Comunicare qualcosa, comunicare con qualcuno
Qualsiasi organismo vivente sa comunicare. Basta che sia sensibile allâambiente in cui si trova e vi interagisca.
Gli animali comunicano scambiandosi segnali di sesso, di posizione sociale allâinterno del gruppo, di pericolo, di attacco, di resa.
In alcune specie â per esempio i colombi â il sistema dei segnali si trasmette con il codice genetico mentre altre â per esempio i fringuelli â lo imparano dai genitori. Ogni specie usa segnali di natura diversa (chimica, ottica, sonora) secondo le circostanze e la conformazione degli organi di senso.
La trasmissione di segnali chimici, i feromoni, Ăš fondamentale per molti mammiferi, che li impiegano come attraenti sessuali, per marcare il territorio, per indicare la condizione fisiologica individuale.
Sappiamo che la capacitĂ di comunicare Ăš connessa con la sopravvivenza dellâindividuo e della specie. Che le specie sviluppano linguaggi tanto piĂč complessi quanto maggiore Ăš la loro complessitĂ sociale e che specie separate parlano dialetti differenti: gli storni italiani e quelli inglesi non cantano allo stesso modo. Api italiane trasportate in un alveare tedesco lavorano come le altre, ma la loro danza-messaggio viene capita solo in parte.
Esistono anche forme di comunicazione tra specie diverse: chiunque possiede un cane o un gatto lo sa benissimo.
Oggi molti sono orientati a interpretare in termini di processo di comunicazione anche il comportamento della semplice â si fa per dire â materia vivente. I messaggi codificati nel Dna a livello molecolare contengono unâinformazione genetica che puĂČ essere trascritta dallâRna nel proprio codice, lievemente diverso, e poi trasmessa, dando luogo alla sintesi delle proteine.
Sappiamo che certe caratteristiche progettuali restano costanti sia nella comunicazione di molti sistemi non umani che nel linguaggio umano, e che comunicare Ăš rilevante per ogni sistema strutturato e finalizzato (dotato, cioĂš, di un ordine tendenzialmente costante e di uno scopo). Il fatto stesso che un sistema sia riconoscibile come tale e possa operare elaborando informazione, correggendo i propri errori (e riproducendosi se Ăš un sistema organico â cioĂš un essere vivente) Ăš connesso con quanto e come comunica al suo interno e con altri sistemi.
Nel linguaggio corrente usiamo il termine comunicare in due sensi. Parliamo sia di comunicare qualcosa (verbo transitivo: esprimere qualcosa), sia di comunicare a qualcuno o, meglio ancora, con qualcuno (verbo intransitivo: trasmettere qualcosa a qualcuno).
Esprimere qualcosa, per qualsiasi sistema strutturato e finalizzato, Ăš un atto elementare: lâunica condizione per poterlo fare Ăš esistere, in veste di alligatori, di uffici marketing, di libellule o di ragionier Trapunzoni.
Ma il poter fare Ăš diverso dal fare. Lâatto materiale di esprimere qualcosa coincide con il trasmettere quel qualcosa a un qualcuno se viene compiuto allâinterno di un processo (una sequenza di atti collegati tra loro) che si realizza solo se un qualcun altro câĂš, e se il qualcun altro percepisce in qualche modo quanto gli Ăš stato trasmesso, e in qualche altro modo reagisce.
Per comunicare nel senso piĂč completo del termine bisogna essere (almeno) in due: dunque lâaltra condizione necessaria (e sufficiente) Ăš la presenza di un qualcun altro.
Questo implica che, per ciascuno dei due soggetti, il processo di comunicazione sia connesso con il percepire lâaltro e con qualche forma di ragionamento sul fatto che lâaltro comprenda e reagisca.
Oggi tutti sono piĂč o meno dâaccordo nel definire propriamente «comunicazione» non lâatto di esprimersi, ma il processo del trasmettere. Qualsiasi buon testo sullâargomento dice che comunicare Ăš lo scambio di informazioni tra due o piĂč entitĂ che possono emettere e ricevere segnali: un processo interattivo in cui câĂš un meccanismo di feedback o retroazione.
