Introduzione alla metafisica
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Henri Bergson

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Introduzione alla metafisica

Henri Bergson

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«Vi è almeno una realtà che cogliamo completamente dal di dentro, per intuizione e non con la semplice analisi. Essa è la nostra stessa persona nel suo scorrere attraverso il tempo, il nostro Io che dura. Non possiamo simpatizzare intellettualmente con nessun altra cosa, ma simpatizziamo certamente con noi stessi».

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Información

Editorial
Orthotes
Año
2014
ISBN
9788897806509
Henri Bergson
Introduzione alla metafisica
Se si paragonano tra loro le definizioni di metafisica e le concezioni di assoluto, ci si accorge che i filosofi, a dispetto delle apparenti divergenze, concordano nel distinguere due modi profondamente differenti di conoscere una cosa. Il primo implica che si giri attorno alla cosa; il secondo che si entri in essa. La prima maniera dipende dal punto di vista in cui ci si colloca e dai simboli attraverso i quali ci si esprime. La seconda non assume nessun punto di vista e non si poggia su alcun simbolo. Della prima conoscenza si dirà che essa si ferma al relativo; della seconda, fin dove è possibile, che essa riguarda l’assoluto.
Per esempio, si consideri il movimento di un oggetto nello spazio: io lo percepisco diversamente a seconda del punto di vista, mobile o immobile, da cui lo osservo, e lo esprimo diversamente a seconda del sistema di assi o di punti di riferimenti ai quali lo rapporto, vale a dire a seconda dei simboli mediante i quali lo traduco. Ed è per queste due ragioni che lo chiamo relativo. In un caso come nell’altro mi colloco al di fuori dell’oggetto stesso. Quando parlo di movimento assoluto è perché attribuisco a ciò che è mobile qualcosa di interiore, come degli stati d’animo, cosicché simpatizzo con tali stati e mi inserisco in essi con uno sforzo dell’immaginazione. Allora a seconda che l’oggetto sarà mobile o immobile, se esso farà un movimento o un altro, non sperimenterò la stessa cosa. E quel che proverò non dipenderà né dal punto di vista che ho potuto adottare sull’oggetto, poiché mi troverò nell’oggetto stesso, né dai simboli con cui ho provato a tradurlo, poiché avrò rinunciato a ogni traduzione per prendere possesso dell’originale. In breve, il movimento non sarà più colto dal di fuori e, in qualche modo, dal punto in cui sono, ma dal di dentro, in esso, in sé. Possiederò un assoluto.
Consideriamo ancora un personaggio di un romanzo del quale mi vengono raccontante le avventure. Il romanziere potrà moltiplicare i tratti della sua personalità, far parlare e agire il suo eroe nel modo in cui gli piace: tutto ciò non equivarrà al sentimento semplice e indivisibile che proverei se, per un istante, coincidessi con lo stesso personaggio. Allora le azioni, i gesti e le parole, mi sembrerebbero fluire con naturalità, come dalla fonte, e non sarebbero delle accidentalità aggiunte all’idea che mi sono fatto del personaggio, arricchendo sempre più questa idea senza mai giungere a completarla. Il personaggio mi sarebbe offerto tutto d’un colpo nella sua integralità, e le mille sfaccettature che lo rappresentano, invece d’aggiungersi all’idea e arricchirla, mi sembrerebbero al contrario staccarsi da essa, senza tuttavia renderla sterile o impoverirne l’essenza. Tutto ciò che mi viene narrato della persona mi fornisce altrettanti punti di vista su di essa. Tutti i tratti che me la descrivono, e che me la fanno conoscere mediante comparazioni con personaggi o cose che già conosco, sono segni con i quali la si esprime più o meno simbolicamente. Simboli e punti di vista mi pongono dunque al di fuori di essa; essi mi rivelano quel che la persona ha in comune con le altre e non ciò che a essa appartiene in modo singolare. Ma ciò che essa propriamente è, quel che costituisce la sua essenza, non lo si saprebbe percepire dall’esterno, perché è per definizione interno, né esprimere con dei simboli, non essendo misurabile con altre cose. Descrizione, storia e analisi, restano qui nel relativo. E solo la coincidenza con la persona stessa mi darebbe l’assoluto.
