Il massacro
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Il massacro

L'orrore nazista raccontato in un'immagine

Wendy Lower

  1. 272 Seiten
  2. Italian
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Il massacro

L'orrore nazista raccontato in un'immagine

Wendy Lower

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Nell'agosto 2009 Wendy Lower portava avanti le proprie ricerche presso l'archivio dello United States Holocaust Memorial Museum, a Washington dc: voleva trovare le prove per incriminare il piĂč alto ufficiale delle ss ancora in vita. Non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi per le mani ciĂČ che le mostrarono due giornalisti di Praga: una fotografia, scattata a Miropol, in Ucraina, il 13 ottobre 1941, in cui si assiste all'esecuzione di una famiglia di origini ebraiche da parte di due militari tedeschi spalleggiati da alcuni collaborazionisti locali.
Il genocidio compiuto dai nazisti e dai loro alleati Ăš uno degli orrori meglio documentati della storia, eppure sono poche le immagini che mostrano gli aguzzini in azione. Quella che la Lower aveva davanti era una testimonianza tanto unica quanto straziante; un istante di barbarie cristallizzato sulla pellicola, a rammentare in modo vivido e atroce una realtĂ  particolare dell'Olocausto: le fucilazioni di massa perpetrate tra il 1940 e il 1941 nell'Europa dell'Est, prima che iniziassero le deportazioni nei campi di sterminio.
Per ricostruire quella vicenda sepolta tra le tragiche pieghe della Shoah - la donna appena colpita, ancora china a tenere la mano del figlio, la testa avvolta dalla nuvola di fumo che si alza dai fucili; i volti degli astanti, tra il compiaciuto e l'indifferente; a terra i vestiti di un uomo, che con tutta probabilità era finito nella fossa comune prima di lei
 - Wendy Lower decise di imbarcarsi in una ricerca che si sarebbe rivelata decennale, e l'avrebbe portata dagli Stati Uniti all'Ucraina, dalla Slovacchia alla Germania, fino in Israele. Oggi, grazie a questo immane lavoro di indagine, ù pronta a restituire alla storia il nome di vittime, carnefici e testimoni, fotografo compreso.
Partendo da una semplice fotografia, una studiosa di raro talento Ăš riuscita a gettare uno sguardo nuovo e inquietante sul momento piĂč tragico della storia novecentesca.

