STEFANIA - AUTUNNO
Sembrava tutto normale, fino a due settimane prima della partenza per Roma. Incominciai ad accusare i primi sintomi della febbre: avevo freddo e sentivo le avvisaglie di un malanno influenzale di passaggio. La temperatura salĂŹ sempre di piĂč fino a che decisi di prendere qualche medicinale, una pastiglia o due per tamponare il malessere e non rimanere colta in fallo durante un evento cosĂŹ importante. Dopo qualche giorno di malattia, perĂČ, le medicine non alleviavano i miei dolori; come se non bastasse alcuni linfonodi si erano ingrossati sulla coscia, nella zona dellâinguine. Non avevo dato importanza alla cosa, era una banale infezione come tante.
I sintomi peggiorarono nella settimana precedente la conferenza. Iniziavo a preoccuparmi, ma non volevo essere sconfitta da un malessere di passaggio. Passarono due giorni prima che mi convincessi ad entrare nel confessionale. Un confessionale laico e clinico. Un confessionale bianco e pulito. Un confessionale cinico e spietato, uno di quelli che ti urla la veritĂ in faccia e non ti permette di pensare ai tuoi peccati. A quel punto non sarei stata piĂč lâinfermiera che ero, ma il dolore mi spinse a mettere da parte la mia smania per il lavoro. Il male era andato sempre aumentando e io non me nâero nemmeno resa conto fino a qualche giorno prima della partenza, fino a quando la gamba era cosĂŹ gonfia da pulsare e la febbre mi inchiodava ogni notte in un bagno di sudore e brividi. Non riuscivo piĂč a tenere sotto controllo la situazione. Non facevo piĂč sforzi di quanti me ne fossero richiesti. Avevo alzato bandiera bianca e mi ero arresa. Non sarei andata a Roma.
Il giorno prima della partenza mancata mi comportai come un soldato che abbandona il campo di battaglia. Mi svegliai in ritardo, poco lucida a causa della febbre persistente. Mi ero vestita con quello che avevo trovato sotto mano; forse il maglione che avevo indosso era sporco e utilizzato il giorno precedente, ma non ci feci caso. Indossai quellâarmatura sgualcita e mi preparai per andare in ospedale, incontro al mio destino. Come da copione, affrontai gli otto piani di ascensore fino allâufficio del professore. I piedi erano sempre piĂč pesanti e i brividi correvano lungo tutto il mio corpo. La gamba doleva. Provavo paura e dolore, due sensazioni che si combattevano a vicenda, ma alla fine il corpo ebbe la meglio. Il dolore vinse su tutto e bussai alla porta dâingresso dellâufficio. Sentii il professore che mi invitava ad entrare, ma la febbre aveva reso i suoni ovattati. Avevo ripetuto mentalmente la parte che avrei dovuto recitare, ma le parole non seguivano i pensieri.
Si palesĂČ per lâultima volta lâincubo della montagna. Avevo finalmente raggiunto lâapice ed ero scivolata sullo strato di ghiaccio. La metafora della caduta si era finalmente realizzata e, dal momento in cui entrai nellâufficio, incominciĂČ la caduta inesorabile verso lâabisso nero sotto i miei piedi.
Mi trascinai a stento verso la scrivania. Intravidi il professore mentre stava preparando dei documenti da riporre nello zaino. Il camice bianco era appeso al muro. Tutto era in ordine, un ordine molto soggettivo a cui ormai ero abituata: le carte sulla scrivania e le cartelle cliniche sul tavolo vicino allâingresso, i quadri leggermente inclinati e i tanti titoli di studio esposti sulla parete piĂč nascosta. Il professore mi salutĂČ e io ricambiai con una smorfia. Appena mi sedetti non riuscii a tenere dentro quello che, da ormai due settimane, stava ottenebrando il mio corpo e la mia mente. Le lacrime iniziarono a rigarmi il viso e confessai al professore che non sarei riuscita ad accompagnarlo a Roma. Ero riuscita a confessare il mio peccato. Dopo la sua reazione di delusione, il professore indossĂČ il camice. Una veste fatta di professionalitĂ , esperienza ed umanitĂ . CominciĂČ una visita medica inaspettata, fatta sul momento e lontano dagli ambulatori di ricerca.
