Purgatorio arabo
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Purgatorio arabo

Il tradimento delle rivoluzioni in Medio Oriente

Marcella Emiliani

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Purgatorio arabo

Il tradimento delle rivoluzioni in Medio Oriente

Marcella Emiliani

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Nella primavera del 2011 il mondo arabo Ăš stato investito da una serie di proteste radicali che chiedevano un reale cambiamento dei regimi politici al governo. Dopo decenni di dittature militari, di corruzione generalizzata, malversazioni, inefficienza amministrativa e sperpero delle risorse nazionali, per un breve spazio di tempo Ăš sembrato che finalmente la democrazia stesse per affermarsi anche in Medio Oriente. Il sogno si Ăš infranto quasi subito nella tragedia: la sanguinosissima guerra civile in Siria, i conflitti tribali e petroliferi in Libia che hanno smembrato quella parvenza di Stato che era la Jamahiriyya di Gheddafi, le guerre religiose che nella penisola arabica hanno ridotto alla fame lo Yemen. Tunisia a parte, ovunque la richiesta di democrazia Ăš stata disattesa, ovunque i problemi economici e demografici sono rimasti irrisolti, ovunque si Ăš preferito utilizzare la forza per affrontare le tensioni tra Stato e societĂ  civile. Ripercorrere la storia di questa stagione Ăš fondamentale per comprenderne fino in fondo le ragioni, per analizzare le responsabilitĂ  e per prevedere le conseguenze che essa avrĂ  anche sulla nostra parte di mondo. Una lettura indispensabile per chiunque voglia approfondire le contraddizioni e i conflitti del nostro tempo, soprattutto in un paese come l'Italia che dal legame con il mondo arabo viene direttamente coinvolto.

