Tu sarai la prima
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Tu sarai la prima

Una corsa contro il tempo, una nuova terapia, un incontro eccezionale

Carlo Gambacorti-Passerini, Stefania Luciani

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  1. 157 páginas
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Tu sarai la prima

Una corsa contro il tempo, una nuova terapia, un incontro eccezionale

Carlo Gambacorti-Passerini, Stefania Luciani

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Una discesa in neve fresca come metafora della vita: lì davanti, sotto di noi, una distesa bianca, invitante, da solcare per primi, liscia e regolare, ma che può celare insidie mortali: una radice di albero, una pietra, un crepaccio. Eppure lo sciatore prosegue, perché ne vale la pena. Una storia vera, che potrebbe sembrare un romanzo di suspense all'ultimo minuto, ma che in realtà è un monito per ciò che potrebbe capitare ad ognuno di noi.Nel 2009 Carlo è ormai un affermato oncologo e ricercatore, Stefania una giovane infermiera con un luminoso futuro davanti a sé; lavorano insieme, collaborano proficuamente e tutto sembra andare per il meglio.Improvvisamente per Stefania arriva una diagnosi inaspettata e terribile ad oscurare questa tranquillità, una diagnosi che porta il medico a fare di tutto per trovare una terapia efficace alternativa alla chemio, e l'infermiera a lottare per la propria sopravvivenza, passando suo malgrado dall'altro lato della barricata.Il racconto, narrato in prima persona dai due protagonisti, dimostra come coraggio, impegno e caparbietà siano i motori trainanti della continua ricerca di nuove soluzioni.

