Farsi capire
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Farsi capire

Comunicare in modo efficace, interessante, persuasivo

Annamaria Testa

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  1. 432 Seiten
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Farsi capire

Comunicare in modo efficace, interessante, persuasivo

Annamaria Testa

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Über dieses Buch

Non facciamo altro, in fondo, dalla mattina alla sera: comunicare esprimendo intenzioni, desideri, emozioni, bisogni. È un'attivitĂ  essenziale, ed Ăš un talento che si puĂČ sviluppare. Tra i maggiori esperti di comunicazione in Italia, Annamaria Testa spiega in questo volume i presupposti, i linguaggi e le tecniche per comunicare in modo comprensibile, interessante e persuasivo adattando il nostro stile ai contesti e agli scopi che vogliamo raggiungere: dalle competenze richieste sul lavoro al ruolo delle emozioni, dagli accorgimenti per essere piĂč chiari alla capacitĂ  di argomentare le proprie opinioni, l'autrice mostra come la comunicazione in tutte le sue forme (scritta, parlata, sui media o nel web) possa trasformarsi in un atto crea-tivo in cui la nostra visione del mondo, ciĂČ che pensiamo e, in sostanza, ciĂČ che siamo, trovano - nella relazione con l'altro - tutto il loro significato.

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Information

Verlag
BUR
Jahr
2021
ISBN
9788831803113
1

La cosa piĂč semplice del mondo

Comunicare qualcosa, comunicare con qualcuno

Qualsiasi organismo vivente sa comunicare. Basta che sia sensibile all’ambiente in cui si trova e vi interagisca.
Gli animali comunicano scambiandosi segnali di sesso, di posizione sociale all’interno del gruppo, di pericolo, di attacco, di resa.
In alcune specie – per esempio i colombi – il sistema dei segnali si trasmette con il codice genetico mentre altre – per esempio i fringuelli – lo imparano dai genitori. Ogni specie usa segnali di natura diversa (chimica, ottica, sonora) secondo le circostanze e la conformazione degli organi di senso.
La trasmissione di segnali chimici, i feromoni, Ăš fondamentale per molti mammiferi, che li impiegano come attraenti sessuali, per marcare il territorio, per indicare la condizione fisiologica individuale.
Sappiamo che la capacitĂ  di comunicare Ăš connessa con la sopravvivenza dell’individuo e della specie. Che le specie sviluppano linguaggi tanto piĂč complessi quanto maggiore Ăš la loro complessitĂ  sociale e che specie separate parlano dialetti differenti: gli storni italiani e quelli inglesi non cantano allo stesso modo. Api italiane trasportate in un alveare tedesco lavorano come le altre, ma la loro danza-messaggio viene capita solo in parte.
Esistono anche forme di comunicazione tra specie diverse: chiunque possiede un cane o un gatto lo sa benissimo.
Oggi molti sono orientati a interpretare in termini di processo di comunicazione anche il comportamento della semplice – si fa per dire – materia vivente. I messaggi codificati nel Dna a livello molecolare contengono un’informazione genetica che puĂČ essere trascritta dall’Rna nel proprio codice, lievemente diverso, e poi trasmessa, dando luogo alla sintesi delle proteine.
Sappiamo che certe caratteristiche progettuali restano costanti sia nella comunicazione di molti sistemi non umani che nel linguaggio umano, e che comunicare ù rilevante per ogni sistema strutturato e finalizzato (dotato, cioù, di un ordine tendenzialmente costante e di uno scopo). Il fatto stesso che un sistema sia riconoscibile come tale e possa operare elaborando informazione, correggendo i propri errori (e riproducendosi se ù un sistema organico – cioù un essere vivente) ù connesso con quanto e come comunica al suo interno e con altri sistemi.