Il ragionier Trapunzoni non puĂČ Â«comunicare» a «nessuno», come non puĂČ Â«guarire» nessuno o «rimproverare» nessuno. Al massimo puĂČ comunicare con se stesso, cosĂŹ come puĂČ guarire se stesso o il proprio mal di testa, o rimproverarsi per aver fatto tardi la sera prima. Il verbo viene usato in modo riflessivo: Trapunzoni Ăš soggetto e oggetto dellâazione ed esiste, anche se ammaccato, in entrambi i ruoli.
Il ragionier Trapunzoni che, arrabbiato, insulta un cuscino, progetta un processo di comunicazione (insultare il capufficio) ma non sta esattamente compiendo un atto del processo. In assenza del capufficio, per poter non solo esprimere, ma anche trasmettere la propria rabbia, Trapunzoni deve almeno insultare il gatto. O il cuscino, ma in modo abbastanza rumoroso da infastidire i vicini. Insomma, qualcuno deve accorgersi di quanto Trapunzoni fa e darne segno: reagire.
Noi tendiamo a sopravvalutare la parte del processo di comunicazione di cui siamo protagonisti attivi e a considerare irrilevante tutto il resto. Ci concentriamo sul qualcosa, lasciando talmente implicito il qualcuno da perdercelo per strada.
Questo causa un sacco di equivoci e di guai.
Comunicare con qualcuno facendogli, magari, capire il qualcosa che si vuole esprimere Ăš un risultato (per niente naturale e automatico) connesso con le caratteristiche delle entitĂ coinvolte nel processo e con lâambiente.
La differenza fra comunicare qualcosa, comunicare a qualcuno e comunicare con qualcuno Ăš simile a quella che câĂš (potete scoprirla in qualsiasi luna park) tra il fatto che una freccetta sia lanciata, il fatto che la freccetta arrivi a piantarsi su una superficie, il fatto che sulla superficie sia dipinto un bersaglio, il fatto che questo venga centrato e il fatto che venga guadagnata in premio una bambolina.
Non bisogna, poi, dimenticare che lâintera faccenda puĂČ essere considerata sia dal punto di vista del lanciare che da quello della freccetta, del bersaglio o della bambolina.
Lâobiettivo di questo libro Ăš descrivere come acchiappare la bambolina. Per guadagnarsela servono alcune informazioni di base sulle teorie e le tecniche di lancio delle freccette.
Io Tarzan, tu Jane
Gerald Edelman, premio Nobel per la biologia, dice che solo nella parte recente della nostra evoluzione come genere umano avviene il fatto che ci separa in modo netto dagli altri viventi: sviluppiamo una coscienza di noi stessi.
Ă una differenza che fa la differenza.
Ci riusciamo grazie allâinvenzione di un linguaggio verbale articolato, fatto di parole tenute insieme dal sistema di regole che oggi chiamiamo grammatica.
Per dirla in breve: fra i quattro e i tre milioni e mezzo di anni fa alcuni australopitechi cominciano a separarsi dalle grandi scimmie e a camminare da bipedi. Questo permette loro di afferrare o trasportare con le mani e di vedere piĂč lontano. Impiegano un paio di milioni di anni per conquistarsi un minimo di capacitĂ tecniche e la definizione di Homo habilis.
Circa due milioni di anni fa, in Africa, attorno al lago Vittoria, i nostri antenati sperimentano gli effetti di un cambiamento anatomico importante: il loro collo si allunga e la posizione della laringe â lâorgano che permette di produrre suoni â cambia. Grazie allâabbassamento della laringe, unici fra i mammiferi, diventano capaci di emettere una gamma ampia di suoni distinti e costanti.
Non solo sono fisiologicamente in grado di parlare, ma cominciano a farlo. Probabilmente, per molte centinaia di migliaia di anni, sono brevi sequenze di suoni che hanno una cadenza ritmica, semplificano la caccia e favoriscono il corteggiamento.
Tutto questo ha conseguenze sia neurologiche che culturali: piĂč o meno un milione di anni fa lâHomo erectus ha giĂ un cervello di 800-1100 cm3 contro i 600 dellâHomo habilis ed Ăš capace di costruire ripari e strumenti, vivere in gruppi, dividersi il lavoro e le porzioni di cibo, tutta roba che non si puĂČ fare senza mettersi almeno un poâ dâaccordo e organizzarsi, anche se (per dirla con Tullio De Mauro) «a forza di mugolii, muggiti, latrati e gestualitĂ elaborata».