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Información

Editorial
Ledizioni
Año
2019
ISBN
9788867059706
Categoría
Medicine
STEFANIA - AUTUNNO
Sembrava tutto normale, fino a due settimane prima della partenza per Roma. Incominciai ad accusare i primi sintomi della febbre: avevo freddo e sentivo le avvisaglie di un malanno influenzale di passaggio. La temperatura salì sempre di più fino a che decisi di prendere qualche medicinale, una pastiglia o due per tamponare il malessere e non rimanere colta in fallo durante un evento così importante. Dopo qualche giorno di malattia, però, le medicine non alleviavano i miei dolori; come se non bastasse alcuni linfonodi si erano ingrossati sulla coscia, nella zona dell’inguine. Non avevo dato importanza alla cosa, era una banale infezione come tante.
I sintomi peggiorarono nella settimana precedente la conferenza. Iniziavo a preoccuparmi, ma non volevo essere sconfitta da un malessere di passaggio. Passarono due giorni prima che mi convincessi ad entrare nel confessionale. Un confessionale laico e clinico. Un confessionale bianco e pulito. Un confessionale cinico e spietato, uno di quelli che ti urla la verità in faccia e non ti permette di pensare ai tuoi peccati. A quel punto non sarei stata più l’infermiera che ero, ma il dolore mi spinse a mettere da parte la mia smania per il lavoro. Il male era andato sempre aumentando e io non me n’ero nemmeno resa conto fino a qualche giorno prima della partenza, fino a quando la gamba era così gonfia da pulsare e la febbre mi inchiodava ogni notte in un bagno di sudore e brividi. Non riuscivo più a tenere sotto controllo la situazione. Non facevo più sforzi di quanti me ne fossero richiesti. Avevo alzato bandiera bianca e mi ero arresa. Non sarei andata a Roma.
Il giorno prima della partenza mancata mi comportai come un soldato che abbandona il campo di battaglia. Mi svegliai in ritardo, poco lucida a causa della febbre persistente. Mi ero vestita con quello che avevo trovato sotto mano; forse il maglione che avevo indosso era sporco e utilizzato il giorno precedente, ma non ci feci caso. Indossai quell’armatura sgualcita e mi preparai per andare in ospedale, incontro al mio destino. Come da copione, affrontai gli otto piani di ascensore fino all’ufficio del professore. I piedi erano sempre più pesanti e i brividi correvano lungo tutto il mio corpo. La gamba doleva. Provavo paura e dolore, due sensazioni che si combattevano a vicenda, ma alla fine il corpo ebbe la meglio. Il dolore vinse su tutto e bussai alla porta d’ingresso dell’ufficio. Sentii il professore che mi invitava ad entrare, ma la febbre aveva reso i suoni ovattati. Avevo ripetuto mentalmente la parte che avrei dovuto recitare, ma le parole non seguivano i pensieri.
Si palesò per l’ultima volta l’incubo della montagna. Avevo finalmente raggiunto l’apice ed ero scivolata sullo strato di ghiaccio. La metafora della caduta si era finalmente realizzata e, dal momento in cui entrai nell’ufficio, incominciò la caduta inesorabile verso l’abisso nero sotto i miei piedi.
Mi trascinai a stento verso la scrivania. Intravidi il professore mentre stava preparando dei documenti da riporre nello zaino. Il camice bianco era appeso al muro. Tutto era in ordine, un ordine molto soggettivo a cui ormai ero abituata: le carte sulla scrivania e le cartelle cliniche sul tavolo vicino all’ingresso, i quadri leggermente inclinati e i tanti titoli di studio esposti sulla parete più nascosta. Il professore mi salutò e io ricambiai con una smorfia. Appena mi sedetti non riuscii a tenere dentro quello che, da ormai due settimane, stava ottenebrando il mio corpo e la mia mente. Le lacrime iniziarono a rigarmi il viso e confessai al professore che non sarei riuscita ad accompagnarlo a Roma. Ero riuscita a confessare il mio peccato. Dopo la sua reazione di delusione, il professore indossò il camice. Una veste fatta di professionalità, esperienza ed umanità. Cominciò una visita medica inaspettata, fatta sul momento e lontano dagli ambulatori di ricerca.
La prima domanda, come di routine, riguardò i sintomi. Dissi che la febbre non aveva dato alcun cenno di diminuire nelle ultime due settimane. Inoltre, con un poco di fatica in più, rivelai i linfonodi ingrossati che deformavano la mia coscia. Dall’altra parte della scrivania, arrivò la reazione. La cosa che mi spaventava di più si palesò in un battere di ciglia. Il Prof annuì e allungò la mano, impugnò la cornetta e chiamò un collega di un altro reparto. La tempestività della sua azione mi colpì alla velocità di un proiettile. Il colpo penetrò in profondità e raggiunse le mie paure più recondite. Invece il dolore aveva tenuto il mio corpo incatenato alla sedia.
