La vita prima della fine. Lo stato vegetativo tra etica religione e diritto
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La vita prima della fine. Lo stato vegetativo tra etica religione e diritto

Galletti, Matteo, Zullo, Silvia

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La vita prima della fine. Lo stato vegetativo tra etica religione e diritto

Galletti, Matteo, Zullo, Silvia

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La condizione clinica dello stato vegetativo permanente ha sollevato, negli ultimi decenni, dibattiti sul trattamento di chi, a causa di lesioni cerebrali, ha perduto irreversibilmente la coscienza pur continuando a sopravvivere biologicamente. Anche i media hanno dato ampia notizia di casi divenuti celebri, come quelli di Karen Quinlan, Anthony Bland, Terry Schiavo ed Eluana Englaro. Dietro questi nomi si celano storie individuali, dilemmi morali che sollecitano la riflessione e pongono sfide al diritto. Questo volume presenta saggi di studiosi di vari settori disciplinari - filosofia, religione, diritto - e vuole essere un contributo al confronto, al fine di chiarire quali sono gli strumenti in grado di tutelare al meglio i diritti e la dignità degli uomini anche in situazioni cliniche 'di confine'. Matteo Galletti, studioso di Bioetica all'Università di Bologna, ha pubblicato il volume Decidere per chi non può. Approcci filosofici all'eutanasia non volontaria (Firenze 2005) e con S. Zullo e A. Verza ha curato la raccolta di saggi Bioetica. Diritto e diritti (Bologna 2006).
Silvia Zullo si occupa di Bioetica presso l'Università di Bologna. Ha pubblicato il volume L'aiuto a morire. Eutanasia e diritto nell'orizzonte della filosofia di Emanuel Lévinas (Bologna 2006) e curato, con C. Faralli, l'antologia Questioni di fine vita. Riflessioni bioetiche al femminile (Bologna 2008).

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Información

Año
2010
ISBN
9788864532073
Categoría
Diritto
Categoría
Diritto medico

Note a margine dei recenti disegni di legge relativi al ‘testamento biologico’[1]

Davide Tassinari

1. Premessa

Le proposte di legge avanzate nel corso della legislatura che si è appena conclusa in merito alle direttive anticipate e al testamento biologico presentano molteplici aspetti di interesse. Ciò non solo in quanto esse si pongono l’obiettivo di fornire, in una prospettiva de iure condendo, una risposta alle complesse problematiche – recentemente riportate all’attenzione dell’opinione pubblica nei casi Welby ed Englaro[2] – inerenti alla ‘fine della vita’; ma anche perché gli interrogativi che questa materia solleva sembrano riguardare in ugual misura il diritto civile, il diritto penale[3], e la novella branca della ‘biogiuridica’, ovvero quell’insieme di studi e riflessioni che, quasi per premessa metodologica, si pongono ‘problematicamente’ a cavallo fra la bioetica e il diritto[4].
I temi in discorso sono dunque caratterizzati da una fisionomia multidisciplinare e da un’indubbia attualità mediatica; essi tuttavia costituiscono un oggetto di analisi non nuovo. Da oltre un trentennio, soprattutto grazie alle suggestioni e agli stimoli provenienti dalle indagini di diritto comparato e, primariamente, da quelle riguardanti il panorama giuridico anglosassone, il testamento biologico – altresì denominato «living will», ovvero «testamento di vita» – è divenuto uno fra i più controversi topoi della riflessione giuridica.
Neppure nel panorama della ‘progettazione’ normativa italiana, l’idea di attribuire a siffatto ‘documento’ un’esplicita veste di disciplina rappresenta una novità. Negli ultimi anni, infatti, molteplici sono state le voci levatesi, in dottrina così come in sede d’iniziativa legislativa, a favore dell’introduzione del ‘testamento biologico’ nel diritto positivo[5].
Benché al tema sia già stata dedicata più di un’indagine, sia in rapporto alla sua dimensione tecnico-giurdica che a quella, in senso lato, ‘culturale’, i progetti di legge presentati in relazione al living will nel corso della legislatura che si è appena chiusa paiono meritevoli di una particolare attenzione. Due sono i dati che balzano agli occhi: sotto il profilo quantitativo, ben sedici sono i disegni di legge relativi al living will che sono stati presentati alla camera ed al senato[6]; dal punto di vista ‘qualitativo’, va notato come siffatti progetti di legge provengano sia dalla maggioranza di governo che dall’opposizione. Può anzi dirsi che essi sono, nel loro complesso, lo specchio di posizioni politiche ontologicamente contrapposte e al contempo espressive della quasi totalità dell’‘arco costituzionale’[7]. Orbene, a dispetto delle antitesi di fondo che dovrebbero contrassegnare, in ragione delle diverse posizioni da cui esse originano, le proposte legislative in discorso, appare sorprendente come, sia pure con differenti toni e accenti, esse lascino nel loro insieme trasparire alcune significative note bipartisan[8].
Ciascuno dei disegni di legge – siano essi ‘di destra’ o ‘di sinistra’ –, come si evince dalle relazioni dei loro proponenti, prende, infatti, le mosse dall’evidenziazione di un comune dato di fondo: la legislazione – si pensi alla Convenzione di Oviedo[9] –, la giurisprudenza – si pensi al noto caso Massimo – e lo stesso sentore sociale segnalano un profondo mutamento del rapporto medico-paziente, di cui il diritto positivo deve necessariamente prendere atto[10]. Siffatto rapporto, dopo essersi progressivamente distanziato dal vecchio archetipo del ‘paternalismo’ medico, oggi più che mai risulta incentrato sulla preminenza del principio di autodeterminazione alle cure, la cui principale espressione pare doversi individuare proprio nel diritto al loro rifiuto dal parte del paziente[11].
Nel mentre appare assai arduo dar conto nel dettaglio del proprium di ciascuno degli anzidetti progetti di legge – una tale analisi non potrebbe certo formare oggetto di queste brevi note –, nelle pagine che seguono ci si propone di evidenziare alcuni centrali aspetti del tema qui trattato. Ciò sia in rapporto alle principali analogie e differenze di disciplina riscontrabili nella progettazione normativa in tema di living will, sia in relazione ad alcuni dei limiti e delle insufficienze che paiono caratterizzarla globalmente.

