Italia longobarda
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Italia longobarda

Il regno, i Franchi, il papato

Stefano Gasparri

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Italia longobarda

Il regno, i Franchi, il papato

Stefano Gasparri

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La conquista franca, la creazione del primo impero medievale e gli inizi della dominazione territoriale da parte della Chiesa di Roma: questi tre avvenimenti, difficilmente prevedibili anche solo pochi decenni prima, cambiano profondamente la storia d'Italia alla fine dell'VIII secolo. Fra i protagonisti, gli sconfitti sono i Longobardi che con la loro lunga storia cadono nell'oblio.Stefano Gasparri recupera la loro memoria, presenta la società longobarda in tutta la sua complessità, senza trascurare i contatti e i rapporti – tutt'altro che eternamente conflittuali – avuti con la stessa Chiesa romana.

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Information

IV.
Il passaggio dai Longobardi ai Carolingi

1. «Essendoci stato consegnato il popolo dei Romani»

Le campagne condotte da Liutprando durante il suo lungo regno lo avevano portato a un passo dal dominio completo della penisola, con la sottomissione al potere centrale dei ducati di Spoleto e Benevento e il progressivo smantellamento del dominio bizantino, che aveva perso gran parte dell’Emilia e della Pentapoli. Ma alla fine il re si era fatto convincere da papa Zaccaria e, nonostante fosse ormai penetrato nel cuore stesso dell’Esarcato, aveva risparmiato Ravenna da un secondo attacco. Era rimasto così in piedi un embrione di Italia bizantina, che poggiava ormai soprattutto sul prestigio spirituale e sull’abilità diplomatica dei papi, capaci per ben due volte – prima con Gregorio II, poi appunto con Zaccaria – di fermare Liutprando nel momento in cui era in condizione di vibrare il colpo decisivo, verso Roma o Ravenna.
Lo stallo fu superato dall’improvvisa morte del re, nel gennaio del 744. Con il nuovo sovrano Ratchis, infatti, papa Zaccaria stipulò, a nome non più solo della città di Roma ma di tutta l’Italia bizantina, una pace ventennale. L’espansione longobarda segnava il passo, il momento forse più favorevole era già passato. Solo dieci anni separeranno la morte di Liutprando dalla prima discesa in Italia del re franco Pipino.
Ratchis riprese le ostilità, nonostante la pace firmata: ma anch’egli si fece fermare da papa Zaccaria, che lo convinse a togliere l’assedio da Perugia. Poco dopo questi fatti, nel 749, Ratchis rinunciò al titolo regio e al mondo entrando in monastero, imitato dalla moglie Tassia e dalla figlia; opera di Zaccaria o effetto della presa del potere a Pavia da parte di suo fratello Astolfo, che lo avrebbe costretto a scegliere la vita religiosa? La seconda ipotesi, pur senza mettere in dubbio l’influenza papale, pare la più probabile, visto oltretutto che Zaccaria nessun vantaggio avrebbe ricavato dal cambio di governante, anzi, come si vide ben presto, era tutto l’opposto. Astolfo, ex duca del Friuli al pari del fratello, come re si rivelò molto meno malleabile di Ratchis. La mobilitazione militare del 750, che ha lasciato una preziosa traccia di sé nelle leggi allora emanate dal re, fu la prova chiara delle sue intenzioni, che si concretizzarono nella presa di Ravenna, già avvenuta nell’estate del 751: l’ultimo esarca di Ravenna, Eutichio, si consegnò nelle mani di Astolfo; Ferrara, Comacchio e l’Istria il re le prese combattendo1. È possibile, e sarebbe la prova definitiva della decomposizione politica dell’Italia bizantina in unità indipendenti, che gli stessi Venetici, che venticinque anni prima avevano ripreso Ravenna per conto dell’esarca, questa volta invece avessero collaborato alla presa della medesima città insieme ai Longobardi, come scrive Agnello, un ecclesiastico autore del Liber Pontificalis della chiesa di Ravenna alla metà circa del IX secolo. La notizia è sorprendente e non confermata da altre fonti, tuttavia non è affatto impossibile che sia vera: infatti sappiamo che il ducato lagunare ottenne proprio da Astolfo la precisazione dei suoi confini con la terraferma longobarda e il riconoscimento di diritti reciproci (di pascolo, di raccolta), che erano la premessa per poter svolgere commerci in modo pacifico, un’attività che per i Venetici era indispensabile. Dunque un accordo politico con Astolfo c’era, e rimane in piedi la possibilità che esso si sia tradotto anche in un aiuto militare2.