Io e il Prof percorremmo i corridoi dell’Ospedale fino ad arrivare alla stanza dell’ecografia. Percorsi tutti quei metri come fossi in un labirinto, un luogo sconosciuto anche se vi avevo passato tre mesi della mia vita. Avevo avuto quei posti sotto gli occhi per tutto quel tempo, ma in quel momento non li riconoscevo. Forse era colpa della febbre. Il male era salito dall’inguine fino all’addome, e poi dietro lungo tutta la schiena. Camminavo di fianco al professore come se fosse uno sconosciuto e, in effetti, in quel momento lo era: ero stata catapultata nella situazione in cui un’estranea incontra un primario per la prima volta.
Mi sembrava di aver percorso dieci chilometri di marcia, invece ero passata da un piano ad un altro, dall’Unità di Ricerca Clinica al reparto in cui si effettuano le ecografie. A noi si era aggiunta un’altra ragazza, una giovane studentessa che seguiva le nostre orme, un po’ attenta alla situazione, un po’ sulle tracce di un male da indagare e studiare in provetta. Entrai nella stanza dei macchinari e mi sdraiai sul lettino. La superficie era ricoperta dal solito rotolo di carta, freddo e bianco. Una volta su di esso sarebbe iniziato il viaggio alla scoperta del mio male, qualunque fosse. L’ecografista incominciò a scandagliare la mia gamba, la sua mano si muoveva sul mio inguine e sullo schermo comparivano segni a me indecifrabili. Masse, vasi sanguigni e tessuti si susseguivano sul dispositivo come a tracciare una mappa del campo di battaglia. Una lunga linea di trincee intervallata da masse irriconoscibili, che potevano essere mine rimaste inesplose. Mentre l’esame si dilungava per un periodo eccessivo rispetto alla media, sentivo il medico che parlava con il professore. “Non capisco cosa sia questa massa. È molto estesa. Si parla di due centimetri, forse tre”. Lo specialista continuava. “Qui c’è tutto un impacchettamento. Non ci si capisce niente. È tutto impacchettato”. Non riuscivo a stare dietro ai discorsi, mi limitavo a vedere lo sguardo del professore che incrociava quello dell’ecografista.
Non si prospettava nulla di positivo, ma avevo troppo dolore per alzarmi da quel gelido pezzo di carta. Il mio male poteva essere qualsiasi cosa. La prima ipotesi fu quella di un’infezione. Tirai un sospiro di sollievo. In quel momento non desideravo altro che sentire le parole “infezione batterica. Fai qualche giorno di antibiotico”. E così andò. Tornai a casa, mi stesi sul letto e presi gli antibiotici. Aspettai fino a che il sonno si portò via il dolore, che comunque a notte fonda tornò all’attacco, un male lancinante che riprese a galoppare dall’inguine fino dietro lungo la schiena. La febbre si alzò fino ad arrivare ai picchi dei giorni precedenti. La tanto sperata infezione non era più una certezza.
Il giorno successivo presi in mano la cornetta e chiamai il professore. Dolore e febbre erano persistenti e andavano aumentando. “Stefania, devi fare una biopsia, per capire cosa vi sia dietro all’ingrossamento dei linfonodi. Domani vieni in Ospedale”.
Come ero arrivata a quel punto? Il palesarsi dei sintomi era arrivato di corsa ed era peggiorato sempre di più. Il giorno dopo fui ricoverata in ospedale. Dovevo liberarmi dal dolore e passare dal letto di un ospedale era l’unico modo per farlo. In una calda mattina d’autunno entrai in un vortice che avrebbe stravolto la mia vita: non sapevo a cosa stessi andando incontro e, probabilmente, non volevo saperlo. La priorità era cancellare il dolore, renderlo nullo e ritornare a vivere la mia quotidianità. Ero cieca davanti alla sofferenza e non riuscivo a pensare a ciò che avrei dovuto affrontare. Avevo 26 anni e volevo vivere la mia vita, non potevo permettere che una malattia mi incatenasse nel letto.
Il giorno successivo mi recai in ospedale; entrando dal solito ingresso per i dipendenti, però, rimasi subito spaesata. Non ero più me stessa. Quel massiccio edificio grigio che si innalzava sopra la mia testa non era la stessa struttura, non stavo affrontando una tipica giornata lavorativa: ero una paziente, estenuata dal dolore e preoccupata da quello a cui stavo andando incontro. Il passo successivo sarebbe stato l’esame istologico. Un referto che sarebbe stato lontano poco più di un passo dal togliermi tutto quello che avevo conquistato.
Fui ricoverata per cinque giorni e, per la prima volta, rimasi rinchiusa tra le mura fredde del reparto di Chirurgia dell’ospedale di Monza. Scorreva tutto troppo velocemente. Non riuscivo a stare dietro allo svolgersi degli eventi. Fino a due settimane prima ero ancora me stessa. La mente andava per conto suo, ma dolore e febbre rimanevano sempre presenti, appollaiati ai piedi del letto d’ospedale. Volevo che mi abbandonassero. Volevo ritornare la persona di sempre e occuparmi del mio lavoro a tempo pieno. Rabbia e dolore mi tappavano la bocca e non permettevano che l’ossigeno fluisse giù per la gola, fino ai polmoni. Non avevo paura, ma sembrava essere la sensazione peggiore che avessi mai provato.