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Information

VI.
Danzando sul cadavere della Siria

Come si Ăš spalancata la voragine della Siria

Nei mesi di gennaio e febbraio del 2011, mentre in Tunisia, Egitto, Yemen, Libia e Bahrein scoppiavano le Primavere, in Siria le grandi piazze rimanevano stranamente vuote. Questo non significa che non si verificassero proteste. Il 17 febbraio 2011, per esempio, nel suq di Hariqa in pieno centro a Damasco, i commercianti avevano reagito animatamente quando i vigili urbani avevano malmenato un giovane apparentemente senza motivo. Nelle urla e negli slogan contro le forze dell’ordine trapelava la classica rabbia da impotenza tipica di chi ha già subìto troppo. I negozianti del suq, infatti, erano tra le vittime della liberalizzazione economica che Hafez al-Assad prima e soprattutto suo figlio Bashar dal 2000 avevano favorito in Siria a tutto vantaggio dei loro clientes alauiti.
Dal colpo di Stato militare del 1970 realizzato da Hafez, allora colonnello dell’aviazione, la minoranza degli alauiti (una setta sciita) si era infatti impadronita del potere, su cui esercitava un ferreo controllo attraverso parenti e alleati della famiglia Assad piazzati nelle posizioni di comando degli apparati di sicurezza e dei servizi segreti. Anche il partito unico di fatto, il Ba’ath (Rinascita), rappresentava un oliato meccanismo di controllo sulla popolazione, ma serviva anche come camera di compensazione per negoziare il consenso della maggioranza sunnita al regime sciita-alauita. E l’unico vero strumento che gli Assad avevano in mano per assicurarsi la lealtà dei sunniti – oltre la forza bruta – era l’economia. Era l’accesso alle risorse dello Stato prima e ai vantaggi della liberalizzazione poi a tenere legati gli imprenditori sunniti al carro degli alauiti.
La crisi economica globale del 2008, perĂČ, in Siria come nel resto del mondo si era tradotta non solo in un impoverimento generale ma soprattutto in un divario sempre piĂč profondo tra ricchi e poveri. E a soffrire maggiormente erano stati i piccoli e medi imprenditori, i piccoli e medi commercianti nonchĂ© i contadini, colpiti nel biennio 2010-2011 anche da una gravissima siccitĂ . I loro figli se ne erano andati a cercare lavoro nelle cittĂ , dove erano rimasti disoccupati e frustrati. Erano in stragrande maggioranza sunniti, ma condividevano questa condizione di emarginazione urbana anche coi figli delle minoranze cristiana, assira, turkmena, ismailita e drusa (le ultime due sono sette sciite). Tutto questo per dire che allo scoppio delle Primavere, dietro l’apparente stabilitĂ  del regime di Damasco, stavano maturando da anni le cause di un malcontento tenuto a freno solo dal pugno di ferro del governo.
Quando il 15 marzo la gente scese in strada pacificamente a Damasco per chiedere serie riforme politiche ed economiche, sebbene gli slogan fossero gli stessi gridati a Tunisi, al Cairo o a Tripoli, il parterre degli attori in scena era piĂč complesso. Certamente i giovani fecero la parte del leone come nel resto delle rivolte in Medio Oriente, ma in Siria furono affiancati fin dall’inizio dalla popolazione di tutte le comunitĂ  etno-confessionali, classi sociali e fasce d’etĂ  per chiedere una trasformazione radicale del sistema. E non bastĂČ l’intervento delle forze di sicurezza a far desistere i dimostranti dall’organizzare il giorno dopo un sit-in davanti al ministero degli Interni, anche questo disperso con la forza.
La vera svolta arrivĂČ il 18 marzo nella lontana Dar’a, una piccola cittadina rurale vicina al confine con la Giordania (e per questo il 18 marzo viene da molti considerato la vera data d’inizio della Primavera siriana). A Dar’a giĂ  il 16 marzo un gruppo di adolescenti era stato malmenato, carcerato e torturato per aver scritto sui muri «Il popolo vuole la caduta del regime», uno slogan che nella capitale non era ancora risuonato. Proprio questa brutalitĂ  spinse la popolazione a scendere in piazza il 18 marzo piĂč decisa che mai a chiedere non piĂč solo riforme ma la fine della dittatura degli al-Assad. Lo stesso fecero al Nord anche gli abitanti di altre cittĂ  come Hama e Baniyas (l’antica Laodicea). La repressione allora diventĂČ ancora piĂč dura e sanguinosa lasciando sul terreno tre morti e un numero imprecisato di feriti.
In un primo momento Bashar al-Assad ricorse alla vecchia tecnica del bastone e della carota, affiancando alla violenza l’annuncio di riforme alle quali perĂČ la popolazione faceva fatica a credere. La protesta, infatti, non solo dilagĂČ in altre province siriane ma ormai era focalizzata solo sulla richiesta di regime change. Il 25 marzo a Dar’a, Samnin e Latakia gli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine fecero un numero imprecisato di vittime, imprigionati e torturati che da quel giorno si moltiplicarono in maniera esponenziale.
A preoccupare il presidente Bashar al-Assad per il momento era la consapevolezza che la rivolta era partita da quelle periferie rurali e urbane che avevano rappresentato lo zoccolo duro del partito Ba’ath fin da quando era andato al potere con un golpe nel 1963. In secondo luogo lo inquietava profondamente il fatto che si fossero uniti alla rivolta anche membri della sua stessa comunitĂ , gli alauiti, e la cosa era tanto piĂč seria in quanto a gennaio, al primo stormir di fronde delle Primavere arabe, il suo regime aveva immediatamente provveduto a distribuire armi proprio agli alauiti presumendo che all’occorrenza avrebbero difeso il regime fino all’ultimo sangue. Voci di protesta arrivavano anche dalle altre minoranze, soprattutto quella cristiana, che aveva sempre sostenuto il regime Ba’athista: nel nome della sua ideologia panaraba secolarizzata, infatti, aveva sempre protetto le minoranze religiose. Ma il vero cruccio – ripetiamo – era rappresentato dagli alauiti per cui il 30 marzo, a fronte dell’ennesima manifestazione di protesta a Latakia, epicentro della comunitĂ , Bashar non esitĂČ a usare il pugno di ferro contro la sua stessa gente lasciando sul terreno 25 morti. Quando alla fine di aprile del 2011 il regime fece ricorso alle Forze armate per reprimere le manifestazioni di piazza, il dado ormai era tratto.

