Caterina da Siena
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Caterina da Siena

Una mistica trasgressiva

André Vauchez, Luca Falaschi

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Caterina da Siena

Una mistica trasgressiva

André Vauchez, Luca Falaschi

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La straordinaria modernità di Caterina da Siena nel racconto di un grande storico

André Vauchez contestualizza l'eversione spirituale di Caterina da Siena e la sua militanza politica nella lotta tra Chiesa e impero ma anche tra ordini rivali e contrapposti papati nel tempo dello scisma avignonese, al di là della narrazione della propaganda ecclesiastica che della sua figura di outsider ha fatto prima una paladina del primato della sede papale romana, poi una costruzione patriottica, tanto da trasformarla in antesignana dell'unità d'Italia e sua copatrona. Silvia Ronchey, "la Repubblica"Caterina riuscì a trascendere le categorie di genere per affermarsi come figura al di fuori degli schemi precostituiti in un'esperienza di vita che Vauchez definisce di 'matriarcato spirituale' e alla quale questa bella ricostruzione – molto più che un semplice profilo della sua esistenza e delle sue opere – rende omaggio. Marina Montesano, "il manifesto"

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Information

Disegno di una biografia:
Caterina, da Siena a Roma
1347-1380

Colei che chiamiamo Caterina da Siena venne alla luce in questa città, e il suo vero nome – così come compare sul registro d’ammissione delle Mantellate – era, in latino, Katharina Jacobi Benincasa. Il padre si chiamava effettivamente Jacopo di Benincasa, la madre Lapa di Puccio di Piagente (Monna Lapa), figlia di un artigiano che scriveva anche poesie. Nel 1347 Lapa partorì due gemelle, la ventitreesima e la ventiquattresima dei suoi figli, ma solo Caterina sopravvisse. La madre le si dedicò con grande assiduità, allattandola al seno, cosa che non aveva fatto per gli altri figli perché ogni volta era rimasta incinta prima che arrivassero all’età normale dello svezzamento. La data di nascita di Caterina non è attestata da nessun documento dell’epoca, dato che allora lo stato civile non esisteva e che i registri parrocchiali, dove il suo nome avrebbe potuto essere stato iscritto in occasione del battesimo, non ci sono pervenuti. In effetti alcuni storici hanno fatto notare che, essendo Caterina morta il 29 aprile 1380, sarebbe vissuta trentatré anni, cifra che rimanda alla vita di Cristo e che potrebbe derivare da un desiderio di rimarcare la conformità della santa a colui che nei suoi scritti chiama «Dio-e-uomo». Il dubbio è ammissibile, ma forse l’ipotesi risulta esageratamente sospettosa e, nel complesso, la critica considera probabile, se non assolutamente certo, il 1347 come anno di nascita. La famiglia di Caterina risiedeva in via dei Tintori, nel quartiere di Camollia, sul territorio della contrada dell’Oca, dove abitavano numerosi artigiani del settore tessile. La casa paterna si trovava in una zona periferica della città, dominata dal convento di San Domenico che sorgeva sul poggio di Camporegio.

