Così non schwa
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Così non schwa

Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo

Andrea De Benedetti

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  1. 104 Seiten
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Così non schwa

Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo

Andrea De Benedetti

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Il dibattito sul linguaggio inclusivo è tornato prepotentemente in auge negli ultimi tempi grazie a interventi di addetti ai lavori sul tema delle dissimmetrie di genere in italiano. Molto si discute, in particolare, con posizioni sempre piú polarizzate e toni sempre piú ruvidi, sulla proposta di utilizzare il simbolo fonetico dello «schwa», corrispondente a un suono vocalico «neutro», per superare il cosiddetto «binarismo» linguistico. In questo libro, partendo dalla questione del maschile «non marcato», si riflette sull'eccessiva importanza attribuita ai significanti rispetto ai significati e si propone un'analisi costi-benefici di una soluzione che, pur partendo da premesse in parte condivisibili, riduce il discorso sul linguaggio a una pura questione espressiva a scapito della dimensione comunicativa e di quella pragmatico-testuale, rivelando un atteggiamento moralmente ricattatorio e al tempo stesso elitista da parte di chi, in nome dell'inclusività, rischia di compromettere gravemente l'accessibilità e la funzionalità della lingua.

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Information

Verlag
EINAUDI
Jahr
2022
ISBN
9788858439746
Capitolo quinto

La dittatura dei significanti

In questo conflitto permanente intorno ai codici che vede di fronte, da un lato, coloro secondo i quali «non si può piú dire niente» (ma che in realtà, specie in privato, dicono praticamente tutto quello che gli passa per la testa), e dall’altro quelli che rigettano l’idea che sia in atto una qualche forma di censura, ma che poi passano il tempo a stilare liste di parole ed espressioni che non si dovrebbero dire e a riprendere chi le dice/scrive, a perderci è quasi sempre la possibilità di ragionare pacatamente sui significati, oltre che sui significanti. Non c’è bisogno di andare a scomodare Ferdinand de Saussure per ricordare che i segni linguistici non hanno un significato inscritto “naturalmente” e una volta per tutte nella loro forma; non vi è insomma nessun motivo intrinseco per cui in italiano chiamiamo albero un albero o sedia una sedia, né vi sono ragioni congenite per considerare brutta la parola cazzo e bella (o quantomeno buona) la parola cozza. È l’associazione – del tutto arbitraria e immotivata – col significato, insieme alla connotazione culturale di cui si è caricata nel tempo, a rendere una certa forma piú o meno potabile alle nostre orecchie. Questo vale anche per le parole-tabú, che hanno l’imperdonabile colpa di essere state associate al significato sbagliato nel momento sbagliato. Pensiamo alla parola-tabú per eccellenza; talmente tabú che negli Usa si nomina senza nominarla (n-word) persino quando viene impiegata in funzione metalinguistica. Già solo il fatto di mettere in fila per iscritto le lettere di questo vocabolo, in effetti, produce ormai una sensazione di disagio. Perché la parola negro (ecco, l’ho scritta) non solo non si può piú dire. Non la si può nemmeno scrivere o citare: come le bestemmie. Eppure la radice è la stessa di nero (dal latino niger), in spagnolo e in portoghese è un aggettivo/sostantivo insostituibile e privo di qualunque carica dispregiativa, e in italiano indica ad esempio il cognome – alla forma singolare e plurale, oppure preceduto da preposizione – di migliaia di famiglie. È soprattutto una parola che esiste, che si trova in tanta letteratura e in tanto cinema, che i dizionari giustamente riportano, che non si dovrebbe usare ma che qualcuno usa, e che può ancora risultare indispensabile, nelle opere di finzione, per caratterizzare il linguaggio di personaggi che, nella vita reale, la pronuncerebbero eccome. Inoltre, anche se il suo significato è indissolubilmente legato all’uso che ne facevano i colonizzatori, a quello assai poco «scientifico» degli antropologi ottocenteschi e alla connotazione apertamente dispregiativa dei razzisti di ogni risma, per le persone di una certa età (solo nella mia cerchia parentale me ne vengono in mente almeno un paio, che eviterò di menzionare per tutelare il buon nome della famiglia), la parola negro rimane un termine denotativo, che serve semplicemente a designare le persone con la pelle scura. Certo, si potrebbe facilmente obiettare che non è bello identificare una persona in base alla pigmentazione, ma in fondo non è quello che fanno tutti quando dicono «nero», «di colore» o «afroamericano»? (Tralasciamo per carità di patria l’uso grottesco di quest’ultimo termine per indicare neri non americani).
