Juan de Valdés e la Riforma nell'Italia del Cinquecento
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Juan de Valdés e la Riforma nell'Italia del Cinquecento

Massimo Firpo

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Juan de Valdés e la Riforma nell'Italia del Cinquecento

Massimo Firpo

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Nel corso del XVI secolo le dottrine scaturite dalla protesta di Lutero si diffusero largamente anche in Italia, assumendo connotazioni peculiari e intrecciandosi con altri movimenti religiosi e specifiche eredità culturali. Massimo Firpo ne ricostruisce le origini e la storia mettendo in luce il ruolo decisivo esercitato dall'esule spagnolo Juan de Valdés negli anni che fecero da sfondo al concilio di Trento. Irriducibile alla Riforma protestante, il suo magistero spiritualistico seppe infatti orientare inquietudini e istanze di rinnovamento diffuse tanto a livello popolare quanto ai vertici delle gerarchie sociali, tra letterati e aristocratici, vescovi e cardinali.

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Information

I.
Juan de Valdés dalla Spagna all’Italia

1. Il «Beneficio di Cristo»

Con il titolo di Compendio d’errori et inganni luterani contenuti in un libretto senza nome de l’autore, intitolato «Trattato utilissimo del benefitio di Christo crucifisso», nel 1544 apparve a Roma e poco dopo a Brescia l’aspro trattatello con cui il domenicano senese Ambrogio Catarino Politi inaugurava una nuova stagione della controversia antiprotestante. Obiettivo della polemica, infatti, non erano gli scritti dei riformatori d’oltralpe, ma un’opera scritta e pubblicata in lingua volgare, come molti altri libretti apparsi in quegli anni, destinata quindi a un largo pubblico e non ai teologi di professione, di cui delegittimava il monopolio sull’interpretazione della Scrittura. Le nuove possibilità di comunicazione e proselitismo offerte dalla stampa erano infatti un presupposto del dilagare del dibattito religioso per le piazze e le strade di ogni città, dove sembrava ormai lecito a tutti, «infino a’ calzolai», discutere di teologia e mettere in discussione l’autorità papale21.
Unitamente al Compendio, del resto, il Catarino pubblicò anche una Resolutione sommaria contra le conclusioni luterane estratte d’un simil libretto senza autore intitolato Il sommario de la sacra Scrittura, risposta alla traduzione italiana di uno scritto eterodosso di provenienza fiamminga, e una Reprobatione de la dottrina di frate Bernardino Ochino, confutazione di un opuscolo con cui l’anno precedente il celebre predicatore senese aveva esplicitato con una limpida esposizione della dottrina riformata le ragioni che nel 1542 lo avevano indotto a fuggire a Ginevra. Nel ’48, quasi a voler rintracciare le premesse di quelle eresie, il Politi avrebbe scagliato i suoi strali anche contro la «dottrina presuntuosa, insolente et curiosa, erronea, vana et bugiarda [...], dannata et svergognata» del suo confratello Girolamo Savonarola22. Una vera e propria invasione di libri e libretti eterodossi, insomma, che gli imponeva di abbandonare il latino che sino ad allora aveva usato nei suoi scritti antiluterani per denunciare chi ingannava «con perversioni de le Scritture le misere e indotte plebi», pronte ad abbracciare eresie celate sotto la maschera di «cose piacevoli a la carne» e di una «libertà diabolica». Non stupisce che ai suoi occhi di zelante custode dell’ortodossia fosse appunto il messaggio di libertà cristiana, di fiducioso abbandono al «perdon generale» offerto dal sacrificio della croce, ad apparire l’elemento più subdolo del Beneficio di Cristo, il nocciolo stesso di quel suo «spirito [...] simulatore d’un zelo di verità et d’una sete de la salute de l’anime, compositor di parole melate et inzuccherate, dove cuopre veleno sì mortifero che non è scampo da la morte a chi lo beve»23.
Quel «dolce libriccino» era apparso a Venezia nel 1543, in occasione della prima e fallita convocazione del concilio a Trento, in un momento denso di attese e speranze in vista della rigenerazione della Chiesa da lungo tempo invocata e sempre bloccata da tenaci resistenze curiali. Solo un decennio dopo la tragedia del sacco di Roma del 1527 si era visto qualche segno di una volontà di cambiamento con la chiamata nel sacro collegio di personaggi in grado di dare credibilità all’impegno di rinnovamento, di delineare il progetto del Consilium de emendanda Ecclesia del 1536, di por mano a qualche riforma degli screditati uffici e tribunali papali (Dataria e Penitenzieria in primo luogo), di sostenere con adeguato prestigio lo sforzo diplomatico necessario ad avviare il concilio infine convocato da Paolo III: Gasparo Contarini nel 1535, Gian Pietro Carafa, Iacopo Sadoleto e Reginald Pole nel ’36, Pietro Bembo, Federico Fregoso e Marcello Cervini nel ’39, Giovanni Morone, Tommaso Badia e Gregorio Cortese nel ’42. Uno schieramento genericamente riformatore, nelle cui file non tardarono a delinearsi divergenze e contrasti in relazione non solo ai contenuti, agli obiettivi prioritari, ai metodi delle auspicate riforme, ma soprattutto all’atteggiamento da assumere di fronte al dilagare delle eresie anche al di qua delle Alpi. Divergenze e contrasti già netti alla fine degli anni trenta e destinati ad aggravarsi rapidamente, al punto di determinare profonde lacerazioni nell’ambito del sacro collegio, anche nella prospettiva di una successione papale ritenuta imminente e dei diversi orientamenti politico-religiosi che si intrecciavano con le tumultuose vicende della grande politica europea.