Siena al tempo di Caterina Benincasa

Alla metà del Trecento Siena era, con Firenze e Pisa, una delle città principali dell’Italia centrale. Nel secolo precedente aveva conosciuto una fase di grande slancio, ed era allora un importante centro commerciale e bancario. Presenti fin dalla fine del XII secolo alle fiere della Champagne, i senesi, inventori della lettera di cambio, furono a lungo i principali banchieri del papato, soprattutto dopo la soppressione dell’ordine dei Templari nel 1312. La fiorente città-Stato controllava la via Cassia (o Francigena), da cui passavano i pellegrini e i viaggiatori che si recavano a Roma. Dominava un contado che si estendeva a sud fino al porto di Talamone e alla Maremma: il confine con lo Stato della Chiesa si trovava all’altezza di Massa Marittima e di Grosseto, centri di cui si era impadronita nel decennio 1330-13401. La prosperità senese si traduceva in notevoli realizzazioni urbanistiche: costruita su tre colli scoscesi che dominano la celebre piazza del Campo, con il Palazzo comunale affiancato da un’alta torre campanaria, detta del Mangia, la città contava numerosi palazzi signorili, residenze delle grandi famiglie aristocratiche che possedevano delle signorie nel contado. Escluse dal potere nel regime comunale, svolgevano comunque un ruolo importante nella vita politica cittadina per le competenze dei loro membri e per il prestigio che mantenevano. La città era divisa in tre terzieri: a sud-ovest quello di Città, corrispondente alla città antica; tra il centro e sud-est quello di San Martino; a nord quello di Camollia, con quartieri socialmente differenziati come quello di Ovile, il più popolare.
Sul piano politico, Siena era una città di tradizione ghibellina, ovvero piuttosto favorevole all’impero, che aveva sconfitto i guelfi, partigiani della Chiesa, nella battaglia di Montaperti del 1266. Ma questa grande vittoria non aveva avuto un seguito: tre anni dopo le forze senesi furono schiacciate da quelle fiorentine a Colle Val d’Elsa e contro la città fu lanciato l’interdetto ad opera di quel papato con cui essa intratteneva strette relazioni finanziarie, dalle quali dipendeva la sua prosperità economica. In seguito a questi avvenimenti nel 1287 la parte guelfa prese il potere a Siena e lo mantenne poi fino al 1355. Nel quadro di questo regime, il governo era esercitato collegialmente dai Nove – dei priori che erano espressione dello strato superiore della borghesia, il patriziato urbano, designato dai testi dell’epoca col nome di “popolo grasso” –, nonché dal consiglio generale del Comune. È significativo che le insegne cittadine che compaiono sui muri del Palazzo comunale siano costituite da uno scudo bianco e nero (il Comune) con un leone rampante (il popolo). Nel Trecento Siena fu uno dei maggiori centri artistici della Toscana, con pittori come Duccio di Buoninsegna (m. 1320 ca.), Simone Martini (m. 1334 ad Avignone) e i fratelli Ambrogio e Pietro Lorenzetti (entrambi m. 1348 ca.). L’apogeo simbolico di questo periodo è costituito dalla sala della Pace nel Palazzo comunale, dove Ambrogio ha illustrato il tema biblico del Diligite iustitiam (“Amate la giustizia”) rappresentando gli effetti del buono e del cattivo governo nella città e nel contado2. La prosperità crescente della città fece venire ai senesi l’idea di costruire un monumento grandioso: una cattedrale gigantesca, di cui quella allora esistente avrebbe dovuto essere solo il transetto, e che si sarebbe allungata verso sud con un’immensa navata. Si partì quindi nel 1339 con dei lavori di grande portata, interrotti però nel 1355 e mai più ripresi. Ne rimane oggi soltanto una foresta d’immensi pilastri, testimoni delle fallite ambizioni di una città che disputava allora a Firenze la preponderanza in Toscana.
Dalla metà del Trecento Siena entrò infatti in una crisi destinata a prolungarsi fino al primo terzo del secolo successivo. La popolazione, stimata in 50.000 o 60.000 abitanti intorno al 1330, si ritrovò ridotta a meno di 20.000 dopo la peste del 1348, che all’epoca fu interpretata da molti come un castigo divino. Sicuramente meno spettacolari, ma più gravidi di conseguenze furono i ritorni periodici dell’epidemia, che falciarono intere famiglie nello spazio di pochi anni: qualche tempo dopo un padre di sette figli, amico di Caterina, si ritrovò solo, e lei stessa perse diversi fratelli e sorelle a causa di queste ondate ricorrenti. Il cronista senese Agnolo di Tura ha lasciato un racconto assai realistico e impressionante sulle conseguenze dell’epidemia sulla vita della città:
[...] non sonavano campane per li morti, e non si andavano gridando ad alta voce [...]. El padre a pena stava a vedere il figliuolo; l’uno fratello l’altro fuggiva; la moglie il marito abbandonava, perciocché si diceva, che s’appiccava questa malattia nel mirare, e nell’alito [...]. E io Agniolo di Tura, detto Grasso, sotterrai cinque miei figliuoli in una fossa con le mie mani; e così fecero molt’altri il simile; e anco furon di quelli, che erano sì mal coperti, che cani ne traevano, e mangiavano di molti corpi per la città3.