La differenza, a ben vedere, sta nel fatto che certe persone, pur colte e sensibili, sono rimaste del tutto estranee al dibattito sul politicamente corretto, e non sono in grado di cogliere alcuna differenza di natura semantica, ammesso che esista, tra negro e i suoi sostituti. Poi magari uno può anche provare a spiegare al proprio nonno o bisnonno che quella parola proprio non va bene e che sarebbe meglio trovarne un’altra, ma le loro repliche un po’ ti inchiodano. A che scopo sostituire le parole – questo il succo delle loro obiezioni – se le intenzioni rimangono le stesse? È peggio un ottantenne che usa senza malizia e «per abitudine» la parola negro o un trentenne che dice «io li affonderei tutti», senza nemmeno il bisogno di sporcarsi le mani con un epiteto offensivo e delegando l’espressione della sua disumanità alla brutalità di un verbo e alla freddezza burocratica di un pronome? Soprattutto: c’è ancora spazio, nel campo progressista, per porsi queste domande, oppure dobbiamo accontentarci di esercitare una sterile egemonia sui significanti, avendo rinunciato da tempo a combattere – e prima ancora a condividere – le battaglie sui significati? Non sarà anzi che abbiamo perso molte battaglie sui significati proprio perché abbiamo puntato troppo sui significanti?
Si pensi a certe prime pagine del quotidiano «Libero» di questi ultimi anni: Dopo la miseria portano le malattie, Nere sull’altare, bianche ignorate, Fuori dai piedi gli islamici, Ospitiamo il marocchino e poi lui ci dà fuoco1. Mica c’è bisogno di andare ad aprire il cassetto delle parole proibite per produrre titoli irricevibili e far passare una narrazione tossica della realtà. Al contrario, se la barriera del politicamente corretto (e degli algoritmi dei social, non dimentichiamo) è fatta solo di parole e non anche di immagini, contesti, intenzioni o elementi impliciti, per chi domina il codice sarà facilissimo eluderla facendo indossare ai significati dei significanti almeno in apparenza presentabili. E risulterà ancora piú facile, per questi stessi soggetti, continuare con altre parole a dire di tutto lagnandosi che non si può piú dire niente. Come osserva Raffaele Alberto Ventura, «le classi dominanti troveranno sempre modo di mascherare il loro razzismo, qualora questo diventi necessario per la loro sopravvivenza»2, e questo vale anche per chi quel codice, almeno a parole, lo ripudia. Ma è soprattutto nel campo «progressista» che la capacità di produrre e manipolare un codice socialmente accettabile, oltre a garantire a molti la possibilità di riconoscersi come parte di una classe di persone colte, sensibili e consapevoli, fornisce ad altri l’alibi perfetto per dissimulare quello che Giuseppe Faso definiva il «razzismo dei colti»3, cioè quell’atteggiamento misto di condiscendenza, paternalismo e malcelata superiorità di chi è disposto ad accogliere l’altro solo a patto che smetta di essere «altro».
Il risultato, al di là del caso estremo della n-word e di pochi altri vocaboli oggettivamente connotati, è una specie di codice binario (si dice / non si dice) che non mette le minoranze e i singoli individui al riparo dal rischio di essere offesi o diffamati, che non migliora significativamente le condizioni di vita delle persone, che esclude chi di quel codice non conosce la chiave, che appaga e deresponsabilizza chi lo domina e lo applica, e che infine, ciliegina sulla torta, permette a fascistoidi di ogni risma di fare i martiri della censura. Non proprio un gran bilancio, ad essere onesti.