La prima domanda, come di routine, riguardĂČ i sintomi. Dissi che la febbre non aveva dato alcun cenno di diminuire nelle ultime due settimane. Inoltre, con un poco di fatica in piĂč, rivelai i linfonodi ingrossati che deformavano la mia coscia. Dallâaltra parte della scrivania, arrivĂČ la reazione. La cosa che mi spaventava di piĂč si palesĂČ in un battere di ciglia. Il Prof annuĂŹ e allungĂČ la mano, impugnĂČ la cornetta e chiamĂČ un collega di un altro reparto. La tempestivitĂ della sua azione mi colpĂŹ alla velocitĂ di un proiettile. Il colpo penetrĂČ in profonditĂ e raggiunse le mie paure piĂč recondite. Invece il dolore aveva tenuto il mio corpo incatenato alla sedia.
Io e il Prof percorremmo i corridoi dellâOspedale fino ad arrivare alla stanza dellâecografia. Percorsi tutti quei metri come fossi in un labirinto, un luogo sconosciuto anche se vi avevo passato tre mesi della mia vita. Avevo avuto quei posti sotto gli occhi per tutto quel tempo, ma in quel momento non li riconoscevo. Forse era colpa della febbre. Il male era salito dallâinguine fino allâaddome, e poi dietro lungo tutta la schiena. Camminavo di fianco al professore come se fosse uno sconosciuto e, in effetti, in quel momento lo era: ero stata catapultata nella situazione in cui unâestranea incontra un primario per la prima volta.
Mi sembrava di aver percorso dieci chilometri di marcia, invece ero passata da un piano ad un altro, dallâUnitĂ di Ricerca Clinica al reparto in cui si effettuano le ecografie. A noi si era aggiunta unâaltra ragazza, una giovane studentessa che seguiva le nostre orme, un poâ attenta alla situazione, un poâ sulle tracce di un male da indagare e studiare in provetta. Entrai nella stanza dei macchinari e mi sdraiai sul lettino. La superficie era ricoperta dal solito rotolo di carta, freddo e bianco. Una volta su di esso sarebbe iniziato il viaggio alla scoperta del mio male, qualunque fosse. Lâecografista incominciĂČ a scandagliare la mia gamba, la sua mano si muoveva sul mio inguine e sullo schermo comparivano segni a me indecifrabili. Masse, vasi sanguigni e tessuti si susseguivano sul dispositivo come a tracciare una mappa del campo di battaglia. Una lunga linea di trincee intervallata da masse irriconoscibili, che potevano essere mine rimaste inesplose. Mentre lâesame si dilungava per un periodo eccessivo rispetto alla media, sentivo il medico che parlava con il professore. âNon capisco cosa sia questa massa. Ă molto estesa. Si parla di due centimetri, forse treâ. Lo specialista continuava. âQui câĂš tutto un impacchettamento. Non ci si capisce niente. Ă tutto impacchettatoâ. Non riuscivo a stare dietro ai discorsi, mi limitavo a vedere lo sguardo del professore che incrociava quello dellâecografista.
Non si prospettava nulla di positivo, ma avevo troppo dolore per alzarmi da quel gelido pezzo di carta. Il mio male poteva essere qualsiasi cosa. La prima ipotesi fu quella di unâinfezione. Tirai un sospiro di sollievo. In quel momento non desideravo altro che sentire le parole âinfezione batterica. Fai qualche giorno di antibioticoâ. E cosĂŹ andĂČ. Tornai a casa, mi stesi sul letto e presi gli antibiotici. Aspettai fino a che il sonno si portĂČ via il dolore, che comunque a notte fonda tornĂČ allâattacco, un male lancinante che riprese a galoppare dallâinguine fino dietro lungo la schiena. La febbre si alzĂČ fino ad arrivare ai picchi dei giorni precedenti. La tanto sperata infezione non era piĂč una certezza.
