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In principio era la meraviglia
Le grandi questioni della filosofia antica
Enrico Berti
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In principio era la meraviglia
Le grandi questioni della filosofia antica
Enrico Berti
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I greci sono stati l'alpha e l'omega della filosofia. Partendo da Aristotele, Enrico Berti offre una appassionante introduzione al pensiero antico e ai suoi grandi problemi, che sono in fondo gli eterni problemi della filosofia: che cos'è l'essere? Chi sono gli dèi? Chi è l'uomo? Come possiamo raggiungere la felicità ? Che cosa ci attende dopo la morte?Franco Volpi, "la Repubblica"La meraviglia, secondo Aristotele, è l'origine della filosofia, ovvero della ricerca disinteressata di sapere. Stato d'animo raro e prezioso, la meraviglia è la sola espressione della vera libertà . Attraverso le domande e le risposte dei filosofi greci, Enrico Berti racconta lo stupore dell'uomo di fronte al mondo.
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Thema
FilosofiaThema
Saggi di filosofiaVII. Che cosâè la felicitĂ ?
1. Antichi e moderni
ÂŤIl programma del principio del piacere stabilisce lo scopo della vita. Questo principio domina lâapparato psichico fin dallâinizio; non può sussistere dubbio sulla sua efficacia, eppure il suo programma è in conflitto con il mondo intero, tanto con il macrocosmo quanto con il microcosmo. Ă assolutamente irrealizzabile, tutti gli ordinamenti dellâuniverso si oppongono ad esso; potremmo dire che nel piano della Creazione non è incluso lâintento che lâuomo sia âfeliceâ. Quel che nellâaccezione piĂš stretta ha nome felicitĂ , scaturisce dal soddisfacimento, per lo piĂš improvviso, di bisogni fortemente compressi e per sua natura è possibile solo in quanto fenomeno episodicoÂť1. Questa affermazione di Freud, il padre della psicoanalisi, consente di misurare tutta la distanza esistente tra la concezione antica e quella moderna della felicitĂ . Se per gli antichi, nonostante la varietĂ delle posizioni filosofiche individuali, la felicitĂ costituisce il fine supremo della vita, per i moderni â e ancora di piĂš per i contemporanei â la felicitĂ diviene un traguardo impossibile, mentre il suo opposto â lâinfelicitĂ â si impone come il prezzo che lâuomo deve pagare per ottenere in cambio maggiore civiltĂ e condizioni di vita piĂš sicure. La realtĂ esterna, con i suoi mille imprevisti, le pulsioni interne, le regole morali e le convenzioni sociali sono i padroni a cui ogni individuo deve rispondere quotidianamente, nellâaffannoso tentativo di ridurre lâinsoddisfazione o di rinviare la felicitĂ in uno spazio e in un tempo ultraterreni. Nel fluido mondo moderno, insomma, la ricerca della felicitĂ si configura come unâimpresa paragonabile alla quadratura del cerchio, come un conflitto irrimediabile tra lâaspirazione al soddisfacimento immediato delle proprie inclinazioni particolari e gli imperativi universali della ragione.
Dato che ogni conoscenza e scelta tende a un qualche tipo di bene, qual è quel bene che noi sosteniamo essere [...] il bene pratico piÚ alto? Ora, per quanto riguarda il nome vi è un accordo quasi completo nella maggioranza: sia la massa che le persone raffinate dicono che si chiama felicità  (eudaimonia), e credono che vivere bene e avere successo siano la stessa cosa che essere felici. Ma su cosa sia la felicità , vi è disaccordo, e la massa non la intende nello stesso modo dei sapienti, dato che i primi credono che sia qualcosa di tangibile ed evidente, come piacere, ricchezza o onore, e altri altro2.
CosĂŹ Aristotele riassume invece il comune modo di pensare degli antichi Greci, quasi tutti concordi nel ritenere che il bene supremo dellâuomo, cioè il fine ultimo di tutte le sue azioni, sia la felicitĂ . Le divergenze, tra le persone comuni e i filosofi, nonchĂŠ tra gli stessi filosofi, non riguardano questa convinzione di carattere generale, ma la definizione della felicitĂ . E quando Aristotele, come tutti i Greci, identifica la felicitĂ col bene supremo, non la intende solo come ciò a cui di fatto tutti aspirano, bensĂŹ anche come ciò a cui tutti devono aspirare, cioè come il bene morale piĂš alto.
Al contrario, nellâetĂ moderna â almeno a partire da Kant â la felicitĂ non ha nulla a che fare con lâetica, appartiene al mondo delle inclinazioni sensibili, cioè al mondo della natura, non della libertĂ . Il fatto che tutti desiderino la felicitĂ , secondo il filosofo di KĂśnigsberg, non significa che la felicitĂ sia un bene nel senso morale. Essa è semplicemente lâappagamento dei desideri, che in sĂŠ non ha nulla di meritorio, o di lodevole, ma è qualcosa che accomuna lâuomo a tutti gli animali. Dopo Kant questo modo di pensare è diventato generale. Persino Hegel, che criticò duramente lâetica kantiana, concorda con Kant nel ritenere che lâidentificazione del bene con la felicitĂ sia espressione di eteronomia, cioè di dipendenza da altro â nel caso specifico dagli impulsi naturali â, non di autonomia della ragione. Detto altrimenti, la questione della felicitĂ attiene al mondo della natura, e non a quello della libertĂ . Tutte le concezioni etiche moderne, dopo Kant, identificano lâÂŤeudemonismoÂť, cioè lâetica della felicitĂ , con lâutilitarismo, o con lâedonismo, e lo considerano una forma di naturalismo, cioè di subordinazione dellâetica alla natura, o addirittura di egoismo.