2. Le alterne vicende del ‘diritto di rifiutare le cure’

Non pare, anzitutto, superfluo evidenziare come l’enunciazione espressa di un diritto del paziente a rifiutare le cure e, più in particolare, di un suo diritto al ‘dissenso’, operante anche in relazione a trattamenti ‘salvavita’, appaia estremamente significativa. L’affermazione di un tale diritto, presente nella più gran parte dei progetti di legge – sia pure, come più oltre si dirà, con talune sensibili diversità di formulazione –, oltre a rappresentare un antecedente logico rispetto alla regolamentazione del testamento biologico, riveste una considerevole importanza sistematica. Nel recente passato della prassi clinica, della dottrina e della giurisprudenza, la stessa esistenza di siffatto diritto è stata, infatti, non di rado messa in discussione, se non addirittura esplicitamente negata[12]. Alcuni emblematici casi ‘pro’ e ‘contro’ paiono rintracciabili nelle decisioni giurisprudenziali in tema di rifiuto delle cure manifestato dai testimoni di Geova[13]. Il complesso ambito delle pronunce in materia di responsabilità medica sembra, a sua volta, evidenziare come il diritto in discorso, pur essendo oggi riconosciuto dalla giurisprudenza, presenti ancora contorni sensibilmente incerti[14]. In questi settori, il quadro interpretativo inerente alle norme di legge ordinaria e costituzionale incidenti sul tema del consenso risulta estremamente ‘oscillante’.
Come noto, le più rilevanti – e basilari – discordanze in tema autodeterminazione del paziente alle cure hanno avuto a oggetto il dettato costituzionale[15]. Benché il disposto di cui all’art. 32 della Costituzione appaia univoco nel riconoscere l’esistenza di un diritto individuale all’‘autodeterminazione terapeutica’, operante salve le sole eccezioni dei ‘trattamenti sanitari obbligatori’, parte della dottrina ha interpretato la norma in discorso in senso restrittivo. Essa non implicherebbe affatto un diritto di rifiutare i trattamenti quoad vitam: l’esame storico della disposizione, secondo tale indirizzo, attesterebbe invece la sua natura, per così dire, di affermazione di principio, correlata alla condanna degli episodi di ‘barbarie medica’ che la storia recente ci rammenta[16]. Da qui l’origine di una tormentata – e ad oggi irrisolta – disputa assiologica e interpretativa: il concetto di autodeterminazione alle cure, se pure viene affermato nella Carta fondamentale in modo che parrebbe esente da possibili fraintendimenti, è stato conciliato, a seconda dei diversi punti di vista, con soluzioni ermeneutiche a sfondo sia ‘individuale’ che ‘collettivo’[17]. La tutela della vita nell’ordinamento giuridico vigente, proprio in virtù di siffatte discrasie interpretative, pare anzi destinata a indossare una veste duplice e ambigua: a un tempo quella di diritto e quella di dovere, quest’ultima caratterizzata da un’immanenza dello stato, in senso ‘tutorio’ e ‘censorio’, sulle scelte individuali[18].
Per un comprensibile effetto ‘a cascata’, direttamente derivante dal controvertibile quadro di valori di cui si è detto, incertezze applicative non meno sensibili hanno interessato le disposizioni di legge ordinaria, segnatamente quelle penali, inerenti la tutela della vita. Il rifiuto dei trattamenti terapeutici, anziché venire in considerazione – come forse avrebbe dovuto – quale limite implicito e invalicabile al dovere di intervento del medico, è stato sovente destituito del centrale valore che l’art. 32 della Costituzione ha verosimilmente inteso assegnargli[19].
La ‘progettata’ enunciazione positiva del diritto di rifiutare le cure, in quest’ottica, sembra di per sé poter sortire molteplici, desiderabili effetti: in primis, la cessazione dell’inesauribile diatriba di cui si è appena detto e, in secondo luogo, la conquista di un minimum di certezza del diritto nel delicato settore della responsabilità medica. La positivizzazione dei confini di autodeterminazione del paziente pare, anzi, possedere una duplice valenza: da un lato, essa potrebbe significativamente ridurre i timori oggi ingiustamente gravanti sulla classe medica, esposta a un duplice e concorrente ‘rischio’ di responsabilità penale, quello derivante dall’omissione delle terapie e quello correlato al ‘trattamento arbitrario’; dall’altro, essa varrebbe ad aumentare il coefficiente di precettività-tassatività delle fattispecie incriminatrici poste a tutela della vita e, in particolare, delle ipotesi di colpa per omissionem, delle quali la responsabilità medica costituisce un terreno elettivo d’applicazione. Tali fattispecie, invero, a fronte di una espressa tipizzazione legislativa del binomio consenso-rifiuto alla terapia e dei suoi limiti, non potrebbero più essere interpretate in modo ‘incondizionato’, ma risulterebbero etero-limitate – e perciò stesso rese maggiormente determinate – dal principio-cardine dell’autodeterminazione terapeutica[20].
Sulla base di qu...

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