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L’Italia longobarda nella sua massima espansione (ca. 750)
Nel 751 l’Italia intera era nelle mani di Astolfo, che si era definito trionfalmente nel prologo delle sue leggi, emanate alla vigilia della caduta dell’Esarcato d’Italia, «re della stirpe dei Longobardi, essendoci stato consegnato da Dio il popolo dei Romani». Longobardi e Romani, abitanti del regno e dell’antico Esarcato erano ormai ugualmente soggetti al re. Esarcato voleva dire anche le sue dipendenze periferiche, tra cui il ducato di Roma, dove non a caso, come ci racconta con toni fortemente negativi il Liber Pontificalis, Astolfo pretese di imporre un tributo di un solido d’oro per caput, cioè per abitante, con un modo di procedere che indicava l’assunzione progressiva di una dignità nuova i cui contenuti erano di chiara ispirazione imperiale romana (l’imposizione delle tasse), così come romana e imperiale era l’immagine di sé che il re fece imprimere nella monetazione aurea coniata in Ravenna conquistata3.
Nello sbando generale dell’Italia bizantina, l’unico potere in grado di avere un minimo di rappresentatività collettiva, scomparso l’esarca, era quello del papa. Di qui nacque l’alleanza stretta progressivamente tra questi e la corte dei maestri di palazzo franchi. I rapporti fra i papi e i Pipinidi erano ormai più che ventennali, tuttavia bisogna resistere alla tentazione di vederli come l’esito di un processo lineare. La stessa vicenda della richiesta di intervento presentata, invano, a Carlo Martello da Gregorio III è la prova di come questo legame si costruì nel tempo, non senza passi indietro e diffidenze reciproche. Anche la collaborazione nella riforma interna della chiesa franca e nella promozione di missioni nelle terre pagane al di là del Reno va in parte ridimensionata. Sappiamo che i protagonisti, che furono soprattutto monaci anglosassoni – anche se non va trascurata l’azione di membri della chiesa franca, che crearono il terreno per la successiva cristianizzazione ad opera degli anglosassoni –, spesso agirono in modo indipendente dai Pipinidi4.
Anche sull’altro fronte, non era affatto scritto che il regno franco e quello longobardo dovessero combattersi. All’epoca di Liutprando, l’alleanza esistente fra Carlo Martello e il re longobardo, sancita dall’adozione di Pipino, aveva impedito al primo di intervenire in favore di papa Gregorio III. Inoltre, sul fronte occidentale del regno la compenetrazione fra le due società, la franca e la longobarda, era molto forte, come si vede molto bene nel testamento del patrizio Abbone, il fondatore del monastero della Novalesa e grande funzionario franco morto intorno al 750, i cui possessi erano sparsi al di là e al di qua del confine fra i due regni, in Provenza, Borgogna, Piemonte. C’erano dunque legami di alleanza e solidarietà fra le due aristocrazie che non era facilissimo troncare.
La scelta di Pipino di intervenire in Italia fu certamente condizionata – in che modo e misura tuttavia non è facile stabilirlo – dal fatto che nel 751, pochissimo tempo dopo la caduta di Ravenna, egli aveva assunto il titolo di re dei Franchi, sostituendolo a quello ormai troppo angusto di maestro di palazzo, mediante la cerimonia dell’unzione, nuova per i Franchi, ma di origine biblica e già praticata da Visigoti e Anglosassoni. L’unzione dei re franchi li poneva sullo stesso piano dei re d’Israele; essi erano i sovrani del «nuovo Israele», ossia la Chiesa. Fin dal 751, i legami ideologici tra il potere dei nuovi sovrani pipinidi e la Chiesa – che non vuol dire affatto il papato, ma il complesso della comunità cristiana, la ecclesia – sono dunque evidenti. In potenza, questi legami potevano evolversi in una prospettiva imperiale, vista la dimensione universale della Chiesa5.