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Information

Verlag
RIZZOLI
Jahr
2021
ISBN
9788831803090
1

La fotografia

Nell’agosto del 2009 ero negli archivi dello United States Holocaust Memorial Museum, dove stavo cercando documenti nazisti che permettessero di avviare un’azione penale contro il piĂč alto ufficiale delle SS ancora vivo in Germania all’epoca. Questo «ultimo nazista» era Bernhard Frank, l’ex ObersturmbannfĂŒhrer – il corrispettivo di un tenente colonnello – al comando delle forze incaricate di proteggere il Berghof, la proprietĂ  di Adolf Hitler sulle Alpi. Frank era un pupillo di Heinrich Himmler, il comandante in capo delle SS, responsabile del genocidio degli ebrei europei. All’inizio di quello che Ăš ormai chiamato «Olocausto dei proiettili», Frank aveva ordinato che nelle prime fucilazioni di massa non fossero risparmiate nemmeno le donne, assicurandosi che i dettagli di quelle operazioni venissero accuratamente registrati. Tra il luglio e l’ottobre del 1941 aveva documentato l’assassinio di oltre cinquantamila uomini, donne e bambini ebrei nei campi, nelle paludi e nei burroni dell’Ucraina e della Bielorussia.
Mentre leggevo i microfilm dei rapporti delle SS, Vadim Altskan, l’esperto del museo sull’Ucraina, mi interruppe per chiedermi se avessi tempo di dare un’occhiata a una cosa. Mi presentĂČ due giovani giornalisti di Praga che volevano mostrarmi una fotografia. Secondo la documentazione di cui erano in possesso, era stata scattata a Miropol, in Ucraina, il 13 ottobre 1941.1
Da alcuni dettagli intuii a prima vista che l’immagine risaliva al periodo dell’Olocausto: le uniformi naziste, la foggia dei vestiti dei civili europei, il corpo in legno dei fucili, e una donna e un bambino – parenti, forse madre e figlio – uccisi dai tedeschi e dai collaborazionisti locali sul ciglio di un burrone. Nei decenni dedicati alle ricerche sull’Olocausto, avevo visto migliaia di fotografie e ne avevo studiate attentamente centinaia, cercando immagini che mostrassero gli assassini nell’atto di uccidere. Troppi (come Bernhard Frank, che sarebbe morto nel 2011) l’avevano passata liscia mentendo sotto giuramento. Se una foto avesse permesso di riconoscere i colpevoli di una strage, si sarebbe ottenuta una prova inconfutabile del loro coinvolgimento. Furono quelli i pensieri e le impressioni che mi assalirono qualche secondo dopo aver visto la fotografia per la prima volta.2
BenchĂ© le testimonianze documentali e fotografiche dell’Olocausto siano piĂč numerose di quelle di qualunque altro genocidio, le immagini schiaccianti come questa, che colgono gli assassini in flagrante, sono rare. Anzi, ne esistono cosĂŹ poche che posso elencarle qui: un ufficiale delle SS che punta il fucile contro una famiglia ebrea in fuga nei campi di Ivanhorod, in Ucraina; uomini e bambini ebrei nudi, costretti a stendersi a faccia in giĂč in una fossa (il «metodo delle sardine») mentre i nazisti li fucilano a Ponary, in Lituania; donne e bambini ebrei, nel momento della morte, che cadono tra le dune di sabbia a Liepaja, in Lettonia; un plotone d’esecuzione nell’atto di far fuoco a Tiraspol, in Moldavia; donne e bambine ebree nude che vengono uccise dalla milizia ucraina a Mizocz; una foto scattata in Ucraina, con la didascalia «ultimi secondi di vita degli ebrei a Dubno», che mostra alcuni uomini giustiziati contro un muro di mattoni; un’altra, anch’essa proveniente dall’Ucraina, con la scritta «l’ultimo ebreo di Vinnycja», raffigurante un uomo inginocchiato davanti a una fossa con una pistola puntata alla testa; gli ebrei di Kovno (Kaunas) uccisi a randellate dai pogromisti lituani; e altre senza didascalie, apparentemente scattate nei Paesi baltici o in Bielorussia, che raccontano l’Olocausto dei proiettili. Quasi tutte queste immagini sono state ingrandite ed esposte nei musei; molte sono reperibili su Internet. Sono poche, ma testimoniano l’eccidio di milioni di persone. Queste iconiche istantanee dell’Olocausto danno la falsa impressione che simili immagini siano numerose, ma non superano qualche decina, e sappiamo poco, se non niente, delle persone che vi compaiono, e ancora meno di coloro che le hanno scattate.3
Cosa si fa quando si scopre una foto che documenta un omicidio? Immaginate, a titolo di confronto, di curiosare tra le bancarelle di un mercatino delle pulci, in un negozio di antiquariato o nella soffitta della vostra casa nuova, e di trovare una fotografia che mostra l’omicidio di una persona, con l’assassino in bella vista. Se il crimine sembra recente, commesso nella vostra epoca, probabilmente portereste l’immagine alla polizia e sporgereste denuncia affinchĂ© venga avviata un’indagine. E se il crimine fosse un linciaggio di un secolo fa? O una fucilazione del 1941? Fotografia di un massacro racconta la storia di una fotografia e della sua capacitĂ  di catturare la nostra attenzione, di rivelare una miniera di informazioni sull’Olocausto e di richiedere un intervento.