L’arrivo dei miei parenti più stretti fu il primo presagio del fatto che le cose non stessero andando per il meglio. Mio padre e mia zia presero la macchina e mi raggiunsero. Come in qualsiasi situazione, avere vicino le persone più care incute un poco di timore. Ti senti protetta e, al contempo, non vorresti. La mente pensa e ripensa a quello che sta succedendo e le emozioni seguono a ruota. Era il mese di ottobre e stava iniziando l’autunno della mia vita.
La febbre non scendeva e nessuno poteva fare qualcosa per aiutarmi. Nei momenti in cui stavo meglio, mio padre diventava il complice di una giovane paziente che fuggiva verso l’uscita più vicina per fumare una sigaretta. Mentre tutti erano distratti, mi attaccavo al filtro e sentivo il fumo scendere.
Il referto dell’esame istologico non impiegò molto ad arrivare. Come di consueto, le brutte notizie non si fanno mai aspettare. Le novità, quando sono negative, arrivano sempre celeri e pungenti.
Dopo cinque giorni di ricovero ero ritornata a casa. Anche se il cortisone rendeva il dolore sopportabile e portava la febbre sotto la linea dei 37 gradi, ero sempre in attesa di una risposta, una frase che avrebbe messo fine alla mia curiosità, se si poteva definire tale. Sapevo già come stavano le cose, tutti i segnali si erano palesati davanti ai miei occhi. Il ricovero, la febbre, gli esami, le preoccupazioni sui visi altrui. Eppure, come un bambino che non vuole smettere di credere a una favola, aspettavo il referto e cercavo di immaginare una via di fuga dalle poche frasi che avrebbero segnato la mia vita di lì in avanti. Immaginavo un riscontro diverso, un lieto fine dopo quasi tre settimane di tribolazione.
Durante tutto quel tempo il Prof era sempre rimasto a vigilare su di me. Non potevo vederlo direttamente, ma sapevo che era lì accanto. Stava cercando di ottenere un referto che, nella norma, avrebbe impiegato un periodo infinito prima di arrivare. Grazie a qualche scorciatoia, l’esito della biopsia arrivò prima del previsto, in un tempo da record.
Nel frattempo io ero ritornata a vivere una quotidianità che non mi apparteneva. Passavo la giornata in casa e sedavo la febbre con tre pastiglie a cadenza regolare. Era appena iniziato l’autunno, ma riuscivo ancora a sentire gli ultimi spasmi del caldo estivo. Sebbene le giornate fossero sempre più fresche, nelle giornate di sole mi ritrovavo sul balcone a cercare di assaporare le ultime vampate di aria estiva, quell’aria calda e piacevole che scivolava sul corpo e scaldava il viso.
La normalità e la routine dovevano essere parte integrante del mio ricovero casalingo. Il desiderio di fare qualche passo fuori di casa mi spingeva a sopportare dolore e febbre. Tra le tante chiamate ricevute, anche quella di un amico che viveva a pochi passi da Milano. Una sera squillò il telefono e mi attaccai alla cornetta con la stessa forza con cui accendevo le sigarette al riparo da occhi indiscreti nel breve periodo in cui ero rimasta ricoverata al San Gerardo di Monza.
“Ciao Stefania, come stai? Vieni a bere una birra questa sera?”. La mia risposta fu un lungo e deciso “sì, volentieri” che mi avrebbe sottratto per qualche ora al pensiero del referto istologico. Mio padre mi accompagnò in centro a Monza. Daniele era lì ad aspettarmi. La preoccupazione mi aveva resa una sconosciuta ai suoi occhi. Dopo aver ordinato una birra al bancone del bar, ascoltai quello che aveva da dirmi. Le sue parole mi passavano da un capo all’altro della testa, senza provocare interesse. Ero assorta nei miei pensieri e riuscivo a concentrarmi solo sull’esito della biopsia che era in cammino verso l’Ospedale di Monza. Guardavo le bolle fluttuare nel bicchiere. Sembravano un richiamo alla mia situazione. Nascevano dal fondo concavo del boccale e, gentilmente, salivano fino a creare la schiuma. La loro vita durava giusto una frazione di secondo e poi andavano a disperdersi, come se non importasse di dove fossero e quale fosse la loro condizione. Vivevano di attimo in attimo e non sembravano preoccuparsene. Dopo aver terminato di fantasticare, ritornai ad ascoltare le parole di Daniele: casa, lavoro e amicizie. Viveva una routine alla quale pensavo con invidia. Anche nel momento dei saluti ero rimasta indifferente. “Ciao Stefania, fammi sapere appena hai qualche novità”. Dentro di me pensavo che certe frasi di rito dovessero essere abolite, parole da scrivere su un foglio per poi essere accartocciate e buttate nel primo cestino nelle vicinanze.
Non riuscivo a combattere l’apatia creata dalle aspettative. Forse ero solamente in cerca di una buona noti...

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