350.000 anni fa i nostri antenati iniziano a controllare il fuoco per difendersi e cucinare e cominciano, secondo De Mauro e altri, a possedere e usare «codici in cui una stessa parola o frase puĂČ indicare ora il crudo ora il cotto, ora lâalimento dâoggi ora quello di ieri».
LâHomo sapiens appare forse giĂ 200.000 anni fa, oppure (secondo i primi reperti sicuri) attorno ai 100.000 anni fa. Tra questa data e i 30.000 anni fa si completano i cambiamenti fisiologici che lo mettono definitivamente in grado di parlare. Il suo cervello Ăš diventato piĂč complesso, ha un volume medio di 1500 cm3 e comprende due aree (quella di Broca e quella di Wernicke) specializzate nelle attivitĂ linguistiche.
Intanto sparisce lâuomo di Neandertal, contemporaneo e ugualmente organizzato (vive in gruppi, usa utensili, ha una produzione artistica, si prende cura dei vecchi â i reperti ci dicono che un Neandertal su cinque supera i cinquantâanni, il che Ăš sorprendente date le condizioni di vita dellâepoca â e seppellisce i suoi morti) ma molto piĂč scimmiesco nellâaspetto e fisiologicamente incapace, per esempio, di pronunciare le i, le u e le o.
Il possesso di un linguaggio strutturato e combinatorio, che va oltre lo scambio di segnali utili a sopravvivere, Ăš caratteristico di tutti gli esseri umani.
La funzione linguistica Ăš collegata con diverse funzioni cerebrali, tanto da poter essere definita un organo mentale dal linguista americano Noam Chomsky che, poichĂ© le proprietĂ strutturali del linguaggio sono egualmente presenti in ogni individuo di ogni cultura, arriva a presupporre lâesistenza di qualcosa che potrebbe essere definito una grammatica universale.
Grazie al linguaggio abbiamo acquistato consapevolezza di noi come fonte di espressione: continuiamo a sapere di essere noi, e noi stessi, anche se il nostro corpo e la nostra faccia si modificano nel tempo e se cambiano la nostra esperienza e il mondo, nella misura in cui siamo in grado di dire io, di rendere io soggetto di azioni e pensieri anche riflessivi e di assegnare a io dei ricordi di sé.
Questa coscienza di sĂ© si conferma attraverso il confronto con un tu nei cui riguardi io puĂČ definirsi per somiglianze e differenze. Tarzan, che ha sempre frequentato scimmie, diventa consapevole di essere chi Ăš trovandosi di fronte a un tu, Jane che gli fa decidere di dire io, Tarzan.
A questo punto possiamo immaginare che, poichĂ© Ăš cosciente di sĂ© e ha imparato a dire e pensare io, ogni volta che Tarzan comunica con Jane lo faccia ricordando di essere proprio lui, Tarzan comâĂš, che sta parlando con la ragazza Jane.
E possiamo immaginare che Jane possa capire (o non capire) quanto Tarzan le dice, e contemporaneamente possa capire (o no) anche qualcosâaltro di Tarzan come lui pensa e crede di essere.
Parlandoci di tutto ci parliamo anche, e sempre, di noi.
E questa Ăš unâaltra differenza che fa la differenza.
Inventando la scrittura abbiamo cominciato a comunicare senza bisogno di trovarci uno di fronte allâaltro. Si tratta di una faccenda recente: la scrittura per ideogrammi ha, secondo gli ultimi ritrovamenti nella valle dellâIndo, qualcosa come 5500 anni. Il primo alfabeto, nato tra Egitto e Israele, Ăš stato inventato verso la fine del secondo millennio avanti Cristo. Prevede, invece che un segno per ognuna delle parole (tantissime) che possiamo pronunciare, un segno per ognuno dei suoni (pochi) che usiamo per comporre qualsiasi parola.
PoichĂ© imparare un paio di decine di segni Ăš piĂč sem...