Chiesi ai giornalisti quale fosse la storia della fotografia. Dove l’avevano trovata? Mi spiegarono che era chiusa a chiave negli archivi del quartier generale del StĂĄtnĂ­ Bezpecnost (letteralmente, Sicurezza di Stato), il vecchio corrispettivo del KGB nella Cecoslovacchia controllata dai sovietici. Era occorso il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 per portare alla luce l’immagine di quella strage, con una famiglia sterminata tutta insieme. È una prova eclatante, che mostra chiaramente la milizia locale intenta a sparare insieme ai tedeschi nell’Ucraina del periodo bellico, dove piĂč di un milione di ebrei fu massacrato alla luce del sole. E, aggiunsero i giornalisti, il fotografo aveva testimoniato su quell’episodio negli anni Cinquanta, spiegando chiaramente che gli assassini erano ucraini che conoscevano alcune delle vittime.
L’Olocausto fu un’aggressione contro gli ebrei guidata dai tedeschi, ma non solo. Negli ultimi decenni, infatti, il vasto e profondo coinvolgimento dei non tedeschi si Ăš delineato con maggiore chiarezza, rendendo la parola «collaborazionismo» piĂč sporca del fango e del sangue che insudiciavano le uniformi e le scarpe degli assassini. I collaborazionisti raffigurati qui non erano quisling illustri, non erano i leader fascisti traditori che, in vari Paesi, si schierarono con Hitler. Piuttosto, erano ufficiali della polizia locale che uccisero i loro concittadini. Oggi, piĂč di settant’anni dopo, gli studiosi dell’Europa orientale che cercano e pubblicano informazioni su questi killer in Ucraina, Polonia, Ungheria e altrove vengono messi a tacere, minacciati e addirittura criminalizzati per aver rivangato l’oscuro passato dell’antisemitismo, dell’aviditĂ , dell’opportunismo e della violenza collettiva. Il tentativo di coprire questa onta storica si puĂČ rilevare nei discorsi revisionisti, nei media sottoposti al controllo statale e nelle segretazioni che tengono i documenti sotto chiave negli archivi. Tuttavia la prova del collaborazionismo locale presente in questa vivida fotografia Ăš incontestabile, cosĂŹ come le ossa degli ebrei massacrati contenute nelle fosse comuni appena sotto la superficie di questi Paesi dell’Europa orientale.
Appena vidi la foto che immortalava la scena del crimine e la presi in mano, provai l’impulso di strapparla per liberare le vittime congelate in quel momento atroce. L’immagine cristallizza un evento nel tempo, ma ero consapevole che facesse parte di divenire fluido. Cosa aveva preceduto quel momento di morte, cosa l’aveva seguito, e cosa era successo alle persone presenti nell’immagine? Forse trovando risposta a queste domande, avrei potuto smascherare gli assassini e restituire un po’ di vita e di dignità alle vittime.
Ci sono quattro uomini riuniti, una banda armata in formazione sciolta. Sullo sfondo vediamo i due comandanti tedeschi e, in primo piano sulla destra, due soldati della milizia ucraina che radunano le vittime. Uno dei due ufficiali tedeschi, con la giacca stirata e i calzoni da equitazione, e il miliziano ucraino alle sue spalle, con un pesante cappotto di lana dell’Armata rossa, hanno appena premuto i grilletti.
Le vittime del massacro furono condotte sull’orlo della fossa e fucilate così rapidamente, una dopo l’altra, che il susseguirsi di spari produsse sbuffi di fumo ancora sospesi nell’aria. Il fucile dell’ucraino ù a qualche centimetro dalla testa della donna, oscurata dal fumo.
Lei Ăš piegata in avanti, con un vestito a pois, i collant scuri e dĂ©colletĂ© di cuoio. Tiene per mano un bambino scalzo che, con indosso pantaloni e un cappottino su misura, sta per cadere in ginocchio. In primo piano si vedono un paio di stivaletti maschili in pelle, come se qualcuno li avesse appena tolti, come se avesse usato la punta della calzatura destra per sfilare il tallone della sinistra. LĂŹ accanto c’ù un cappotto steso su un fianco, come la figura di un uomo a riposo. Sul terreno sono sparpagliati alcuni bossoli, i resti del massacro.4
Le vittime sono sull’orlo di un burrone. La donna, che sta morendo per la ferita alla testa, trascina con sĂ© nella fossa il bambino ancora vivo. Secondo il protocollo nazista standard, era vietato sprecare proiettili per i piccoli ebrei, quindi si lasciava che venissero schiacciati dal peso dei loro familiari e soffocati dal sangue e dalla terra ammucchiata sopra i loro corpi.
Doveva essere metà mattina. Al momento dello scatto i raggi del sole si riversarono con forza attraverso il diaframma della macchina fotografica, dando vita a un’immagine fortemente contrastata: i capelli castani e ben tagliati del bambino e il suo viso bianchissimo; il cuoio lucido della visiera di un militare tedesco, con i fregi d’argento applicati sul berretto; i pois che spiccano tra le pieghe scure del vestito della donna. Lo sfondo della foresta assomiglia a una tenda di tela dipinta con cupi tronchi verticali e rami chiazzati.
È l’istantanea di un’azione. C’ù movimento nell’istante, nell’esplosione, nelle posture e nelle smorfie tese degli assassini, nella nuvola di fumo intorno alla testa della donna e nel bambino inginocchiato che si afferra alla sua mano. Uno spettatore civile con un berretto di lana sta in allerta, pronto a intervenire.