Da un lato, e non senza scendere a compromessi con il partito curiale avverso alle riforme24, si venne rinsaldando il gruppo guidato dal Carafa, proteso a un energico rafforzamento istituzionale della Chiesa finalizzato a una lotta senza concessioni contro ogni forma di dissenso religioso («li heretici si voleno trattare da heretici», scriveva già nel ’3225), e creatore di quell’Inquisizione romana che gli avrebbe consentito di imporre il successo della propria strategia. Dall’altro, quello guidato dal Contarini, nel cui ambito si intrecciarono esperienze religiose diverse, all’insegna di una comune cultura umanistica, partecipe anche di istanze che avevano trovato espressione nella Riforma protestante, e quindi aperto al dialogo e al confronto irenico anche sul terreno dottrinale. Le astiose polemiche che accompagnarono l’insuccesso politico del cardinale veneziano ai colloqui di Ratisbona nel 1541 (l’ultimo tentativo di raggiungere un accordo tra i moderati delle due parti sotto gli auspici imperiali) segnarono il tramonto di questo gruppo, esso stesso ormai diviso e in parte coinvolto in scelte religiose più radicali sotto la guida di Reginald Pole. Al suo rientro in Italia, al Contarini non restò che prendere atto con rammarico di questa svolta, evidente nel fallimento dei suoi tentativi di ritrovare unità di intenti con il cardinal d’Inghilterra e di sfuggire all’isolamento in cui venne a trovarsi fino alla morte, avvenuta a Bologna nell’agosto del ’42, all’indomani dell’istituzione del Sant’Ufficio, dei primi provvedimenti contro l’eresia a Napoli, Lucca e Modena, delle fughe in terra svizzera di celebri predicatori come Bernardino Ochino e Pier Martire Vermigli26. Poche settimane più tardi il Pole, insieme con il cardinale milanese Giovanni Morone (che proprio allora si legò con lui di un’amicizia fondata su un comune sentire religioso), fu inviato da Paolo III a presiedere la prima convocazione del concilio a Trento, dove inutilmente nei mesi seguenti avrebbe atteso che le condizioni politiche ne consentissero l’apertura.
Nel pubblicare il Compendio, tuttavia, il Politi ignorava (o meglio, faceva finta di ignorare) che il Beneficio di Cristo era stato preparato per la stampa nell’estate dell’anno precedente proprio nella residenza viterbese del cardinal d’Inghilterra ad opera di un noto letterato quale Marcantonio Flaminio27. Lo aveva invece saputo pochi giorni prima di morire il Contarini, che si era visto recapitare a Bologna una copia manoscritta di quel trattatello e non aveva tardato ad accorgersi che dal punto di vista dottrinale esso «passava li termini»28. Più chiari e inquietanti dovettero allora apparirgli i motivi del distacco del Pole che nei mesi precedenti aveva dovuto constatare. Ma ciò che né egli né il Politi seppero percepire fu il significato ideologico e politico dell’edizione a stampa di quel testo, non più affidato solo a una circolazione clandestina, ma diffuso in migliaia di esemplari da un capo all’altro d’Italia come una sorta di manifesto che racchiudeva la proposta religiosa dei legati conciliari e del gruppo di letterati, prelati e aristocratici che intorno a essi si raccoglieva. Una proposta destinata da un lato a legittimare nell’ambito della Chiesa cattolica dottrine che costituivano il nocciolo stesso della Riforma, offrendo così un approdo credibile ai fermenti religiosi e ai gruppi dissidenti che pullulavano ovunque nella penisola, e dall’altro a orientare in tale direzione i lavori dell’assemblea episcopale e indicare quindi la via di una ricomposizione dei conflitti teologici che dilaniavano l’Europa.
Di qui l’assenza nel Beneficio di Cristo di ogni tono polemico contro errori e abusi della Chiesa, contro la sua gerarchia e le sue dottrine (messa, sacramenti, purgatorio, adorazione dei santi, culto delle immagini, voti, indulgenze, autorità papale), per proporre invece in positivo – con parole «melate et inzuccherate», come denunciava il Politi – il significato liberatorio della dottrina della giustificazione per sola fede e della «dolcissima predestinazione» con cui ciascuno era chiamato a diventare «cittadino del cielo»: «Qual consolazione, quale allegrezza in questa vita si può assimigliare a quella di colui il qual, sentendosi oppresso dalla gravezza intolerabile de...

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