L’architettura della violenza di Bashar al-Assad

La violenza non si riassume unicamente nella guerra e non consiste solo nello sparare sulla folla inerme, gassificare i propri concittadini, incarcerare innocenti o torturarli. Violenza Ăš anche studiare politiche volte a moltiplicare il caos per strumentalizzarlo ai propri fini. Una lezione che in Siria hanno imparato molto bene tanto il regime quanto i suoi diversi oppositori.
In merito, Bashar al-Assad fece ricorso a tutta una serie di provvedimenti che dovevano metterlo in grado di soffocare la rivolta prima che minacciasse seriamente la stabilitĂ  del suo regime. Mentre le sue forze di sicurezza rispondevano a qualsiasi dimostrazione di piazza coi metodi piĂč brutali, il governo rimetteva in libertĂ  gli estremisti islamici piĂč pericolosi, nell’ambito di un’amnistia di prigionieri politici che venne ovviamente presentata come un atto di magnanimitĂ  politica. In parallelo il regime cominciĂČ a confezionare la sua versione dei fatti, in buona sostanza una teoria del complotto secondo la quale dietro la Primavera siriana c’erano manovre perverse di Israele telecomandato dagli Stati Uniti. A nulla valeva che nelle strade i dimostranti non facessero il minimo accenno al “nemico sionista”, come era avvenuto fin troppe volte in passato. Ma, ai tempi, dietro quelle manifestazioni c’erano i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, ora invece la piazza non chiedeva la distruzione di Israele ma un cambio di regime a Damasco.
Dallo scoppio delle Primavere, peraltro, Israele stava sostanzialmente a guardare quale esito avrebbero avuto ed era molto piĂč preoccupato degli sviluppi in Egitto, temendo che venisse messo in pericolo il trattato di pace israelo-egiziano del 1979, che per lo Stato ebraico era vitale mantenere anche dopo la cacciata di Mubarak dell’11 febbraio. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, inoltre, fin dal suo insediamento nel 2009 non aveva fatto mistero della mancanza di feeling tra lui e il nuovo presidente americano Barack Obama, entrato in carica lo stesso anno, di cui conosceva non solo l’intenzione di rilanciare il processo di pace israelo-palestinese, che non rientrava affatto nelle sue prioritĂ , ma anche la “politica della mano tesa all’islam” che aveva cosĂŹ eloquentemente illustrato nel suo discorso all’universitĂ  di al-Azhar del Cairo nel 2009. Nei confronti della Siria, nel marzo 2011 per Israele valeva ancora l’adagio: meglio un nemico conosciuto che uno sconosciuto.
L’altro corno della teoria del complotto del regime siriano erano i terroristi, islamici e non, la cui eliminazione Bashar al-Assad presentava come una vera e propria crociata. E di cosa fosse capace la sua famiglia contro quelli che considerava terroristi islamici, in Siria se lo ricordavano tutti. Nel 1982, infatti, Rifa’at al-Assad (zio di Bashar) letteralmente bombardĂČ le cittadelle di Hama e Aleppo per reprimere la rivolta sunnita contro Hafez al-Assad guidata dalla Fratellanza musulmana, lasciando sul terreno oltre 35.000 morti.
Nel 2011 per Bashar – che aveva ereditato la presidenza della repubblica nel 2000 alla morte del genitore – erano terroristi tutti i suoi oppositori anche se pacifici, senza nessuna distinzione. Ai tempi, peraltro, pochi sapevano che a rimettere in circolazione i jihadisti piĂč pericolosi era stato proprio il governo di Damasco, in modo da avere una giustificazione plausibile per combattere tutti quelli che riteneva una minaccia per la propria sopravvivenza, ma anche per costringere potenziali oppositori a rimanere a fianco del regime perchĂ© spaventati dal terrorismo islamico. Era il caso, ad esempio, dei cristiani e, come abbiamo giĂ  accennato, degli alauiti che avevano osato protestare contro il loro stesso regime.
Sempre per difendere ufficialmente il governo dal terrorismo Bashar, come suo padre prima di lui, reintrodusse bande di mercenari arruolati prevalentemente nella sua comunità d’origine, gli shabbiha (letteralmente gangster o delinquenti). Questi figuri venivano usati per intimidire o uccidere quanti manifestavano contro il regime, per presidiare le moschee – specialmente quelle sunnite durante la preghiera del venerdì – e impedire che diventassero “covi di terroristi”; infine si sarebbero trasformati in veri e propri signori della guerra, dediti ai peggiori traffici che li avrebbero fatti diventare i nuovi ricchi di una Siria in macerie.
Per bloccare sul nascere la Primavera e impedirne l’espansione, il regime ricorse infine alla disgregazione dell’unitĂ  nazionale. Per prima cosa bloccĂČ tutte le vie di comunicazione tra le principali cittĂ , ma soprattutto rinfocolĂČ l’antica tensione siriana tra cittĂ  e campagne, i localismi piĂč esasperati e tutte le lealtĂ  parrocchiali, comunitarie, etniche e settarie della Siria. La “criminalizzazione” delle comunitĂ  di appartenenza o delle cittĂ  di origine degli oppositori, accusate di essere strumenti di complotti esterni o di fare il gioco dei terroristi, produsse il primo snaturamento della rivolta del 2011. E dire che la Siria e il Ba’ath, fino ad allora, erano fieri di presentarsi al mondo come paladini di un’unica nazione e di aver definitivamente seppellito ogni settarismo nell’armonia intercomunitaria del panarabismo. Menzogne ideologiche che crollarono dal giorno alla notte allo scoppio della Primavera.
In un contesto simile, non ottenne maggior credibilitĂ  la riforma della legge sulla creazione dei partiti varata alla fine di luglio del 2011. Secondo una retorica democratica bugiarda, che in Medio Oriente era diventata la regola fin dalla fine della Guerra fredda, il provvedimento avrebbe favorito il multipartitismo attraverso la possibilitĂ  di creare nuove formazioni politiche sempre che non avessero basi etniche, regionali o religiose e si impegnassero a «rispettare i principi democratici». In pratica alle minoranze, dai curdi ai turkmeni, dai drusi agli armeni ai cristiani, era proibito creare partiti propri cosĂŹ come veniva interdetta dalla politica la Fratellanza musulmana, o quel che ne rimaneva dopo le cruente ondate di repressione che aveva giĂ  subĂŹto. Ufficialmente, peraltro, il multipartitismo in Siria esisteva fin dal fatidico 1963. Il Ba’ath, infatti, era il capofila di un insieme di partitucoli nazionalisti e/o socialisti coalizzati nel Fronte nazionale progressista. Ma nei fatti, ribadiamo, il Ba’ath era sempre stato un partito unico.
Con queste premesse nel febbraio 2012 venne approvata una nuova Costituzione, basata sugli stessi principi discriminatori della legge sui partiti del 2011, e il 7 maggio successivo – in piena guerra civile – si svolsero le elezioni legislative. A sfidare il Ba’ath e la sua “cornice” tradizionale, il Fronte nazionale progressista, la Commissione elettorale aveva ammesso altri 14 partiti che – guarda caso – portarono a casa risultati ridicoli (7 seggi su 184). Il Ba’ath infatti stravinse con 162 seggi, otto in piĂč di quelli che giĂ  aveva, mentre i restanti eletti erano tutti indipendenti. L’affluenza alle urne era stata scarsa, come insufficiente era stato il monitoraggio sulla correttezza del voto, ma l’importante per il regime era essersi confezionato un nuovo abito all’apparenza piĂč democratico per continuare a reprimere il dissenso con ogni mezzo.