Una strage richiede una divisione del lavoro tra una moltitudine di preparatori, e durante l’Olocausto questo sforzo combinato attraversĂČ i confini etnoculturali. Avrei scoperto che il fotografo era un uomo della sicurezza slovacca, mobilitato per l’invasione e l’occupazione dell’Unione Sovietica nel 1941 e di stanza nell’Ucraina controllata dai nazisti. Come milioni di altri soldati, si era lasciato contagiare dalla passione per la fotografia esplosa negli anni Venti e Trenta, e quando fu arruolato mise in valigia la sua nuova Zeiss Ikon Contax per documentare gli eventi storici che stavano avvenendo oltreconfine. La sua biografia – come avrei appreso dopo anni di ricerche su questa immagine, arrivando persino a studiare la sua collezione privata, esaminare la sua macchina fotografica e conoscere la sua famiglia – Ăš tra le scoperte piĂč sorprendenti rivelate da questo libro.
Il fotografo Ăš a circa sei metri dai carnefici (la macchina fotografica non era dotata di zoom nĂ© di teleobiettivo), mentre chi lo assiste (forse un interprete, uno scavatore o un confiscatore) cammina o resta fermo lĂŹ vicino senza dare l’impressione di essere allarmato; non guarda verso l’obiettivo. Sembra che la presenza del fotografo sia autorizzata, forse in quanto membro del cordone di guardie, e che stesse scattando all’altezza degli occhi o della vita, senza bisogno di nascondersi. Sa il fatto suo, perchĂ© l’immagine Ăš chiara e composta a regola d’arte. Segue persino la fondamentale «regola dei terzi» nel posizionamento degli elementi principali: il burrone, le vittime moribonde e gli assassini. Se fosse stata scattata di soppiatto (o da un dilettante), risulterebbe forse piĂč confusa o indistinta, magari con la visuale ostruita dalla cucitura della tasca di un cappotto o da una parte della mano del fotografo.
Guardandola, osserviamo l’evento dal punto di vista del suo autore, che si trovava in mezzo agli aguzzini, ai collaborazionisti e ad altri spettatori, tra cui probabilmente alcuni ebrei in attesa di essere uccisi. Vediamo ciĂČ che questo osservatore ravvicinato desiderava immortalare. AprĂŹ il diaframma, ruotando la ghiera per regolare la profonditĂ  di campo, puntĂČ la macchina fotografica e premette il pulsante. L’istantanea racchiude il sensoriale e il documentale, l’estetico e il probatorio, tutti fattori spiegati dai critici culturali della fotografia. Si potrebbe persino affermare che sia presente anche un aspetto pornografico, perchĂ© l’obiettivo Ăš puntato, come i fucili, contro la donna e il bambino.
Il fotografo, insieme ai tedeschi e agli ucraini, partecipa all’inquietante intimità della violenza. I carnefici sono fianco a fianco, vicino alle vittime. Toccano la donna con le mani e con le canne dei fucili. Qui vediamo il genocidio portato all’estremo: il momento definitivo in cui squadre paramilitari di uomini uccidono donne e bambini.
Al centro dell’immagine c’ù quanto rimasto di una famiglia e di una comunitĂ  ebree a Miropol, uno storico shtetl a ovest di Kiev. Forse l’intento era fotografare il preciso istante in cui il popolo ebraico e la sua progenie sono stati annientati come «razza» di discendenza matrilineare in Europa. Le vittime sono vestite e verranno sepolte in massa, violando i riti religiosi ebraici. Vengono uccise in piccoli gruppi familiari e pertanto vedono e sentono la sofferenza dei loro cari, con i genitori che assistono allo sterminio dei figli. Questa Ăš forse l’aggressione piĂč estrema inflitta dagli assassini. Quali pensieri passarono per la testa di questa madre mentre era costretta a marciare verso questo luogo con suo figlio? Il bambino cercĂČ di fuggire, scioccato e confuso? Il padre fu ucciso per primo, davanti ai loro occhi?
Queste sono solo alcune tra i milioni di persone che furono cancellati dalla mappa dell’Europa durante l’Olocausto, perlopiĂč nell’arco di diciotto mesi, dall’estate del 1941 alla fine del 1942. Durante la guerra, la terra nera dell’Ucraina, il cuore storico della vita ebraica nell’impero russo, fu ridotta a un riarso e fumante paesaggio lunare. Una vittima ebrea su quattro, infatti, era di provenienza ucraina (se si considerano i confini attuali).5 Secondo il database centrale dei nomi delle vittime della Shoah tenuto dallo Yad Vashem, l’ente nazionale israeliano in memoria dell’Olocausto a Gerusalemme, il cinquanta per cento circa degli ebrei fucilati nei burroni, nelle paludi, nelle foreste e nei campi dell’Ucraina non Ăš stato identificato. Forse l’immagine che mi era capitata tra le mani era l’unica traccia rimasta dell’esistenza di quelle persone, e della loro fine. Cosa si fa con la fotografia degli scomparsi scomparsi, la cui vita e le cui sorti non sono state registrate da nessuno?
I metodi prevalenti, sia colti sia popolari, per identificare e commemorare le vittime ebree si basano su due diverse scale: le singole vite (nomi) e l’insieme piĂč ampio (sei milioni). Per fare un esempio del primo criterio, entrando nello United States Holocaust Memorial Museum, i visitatori ricevono una carta d’identitĂ  contenente i dettagli biogr...

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