Come si spiega questa divergenza cosĂŹ profonda, che oppone i moderni non solo a filosofi come Aristotele o Epicuro, indubbiamente propensi a valorizzare gli impulsi e i desideri, ma anche a filosofi severi, rigorosi ed ascetici come Platone e gli Stoici? Evidentemente alla base di essa câè un diverso modo di intendere la felicitĂ . Per i moderni ÂŤessere feliciÂť significa soddisfare i desideri, appagare gli impulsi, realizzare delle preferenze o delle inclinazioni. Per questo essi tendono a concepire la felicitĂ come uno stato dâanimo transitorio, a volte anche solo istantaneo, e come un fatto puramente individuale, che perciò non tarda ad assumere una colorazione di tipo egoistico. Certo, questo modo di concepire la felicitĂ era presente anche tra gli antichi, ma era il modo di pensare della ÂŤmassaÂť â come dice Aristotele nel brano sopra citato â, cioè della maggior parte della gente, degli uomini comuni, non dei ÂŤsapientiÂť, che le attribuivano altri significati.
I filosofi non avevano infatti nessuna difficoltĂ a identificare la felicitĂ col bene, cioè con lâoggetto dellâetica, o addirittura della politica. Ciò è stato dimostrato efficacemente in un libro scritto da una filosofa americana di origine inglese, Julia Annas, libro che nella lingua originale si intitola The Morality of Happiness3, mentre nella traduzione italiana è stato intitolato, peraltro col consenso dellâautrice, La morale della felicitĂ 4. La differenza tra le due espressioni è chiara: quella italiana fa semplicemente riferimento a tutte le etiche che pongono come valore supremo la felicitĂ , mentre quella inglese sottolinea il valore morale della felicitĂ , la ÂŤmoralitĂ Âť della felicitĂ , che è precisamente la tesi delle etiche antiche. Julia Annas non si limita ad esporre le concezioni etiche proposte da Aristotele fino allâetĂ ellenistica (Stoici, Epicurei, Scettici) â nei filosofi precedenti, cioè nei Presocratici, in Socrate e in Platone, lâetica non è ancora una disciplina filosofica autonoma â, ma mostra anche come in esse la felicitĂ abbia un valore morale, cioè non implichi alcuna forma di naturalismo, o di utilitarismo, o di egoismo, nel senso moderno di questi termini.
Unâaltra differenza che contrappone i maggiori filosofi antichi a molti filosofi moderni è il rapporto tra la felicitĂ e la politica, e quindi tra la felicitĂ e la libertĂ . Infatti, ammesso che la felicitĂ abbia un valore morale, cioè coincida col bene, non è detto che essa debba essere lâoggetto, oltre che dellâetica, anche della politica, cioè che debba costituire il fine della societĂ , o dello Stato, o piĂš in generale dellâorganizzazione politica caratteristica di un determinato periodo storico. Per Socrate, Platone, Aristotele, ma anche per molti Stoici, la polis â cioè la massima istituzione politica della Grecia classica â o il regno, o lâimpero, oltre che il singolo individuo, hanno come fine, o devono avere come fine, la realizzazione del bene supremo dei cittadini, cioè della felicitĂ . Invece per i filosofi moderni, o almeno per Kant e per quanti si ispirano a lui (per esempio nella filosofia politica del Novecento lâamericano John Rawls), il governo non deve assolutamente occuparsi della felicitĂ , ma deve al contrario lasciare ciascuno libero di costruirsi la sua felicitĂ come meglio preferisce. Il governo non deve nemmeno occuparsi del bene, perchĂŠ non esiste una concezione comune, condivisa da tutti, di che cosa è bene, e ciascuno deve essere libero di perseguire ciò che lui intende come bene. Il governo deve assicurare a tutti la libertĂ , ossia la possibilitĂ per ciascuno di cercare la sua felicitĂ nel modo che egli ritiene il migliore, e la giustizia, cioè i mezzi, le condizioni necessarie, affinchĂŠ ciascuno â se lo vuole â realizzi la propria felicitĂ .
Solo in alcuni casi, che sono risultati eccezioni significative e degne di richiamare lâattenzione, i moderni hanno assegnato come fine allâautoritĂ politica la realizzazione della felicitĂ . Il piĂš clamoroso è quello rappresentato dalla Costituzione degli Stati Uniti dâAmerica, la quale ha recepito dalla Costituzione dello Stato della Virginia e poi dalla Dichiarazione di Indipendenza del 1776, tra i diritti dellâuomo, che lo Stato deve garantire anche il diritto al ÂŤperseguimento della felicitĂ Âť (the pursuit of happiness). Si tratta di unâespressione inserita nel testo costituzionale da Thomas Jefferson, il quale a sua volta lâaveva ripresa da filosofi inglesi (Joseph Priestley) che erano stati in contatto, attraverso i Sociniani, con lâaristotelismo padovano del Rinascimento, cioè con una tradizione dellâetĂ moderna, che risaliva in ultima analisi proprio ad Aristotele.
Anche questa differenza, come vedremo, dipende da come si intende la felicitĂ , cioè dalla concezione che si ha del bene. Se il bene è inteso solo come soddisfazione delle proprie preferenze, è chiaro che lâautoritĂ politica non può sostituirsi a nessuno e non può stabilire le preferenze di nes...