Un’affollata guerra civile

In Siria, la guerra civile ù stata innanzitutto il frutto dell’incredibile violenza con cui il regime ha tentato di soffocare la Primavera fin dalle sue prime manifestazioni, e in secondo luogo dello scoppio in contemporanea di contraddizioni interne al paese alimentate dal regime medesimo e da attori locali, ma anche dalle potenze regionali (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Turchia e Iran) e internazionali (Russia e Usa) che si sono affrettate a strumentalizzare e condizionare la possibile transizione ad un dopo-Assad.
In particolare, come in Yemen e in Bahrein, la guerra civile siriana fin dall’inizio ù diventata la punta di diamante della guerra settaria per procura tra sunniti e sciiti, cioù tra Arabia Saudita e Iran che, pur non essendo l’unica radice dell’attuale instabilità del Medio Oriente, ne costituisce il tratto principale fin dall’esordio del Terzo Millennio. Sempre le Primavere “settarie” hanno poi contribuito ad alimentare la nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Federazione Russa, anche se al tempo stesso le due superpotenze si sono coalizzate nella comune lotta contro il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. In Siria, cioù, si ù giocato e si continua a giocare un gioco a geometria variabile in cui – di scommessa strategica in scommessa strategica, dal 2011 ad oggi – molti alleati si sono ritrovati in rotta di collisione tra di loro, col rischio addirittura di spararsi addosso per poi tornare a tramare fra di loro o addirittura col nemico giurato, sulla pelle di una Siria ormai distrutta.
Per capire meglio il groviglio di cause ed effetti della guerra civile siriana, l’abbiamo divisa in nove fasi:
1) I tentativi di unione nazionale delle opposizioni e la militarizzazione della lotta.
2) La radicalizzazione della guerra civile e l’irruzione dell’Isis in Siria.
3) L’Isis si fa Stato in Siria e in Iraq. La proclamazione del Califfato.
4) La Siria ne...

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