Nel linguaggio corrente usiamo il termine comunicare in due sensi. Parliamo sia di comunicare qualcosa (verbo transitivo: esprimere qualcosa), sia di comunicare a qualcuno o, meglio ancora, con qualcuno (verbo intransitivo: trasmettere qualcosa a qualcuno).
Esprimere qualcosa, per qualsiasi sistema strutturato e finalizzato, ù un atto elementare: l’unica condizione per poterlo fare ù esistere, in veste di alligatori, di uffici marketing, di libellule o di ragionier Trapunzoni.
Ma il poter fare ù diverso dal fare. L’atto materiale di esprimere qualcosa coincide con il trasmettere quel qualcosa a un qualcuno se viene compiuto all’interno di un processo (una sequenza di atti collegati tra loro) che si realizza solo se un qualcun altro c’ù, e se il qualcun altro percepisce in qualche modo quanto gli ù stato trasmesso, e in qualche altro modo reagisce.
Per comunicare nel senso piĂč completo del termine bisogna essere (almeno) in due: dunque l’altra condizione necessaria (e sufficiente) Ăš la presenza di un qualcun altro.
Questo implica che, per ciascuno dei due soggetti, il processo di comunicazione sia connesso con il percepire l’altro e con qualche forma di ragionamento sul fatto che l’altro comprenda e reagisca.
Oggi tutti sono piĂč o meno d’accordo nel definire propriamente «comunicazione» non l’atto di esprimersi, ma il processo del trasmettere. Qualsiasi buon testo sull’argomento dice che comunicare Ăš lo scambio di informazioni tra due o piĂč entitĂ  che possono emettere e ricevere segnali: un processo interattivo in cui c’ù un meccanismo di feedback o retroazione.
Il ragionier Trapunzoni non puĂČ Â«comunicare» a «nessuno», come non puĂČ Â«guarire» nessuno o «rimproverare» nessuno. Al massimo puĂČ comunicare con se stesso, cosĂŹ come puĂČ guarire se stesso o il proprio mal di testa, o rimproverarsi per aver fatto tardi la sera prima. Il verbo viene usato in modo riflessivo: Trapunzoni Ăš soggetto e oggetto dell’azione ed esiste, anche se ammaccato, in entrambi i ruoli.
Il ragionier Trapunzoni che, arrabbiato, insulta un cuscino, progetta un processo di comunicazione (insultare il capufficio) ma non sta esattamente compiendo un atto del processo. In assenza del capufficio, per poter non solo esprimere, ma anche trasmettere la propria rabbia, Trapunzoni deve almeno insultare il gatto. O il cuscino, ma in modo abbastanza rumoroso da infastidire i vicini. Insomma, qualcuno deve accorgersi di quanto Trapunzoni fa e darne segno: reagire.
Noi tendiamo a sopravvalutare la parte del processo di comunicazione di cui siamo protagonisti attivi e a considerare irrilevante tutto il resto. Ci concentriamo sul qualcosa, lasciando talmente implicito il qualcuno da perdercelo per strada.
Questo causa un sacco di equivoci e di guai.
Comunicare con qualcuno facendogli, magari, capire il qualcosa che si vuole esprimere ù un risultato (per niente naturale e automatico) connesso con le caratteristiche delle entità coinvolte nel processo e con l’ambiente.
La differenza fra comunicare qualcosa, comunicare a qualcuno e comunicare con qualcuno ù simile a quella che c’ù (potete scoprirla in qualsiasi luna park) tra il fatto che una freccetta sia lanciata, il fatto che la freccetta arrivi a piantarsi su una superficie, il fatto che sulla superficie sia dipinto un bersaglio, il fatto che questo venga centrato e il fatto che venga guadagnata in premio una bambolina.
Non bisogna, poi, dimenticare che l’intera faccenda puĂČ essere considerata sia dal punto di vista del lanciare che da quello della freccetta, del bersaglio o della bambolina.
L’obiettivo di questo libro ù descrivere come acchiappare la bambolina. Per guadagnarsela servono alcune informazioni di base sulle teorie e le tecniche di lancio delle freccette.