L’onnipresenza della malattia e della morte valorizzò il ruolo essenziale degli ospedali, in particolare di quello di Santa Maria della Scala, per il cui controllo si ebbero conflitti tra le autorità ecclesiastiche e quelle civili, nonché quello svolto dalle istituzioni caritative come la Misericordia, gestita in origine da una confraternita fondata alla metà del Duecento da un pio laico, Andrea Gallerani, e poi passata nel Trecento sotto il controllo del Comune. La crisi economica accentuò le tensioni sociali e i conflitti politici, causati dallo stato di agitazione dei due gruppi sociali esclusi dal potere: i nobili, contro i quali il popolo grasso si era strutturato e affermato, e i lavoratori manuali (popolo minuto), che costituivano una plebe disprezzata dagli imprenditori e soggetta a pulsioni violente. Nel 1355 il regime dei Nove e dei loro partigiani (i “noveschi”), espressione politica del patriziato urbano, fu rovesciato e sostituito con quello dei Dodici, in cui aveva ampio spazio la borghesia artigiana dei maestri delle corporazioni, in particolare quelli dell’Arte della Lana, gruppo economico che sovrintendeva alla lavorazione e al commercio della lana e del panno, a cui era legata la famiglia di Caterina4. Due dei suoi fratelli, Bartolo e Stefano, entrarono a far parte del governo cittadino. Ma il nuovo regime dovette presto affrontare le peggiori difficoltà: fu necessario aumentare le imposte per allontanare, pagandole profumatamente, le grandi compagnie, le bande di mercenari che allora devastavano la Toscana, e per far fronte alle sempre più frequenti carestie organizzando distribuzioni di grano sul Campo per provvedere alle necessità della parte più povera della popolazione. In occasione di queste crisi frumentarie, i lavoratori della lana (lanaioli), che percepivano un salario assai basso, presero coscienza dell’handicap rappresentato per loro dall’essere esclusi dal governo cittadino e si organizzarono per esservi associati, per iniziativa della Compagnia del Bruco, costituita dai cardatori. Nel 1368 il governo dei Dodici fu rovesciato e si assisté a una redistribuzione delle cariche pubbliche che favoriva il partito popolare, e all’avvento di un nuovo governo, quello dei “Riformatori”, che riuniva in una coalizione rappresentanti del popolo ed elementi dell’aristocrazia signorile. Nel 1371 gli strati inferiori del mondo del lavoro si sollevarono di nuovo contro la coalizione al potere, e i rappresentanti superstiti del precedente regime, assieme ai loro partigiani ancora presenti in città, furono esiliati. In seguito a ciò i due fratelli di Caterina, da lei nascosti nel sottosuolo dell’ospedale della Scala per salvarli dal massacro, partirono definitivamente per Firenze, dove il maggiore, Bartolo, morì di peste nel 1374. Nello stesso anno la decapitazione del nobile Andrea di Niccolò Salimbeni, accusato di aver complottato contro l’ordine costituito, scatenò nella città un’autentica guerra civile, terminata nel 1375 con una pace umiliante per le autorità comunali. Si può meglio comprendere, in un tale contesto, l’atteggiamento sospettoso di queste ultime nei confronti di Caterina quando, nel 1376, soggiornò a lungo in val d’Orcia, nelle terre dei Salimbeni, una delle più potenti famiglie aristocratiche del contado, alla quale era molto legata.
Di fatto, del regime comunale la santa ha conosciuto quasi solo gli aspetti negativi: grande instabilità politica; violenze contro beni e persone; lotte tra fazioni incapaci di giungere a un compromesso stabile; esilio degli avversari del clan o della coalizione al potere, destinato inevitabilmente a suscitare in chi veniva estromesso un desiderio di vendetta; assenza di capi indiscussi e di grandi figure politiche. Agli occhi di Caterina, il senso del bene comune e del “Buon Governo” – trasposto in immagini e idealizzato qualche decennio prima negli affreschi del Palazzo comunale – tendeva a svanire, e il governo della città era inficiato da un grave disordine che avrebbe incessantemente deplorato nelle sue lettere. Indebolita dalla crisi demografica ed economica, dilaniata dalle discordie intestine nel trentennio 1355-1385, Siena decadde rispetto alle sue rivali: Pisa e soprattutto Firenze, nella cui orbita entrò alla fine del Trecento, per essere poi annessa allo Stato fiorentino a metà del Cinquecento.
Sul piano religioso Siena, città dedicata alla Vergine Maria dai tempi della vittoria di Montaperti (il motto cittadino era Sena vetus civitas Virginis), era fortemente caratterizzata, alla metà del Trecento, dall’influenza degli ordini mendicanti, che si esercitava attraverso quattro grandi conventi: San Francesco per i Frati minori, San Domenico per i Predicatori, Sant’Agostino per gli Eremiti agostiniani e San Niccolò per i Carmelitani. Il convento di San Domenico in Camporegio, fondato nel 1226, sovrastava la casa natale di Caterina, situata non lontano da Fontebranda, la grande fontana costruita alla metà del Duecento presso una delle porte cittadine5. L’ascendente di cui godevano i Domenicani si fondava in larga misura sul successo della loro predicazione, a partire almeno dall’epoca di Ambrogio Sansedoni (m. 1287). Più tardi sarebbero stati i Francescani, con Bernardino da Siena, nato nel 1380, l’anno della morte di Caterina, ad avere il primato.
Ma il contesto religioso della città era altresì caratterizzato dal ruolo che vi svolgevano le grandi abbazie del contado. Alcune di esse costituivano i centri d’irradiazione di un monachesimo benedettino riformato: ad ovest San Galgano, i cui monaci cistercensi collaboravano alle attività della Biccherna, ovvero alla gestione delle finanze municipali; ad est Sant’Antimo, e soprattutto Monte Oliveto Maggiore, fondata nel 1319 da Ambrogio...

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