Il giorno successivo presi in mano la cornetta e chiamai il professore. Dolore e febbre erano persistenti e andavano aumentando. âStefania, devi fare una biopsia, per capire cosa vi sia dietro allâingrossamento dei linfonodi. Domani vieni in Ospedaleâ.
Come ero arrivata a quel punto? Il palesarsi dei sintomi era arrivato di corsa ed era peggiorato sempre di piĂč. Il giorno dopo fui ricoverata in ospedale. Dovevo liberarmi dal dolore e passare dal letto di un ospedale era lâunico modo per farlo. In una calda mattina dâautunno entrai in un vortice che avrebbe stravolto la mia vita: non sapevo a cosa stessi andando incontro e, probabilmente, non volevo saperlo. La prioritĂ era cancellare il dolore, renderlo nullo e ritornare a vivere la mia quotidianitĂ . Ero cieca davanti alla sofferenza e non riuscivo a pensare a ciĂČ che avrei dovuto affrontare. Avevo 26 anni e volevo vivere la mia vita, non potevo permettere che una malattia mi incatenasse nel letto.
Il giorno successivo mi recai in ospedale; entrando dal solito ingresso per i dipendenti, perĂČ, rimasi subito spaesata. Non ero piĂč me stessa. Quel massiccio edificio grigio che si innalzava sopra la mia testa non era la stessa struttura, non stavo affrontando una tipica giornata lavorativa: ero una paziente, estenuata dal dolore e preoccupata da quello a cui stavo andando incontro. Il passo successivo sarebbe stato lâesame istologico. Un referto che sarebbe stato lontano poco piĂč di un passo dal togliermi tutto quello che avevo conquistato.
Fui ricoverata per cinque giorni e, per la prima volta, rimasi rinchiusa tra le mura fredde del reparto di Chirurgia dellâospedale di Monza. Scorreva tutto troppo velocemente. Non riuscivo a stare dietro allo svolgersi degli eventi. Fino a due settimane prima ero ancora me stessa. La mente andava per conto suo, ma dolore e febbre rimanevano sempre presenti, appollaiati ai piedi del letto dâospedale. Volevo che mi abbandonassero. Volevo ritornare la persona di sempre e occuparmi del mio lavoro a tempo pieno. Rabbia e dolore mi tappavano la bocca e non permettevano che lâossigeno fluisse giĂč per la gola, fino ai polmoni. Non avevo paura, ma sembrava essere la sensazione peggiore che avessi mai provato.
Lâarrivo dei miei parenti piĂč stretti fu il primo presagio del fatto che le cose non stessero andando per il meglio. Mio padre e mia zia presero la macchina e mi raggiunsero. Come in qualsiasi situazione, avere vicino le persone piĂč care incute un poco di timore. Ti senti protetta e, al contempo, non vorresti. La mente pensa e ripensa a quello che sta succedendo e le emozioni seguono a ruota. Era il mese di ottobre e stava iniziando lâautunno della mia vita.
La febbre non scendeva e nessuno poteva fare qualcosa per aiutarmi. Nei momenti in cui stavo meglio, mio padre diventava il complice di una giovane paziente che fuggiva verso lâuscita piĂč vicina per fumare una sigaretta. Mentre tutti erano distratti, mi attaccavo al filtro e sentivo il fumo scendere.
Il referto dellâesame istologico non impiegĂČ molto ad arrivare. Come di consueto, le brutte notizie non si fanno mai aspettare. Le novitĂ , quando sono negative, arrivano sempre celeri e pungenti.