Io Tarzan, tu Jane

Gerald Edelman, premio Nobel per la biologia, dice che solo nella parte recente della nostra evoluzione come genere umano avviene il fatto che ci separa in modo netto dagli altri viventi: sviluppiamo una coscienza di noi stessi.
È una differenza che fa la differenza.
Ci riusciamo grazie all’invenzione di un linguaggio verbale articolato, fatto di parole tenute insieme dal sistema di regole che oggi chiamiamo grammatica.
Per dirla in breve: fra i quattro e i tre milioni e mezzo di anni fa alcuni australopitechi cominciano a separarsi dalle grandi scimmie e a camminare da bipedi. Questo permette loro di afferrare o trasportare con le mani e di vedere piĂč lontano. Impiegano un paio di milioni di anni per conquistarsi un minimo di capacitĂ  tecniche e la definizione di Homo habilis.
Circa due milioni di anni fa, in Africa, attorno al lago Vittoria, i nostri antenati sperimentano gli effetti di un cambiamento anatomico importante: il loro collo si allunga e la posizione della laringe – l’organo che permette di produrre suoni – cambia. Grazie all’abbassamento della laringe, unici fra i mammiferi, diventano capaci di emettere una gamma ampia di suoni distinti e costanti.
Non solo sono fisiologicamente in grado di parlare, ma cominciano a farlo. Probabilmente, per molte centinaia di migliaia di anni, sono brevi sequenze di suoni che hanno una cadenza ritmica, semplificano la caccia e favoriscono il corteggiamento.
Tutto questo ha conseguenze sia neurologiche che culturali: piĂč o meno un milione di anni fa l’Homo erectus ha giĂ  un cervello di 800-1100 cm3 contro i 600 dell’Homo habilis ed Ăš capace di costruire ripari e strumenti, vivere in gruppi, dividersi il lavoro e le porzioni di cibo, tutta roba che non si puĂČ fare senza mettersi almeno un po’ d’accordo e organizzarsi, anche se (per dirla con Tullio De Mauro) «a forza di mugolii, muggiti, latrati e gestualitĂ  elaborata».
350.000 anni fa i nostri antenati iniziano a controllare il fuoco per difendersi e cucinare e cominciano, secondo De Mauro e altri, a possedere e usare «codici in cui una stessa parola o frase puĂČ indicare ora il crudo ora il cotto, ora l’alimento d’oggi ora quello di ieri».
L’Homo sapiens appare forse giĂ  200.000 anni fa, oppure (secondo i primi reperti sicuri) attorno ai 100.000 anni fa. Tra questa data e i 30.000 anni fa si completano i cambiamenti fisiologici che lo mettono definitivamente in grado di parlare. Il suo cervello Ăš diventato piĂč complesso, ha un volume medio di 1500 cm3 e comprende due aree (quella di Broca e quella di Wernicke) specializzate nelle attivitĂ  linguistiche.
Intanto sparisce l’uomo di Neandertal, contemporaneo e ugualmente organizzato (vive in gruppi, usa utensili, ha una produzione artistica, si prende cura dei vecchi – i reperti ci dicono che un Neandertal su cinque supera i cinquant’anni, il che Ăš sorprendente date le condizioni di vita dell’epoca – e seppellisce i suoi morti) ma molto piĂč scimmiesco nell’aspetto e fisiologicamente incapace, per esempio, di pronunciare le i, le u e le o.
Il possesso di un linguaggio strutturato e combinatorio, che va oltre lo scambio di segnali utili a sopravvivere, Ăš caratteristico di tutti gli esseri umani.
La funzione linguistica Ăš collegata con diverse funzioni cerebrali, tanto da poter essere definita un organo mentale dal linguista americano Noam Chomsky che, poichĂ© le proprietĂ  strutturali del linguaggio sono egualmente presenti in ogni individuo di ogni cultura, arriva a presupporre l’esistenza di qualcosa che potrebbe essere definito una grammatica universale.
Grazie al linguaggio abbiamo acquistato consapevolezza di noi come fonte di espressione: continuiamo a sapere di essere noi, e noi stessi, anche se il nostro corpo e la nostra faccia si modificano nel tempo e se cambiano la nostra esperienza e il mondo, nella misura in cui siamo in grado di dire io, di rendere io soggetto di azioni e pensieri anche riflessivi e di assegnare a io dei ricordi di sé.
Questa coscienza di sĂ© si conferma attraverso il confronto con un tu nei cui riguardi io puĂČ definirsi per somiglianze e differenze. Tarzan, che ha sempre frequentato scimmie, diventa consapevole di essere chi Ăš trovandosi di fronte a un tu, Jane che gli fa decidere di dire io, Tarzan.
A questo punto possiamo immaginare che, poichĂ© Ăš cosciente di sĂ© e ha imparato a dire e pensare io, ogni volta che Tarzan comunica con Jane lo faccia ricordando di essere proprio lui, Tarzan com’ù, che sta parlando con la ragazza Jane.
E possiamo immaginare che Jane possa capire (o non capire) quanto Tarzan le dice, e contemporaneamente possa capire (o no) anche qualcos’altro di Tarzan come lui pensa e crede di essere.
Parlandoci di tutto ci parliamo anche, e sempre, di noi.
E questa ù un’altra differenza che fa la differenza.
Inventando la scrittura abbiamo cominciato a comunicare senza bisogno di trovarci uno di fronte all’altro. Si tratta di una faccenda recente: la scrittura per ideogrammi ha, secondo gli ultimi ritrovamenti nella valle dell’Indo, qualcosa come 5500 anni. Il primo alfabeto, nato tra Egitto e Israele, ù stato inventato verso la fine del secondo millennio avanti Cristo. Prevede, invece che un segno per ognuna delle parole (tantissime) che possiamo pronunciare, un segno per ognuno dei suoni (pochi) che usiamo per comporre qualsiasi parola.
PoichĂ© imparare un paio di decine di segni Ăš piĂč sem...

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