Naturalmente questo non significa che tutte le parole siano accettabili allo stesso modo, che non vi sia una soglia di decoro e rispetto oltre la quale è bene non avventurarsi, che non si debba fare uno sforzo per evitare di profanare a parole le mura del tempio dove ciascuno di noi, credente o meno, custodisce la sua idea di sacro e di indicibile. Soprattutto non bisogna dimenticare che, se usate per offendere o diffamare, certe parole smettono di essere parole per convertirsi a tutti gli effetti in atti performativi. Lo ricorda molto bene Federico Faloppa – memore della lezione di John Langshaw Austin – nel suo Razzisti a parole, quando a proposito della n-word sottolinea che dicendo negro a qualcuno, «non solo insultiamo, ma è come se rievocassimo la storia (drammatica) del termine»4. Non a caso in alcuni Paesi gli insulti razziali sono sanzionati: perché, sottolinea ancora Faloppa, sono equiparati ad atti di razzismo “materiale”. In un libro ancora piú ricco e documentato 5, nel mappare e classificare l’ampia fenomenologia del cosiddetto hate speech, lo stesso Faloppa ci ricorda tuttavia la difficoltà di definire i confini linguistici, filosofici e legali dell’odio verbale, il rischio che il principio giuridico alla base delle leggi che puniscono l’incitamento all’odio verso le minoranze possa essere invocato anche per difendere i gruppi maggioritari e dominanti, il pericolo infine che le leggi a tutela delle persone offese e discriminate possano limitare, alla lunga, la libertà d’espressione.
Piú che altro, come ricordava Tullio De Mauro in un lungo articolo uscito su «Internazionale» poco prima della sua morte e dedicato alle «parole per ferire»6, qualunque espressione può essere utilizzata come oggetto contundente, e questo vale anche per quelle che sulla carta sarebbero concepite proprio per includere. Qualche anno fa, mentre accompagnavo mio figlio dodicenne e due suoi amici a una partita di calcio, dal sedile posteriore dove i tre erano seduti a un certo punto si udí distintamente uno di loro apostrofare un altro con le seguenti parole: «Ehi, ma sei gay?» Al mio timido tentativo di fargli capire che non era un bel modo di rivolgersi a chicchessia, la piccola faccia di bronzo replicò: «Mica gli ho detto: “Sei frocio?”», dimostrando di aver perfettamente interiorizzato le forme del protocollo linguistico senza averne colta in alcun modo l’essenza. Per lui non contavano le parole; contavano il significato e l’intenzione. Contava il fatto che i gay, qualunque sostantivo si usasse per definirli, a lui comunque non piacevano. Insomma, forse non aveva tutti i torti Robert Hughes quando oltre trent’anni fa scriveva, con amara ironia, che «l’unico vantaggio [del politicamente corretto] è che i teppisti che una volta pestavano i froci adesso pestano i gay»7, e ha ancora meno torto Walter Siti quando, nel suo recente saggio Contro l’impegno, rileva che «se la morale non vuole essere farisaica, la sostanza dovrebbe contare piú della forma», sottolineando inoltre che «il criterio di giudizio dovrebbe essere quello della reale volontà di offendere, piú che l’ansia di mettere le mutande al linguaggio»8.
Il fatto è che il culto fideistico del potere taumaturgico (o infettivo) delle parole nasconde una visione del mondo molto rigida, l’idea cioè che ogni aspetto del reale, compresi quelli meno rilevanti, debba essere semantizzato o risemantizzato per aderire a una certa narrazione, che nulla abbia significato se non si dà un significato a tutto. Una volta ridotto il reale alle categorie di «buono» e «cattivo», è poi quasi inevitabile passare al livello successivo, sollecitando la rimozione di ciò che è «cattivo», anche se questa «cattiveria» è distante, opaca, impalpabile. Perché la rivoluzione o è integrale, o non è.
Questo spiega, ad esempio, lo zelo ortopedico con cui di tanto in tanto all’interno di alcune categorie si propongono aggiornamenti del lessico rincorrendo con ostinazione nuovi significanti che facciano dimenticare i vecchi significati. Qualche anno fa, in seguito a una delle periodiche derive autoparodistiche del politicamente corretto, entrò in uso la locuzione diversamente abile (calco dell’inglese differently abled, coniata a fine anni Ottanta negli ambienti del Democratic National Committee americano), che nelle intenzioni dei suoi inventori avrebbe dovuto proporre la condizione di disabilità in una luce positiva. Niente piú espressioni come disabili, portatori di handicap, o peggio ancora handicappati, che rimandavano a un’idea di mancanza, ...

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