Dopo cinque giorni di ricovero ero ritornata a casa. Anche se il cortisone rendeva il dolore sopportabile e portava la febbre sotto la linea dei 37 gradi, ero sempre in attesa di una risposta, una frase che avrebbe messo fine alla mia curiositĂ , se si poteva definire tale. Sapevo giĂ come stavano le cose, tutti i segnali si erano palesati davanti ai miei occhi. Il ricovero, la febbre, gli esami, le preoccupazioni sui visi altrui. Eppure, come un bambino che non vuole smettere di credere a una favola, aspettavo il referto e cercavo di immaginare una via di fuga dalle poche frasi che avrebbero segnato la mia vita di lĂŹ in avanti. Immaginavo un riscontro diverso, un lieto fine dopo quasi tre settimane di tribolazione.
Durante tutto quel tempo il Prof era sempre rimasto a vigilare su di me. Non potevo vederlo direttamente, ma sapevo che era lĂŹ accanto. Stava cercando di ottenere un referto che, nella norma, avrebbe impiegato un periodo infinito prima di arrivare. Grazie a qualche scorciatoia, lâesito della biopsia arrivĂČ prima del previsto, in un tempo da record.
Nel frattempo io ero ritornata a vivere una quotidianitĂ che non mi apparteneva. Passavo la giornata in casa e sedavo la febbre con tre pastiglie a cadenza regolare. Era appena iniziato lâautunno, ma riuscivo ancora a sentire gli ultimi spasmi del caldo estivo. Sebbene le giornate fossero sempre piĂč fresche, nelle giornate di sole mi ritrovavo sul balcone a cercare di assaporare le ultime vampate di aria estiva, quellâaria calda e piacevole che scivolava sul corpo e scaldava il viso.
La normalitĂ e la routine dovevano essere parte integrante del mio ricovero casalingo. Il desiderio di fare qualche passo fuori di casa mi spingeva a sopportare dolore e febbre. Tra le tante chiamate ricevute, anche quella di un amico che viveva a pochi passi da Milano. Una sera squillĂČ il telefono e mi attaccai alla cornetta con la stessa forza con cui accendevo le sigarette al riparo da occhi indiscreti nel breve periodo in cui ero rimasta ricoverata al San Gerardo di Monza.
âCiao Stefania, come stai? Vieni a bere una birra questa sera?â. La mia risposta fu un lungo e deciso âsĂŹ, volentieriâ che mi avrebbe sottratto per qualche ora al pensiero del referto istologico. Mio padre mi accompagnĂČ in centro a Monza. Daniele era lĂŹ ad aspettarmi. La preoccupazione mi aveva resa una sconosciuta ai suoi occhi. Dopo aver ordinato una birra al bancone del bar, ascoltai quello che aveva da dirmi. Le sue parole mi passavano da un capo allâaltro della testa, senza provocare interesse. Ero assorta nei miei pensieri e riuscivo a concentrarmi solo sullâesito della biopsia che era in cammino verso lâOspedale di Monza. Guardavo le bolle fluttuare nel bicchiere. Sembravano un richiamo alla mia situazione. Nascevano dal fondo concavo del boccale e, gentilmente, salivano fino a creare la schiuma. La loro vita durava giusto una frazione di secondo e poi andavano a disperdersi, come se non importasse di dove fossero e quale fosse la loro condizione. Vivevano di attimo in attimo e non sembravano preoccuparsene. Dopo aver terminato di fantasticare, ritornai ad ascoltare le parole di Daniele: casa, lavoro e amicizie. Viveva una routine alla quale pensavo con invidia. Anche nel momento dei saluti ero rimasta indifferente. âCiao Stefania, fammi sapere appena hai qualche novitĂ â. Dentro di me pensavo che certe frasi di rito dovessero essere abolite, parole da scrivere su un foglio per poi essere accartocciate e buttate nel primo cestino nelle vicinanze.
Non riuscivo a combattere lâapatia creata dalle aspettative. Forse ero solamente in cerca di una buona noti...