un secondo ancora e sarebbe potuta accedere una tragedia. Grazie a Dio non andò così.
Quei tipi capirono che non era il caso di proseguire oltre e abbandonarono il parcheggio del locale, io invece rimasi lì, pietrificato, quasi sotto choc! Lo stavo per ammazzare, questione di poco. Quella scena continuò a ripetersi nella mia mente per tutta la notte che seguì e per giorni. Ancora oggi la rivedo nitida. Al mattino, quando mi svegliai, giurai a me stesso che l’avrei piantata con quelle cazzate che potevano avere conseguenze gravissime! Quella tragedia sfiorata mi convinse a rigare dritto e rinvigorì la mia Fede. Fu grazie a Dio, ne sono convinto, che non ammazzai quel ragazzo. Dio che aveva fatto un dono a lui e dato un’occasione a me di cambiare e impiegare la mia energia in modo positivo. Se non fosse capitato quel fatto, oggi non avrei la Fede e tutto il coraggio che da questa traggo per affrontare ogni nuovo ostacolo che incontro. Quel giorno mi feci anche un’altra promessa: non avrei mai più usato le mani per fare a botte, le avrei impiegate invece per fare qualcosa di buono. Come cucinare.
La passione per la cucina l’ho sempre avuta. Era praticamente nel mio DNA: l’ho ereditata da papà, che a sua volta l’ha presa da sua madre. Per nonna, originaria di Cerignola, in provincia di Foggia, più che una passione era un obbligo che svolgeva però con amore, non si spiegherebbe altrimenti tanta bontà! Madre di undici figli, sette dei quali maschi, era obbligata a cucinare cibi sostanziosi e a utilizzare tutto quello che aveva in frigo o nella dispensa per evitare gli sprechi. Ha cr...

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