Si parla però di Chiesa e non di papato. Con quest’ultimo, con la Chiesa di Roma, secondo gli studi più recenti i rapporti appaiono meno limpidi di quanto non si ritenesse in passato. La presentazione tradizionale dei fatti del 751 infatti sosteneva, con un buon ancoraggio nelle fonti, che Pipino sarebbe riuscito a diventare re grazie all’appoggio di papa Zaccaria. La fonte principale erano gli Annali franchi, che raccontano come, all’interrogazione degli ambasciatori inviati a Roma da Pipino (Burcardo vescovo di Würburg e il cappellano di corte Fulrado), che gli chiedevano se fosse giusto che avesse il titolo di re chi non esercitava il potere regio (il merovingio Childerico III), Zaccaria avrebbe risposto che era giusto che fosse chiamato re chi ne aveva anche il potere; e così il papa, «affinché l’ordine non venisse turbato, tramite l’autorità apostolica ordinò che Pipino fosse fatto re». La notizia del legame con Roma è presente anche nella continuazione della cronaca di Fredegario, la cui redazione si colloca nell’ultimo trentennio circa dell’VIII secolo, più o meno nel periodo in cui fu redatta la parte degli Annali dove si trova la notizia relativa ai fatti del 7516.
Come si vede, si tratta solo di fonti franche, mentre invece da parte romana si tace completamente l’episodio: il che non ha molto senso, in quanto esso ancorava abbastanza lontano nel tempo il legame con i Pipinidi, riconoscendo per di più al papa un ruolo di primo piano. A questa considerazione va aggiunto il fatto, che abbiamo già sottolineato, che pure le notizie più antiche sui rapporti fra papi e Pipinidi, quelle dell’appello di Gregorio III a Carlo Martello del 739-740, anche se presenti in fonti romane (una lettera e un passo del Liber Pontificalis), in realtà provengono dall’area franca, perché la lettera è conservata nella raccolta del Liber Carolinus fatta da Carlo Magno e il passo del Liber Pontificalis relativo all’appello è presente nella ‘recensione franca’ del Liber Pontificalis; inoltre lo stesso appello di Gregorio ci è noto solo da una terza fonte, questa sicuramente franca, e cioè un altro passo della continuazione di Fredegario7.
Quindi i più antichi rapporti fra i papi e i Pipinidi ci sono noti da fonti franche, tutte fortemente orientate nell’ancorare i fatti in una fase antica, tra i pontificati di Gregorio III e di Zaccaria. Alla luce di queste considerazioni, allora il sospetto di una qualche manipolazione delle notizie operata dalla corte carolingia è giustificato. Tornando allo specifico del 751, è stata soprattutto Rosamond McKitterick a mettere in dubbio la veridicità dell’appello a Zaccaria, la cui «autorità apostolica» invocata per giustificare il colpo di Stato del 751 appare effettivamente sorprendente. Zaccaria, sulla base delle lettere superstiti, è consultato da Pipino solo per questioni dottrinali e di disciplina ecclesiastica, e non per altri motivi. Inoltre l’accenno, che fanno gli stessi Annali franchi, al fatto che la cerimonia dell’unzione di Pipino sarebbe stata eseguita materialmente da Bonifacio, se si giustifica per i rapporti fra questo missionario anglosassone e Zaccaria, testimoniati dal loro scambio epistolare – per cui Bonifacio avrebbe potuto fungere da emissario papale –, non si giustifica affatto per i rapporti fra Bonifacio e Pipino, che furono invece piuttosto freddi. Tutte queste contraddizioni si risolverebbero, secondo la McKitterick, se l’intero episodio non fosse autentico, ma fosse stato confezionato a posteriori per rendere il rapporto fra papi e Pipinidi più antico di quanto in realtà non fosse: le vere origini di tale rapporto sarebbero da ricercare...

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