È in questo senso, e solamente in questo senso, che l’assoluto è sinonimo di perfezione. Tutte le fotografie di una città, prese da tutti i punti di vista possibile, per quanto si completino indefinitamente le une con le altre, non equivarrebbero affatto al modello reale della città in cui si passeggia. Tutte le traduzioni d’un poema in tutte le lingue possibili, per quanto aggiungano dettagli su dettagli e, per una specie di reciproco ritocco, si correggano a vicenda offrendo un’immagine sempre più fedele del poema che traducono, non restituiranno mai il senso interno dell’originale. Una rappresentazione presa da un certo punto di vista, una traduzione fatta con certi simboli, restano sempre imperfette a paragone dell’oggetto che la rappresentazione acquisisce o che i simboli cercano di esprimere. Ma l’assoluto è perfetto proprio perché esso è perfettamente quel che è.
Senza dubbio è per la stessa ragione che spesso si sono identificati assoluto e infinito. Se volessi comunicare a qualcuno che non conosce il greco l’impressione semplice che mi lascia un verso di Omero, gli fornirei la traduzione del verso, poi commenterei la mia traduzione, poi svilupperei il commentario e, di spiegazione in spiegazione, mi avvicinerei sempre più a ciò che voglio esprimere, senza mai arrivarci. Quando sollevate il braccio compiete un movimento di cui avete, nell’interiorità, una percezione semplice. Ma esteriormente, per me che osservo, il vostro braccio passa per un punto, poi per un altro, e tra questi due punti ci sono ancora altri punti, in modo che, se comincio a contare, l’operazione proseguirà senza fine. Visto dal di dentro, un assoluto è quindi una cosa semplice. Ma esaminato dal di fuori, cioè relativamente a altre cose, esso diviene, in relazione ai segni che lo esprimono, la moneta d’oro di cui non si sarà mai finito di dare il resto. Ora, ciò che si presta nel medesimo tempo a un apprendimento indivisibile e a una enumerazione inesauribile è, per definizione, un infinito.
Ne consegue che un assoluto non può essere dato che per intuizione, mentre tutto il resto dipende dall’analisi. Si chiama intuizione questo spazio di simpatia intellettuale con la quale ci si trasporta all’interno di un oggetto in modo da coincidere con quel che esso ha di unico e, quindi, d’inesprimibile. Al contrario, l’analisi è l’operazione che riduce l’oggetto a elementi già conosciuti, cioè comuni a questo oggetto e ad altri oggetti. Analizzare consiste allora nell’esprimere una cosa in funzione di ciò che essa non è. Ogni analisi è così una traduzione, un’elaborazione in simboli, una rappresentazione prodotta da punti di vista successivi, dai quali si annotano i punti di contatto tra l’oggetto nuovo, che si studia, e gli altri oggetti, quelli che si pensa di conoscere già. Nel suo desiderio eternamente inappagato d’abbracciare l’oggetto attorno al quale è condannata a girare, l’analisi moltiplica senza fine i punti di vista per completare una rappresentazione sempre incompleta; essa cambia senza posa i simboli per completare una traduzione sempre imperfetta. E così va avanti all’infinito. Ma l’intuizione, se possibile, è un atto semplice.
Messa in questi termini si vedrà senza fatica che la scienza positiva ha come meccanismo abituale quello d’analizzare. Essa lavora prima di tutto sopra ai simboli. Anche le più concrete scienze della natura, le scienze della vita, si occupano della forma visibile degli esseri viventi, dei loro organi, dei loro elementi anatomici: paragonano tra loro le forme, riducono le più complesse a quelle più semplici, e cioè studiano il funzionamento della vita in ciò che ne è, per così dire, il simbolo visivo. Se esiste un modo per possedere una realtà assolutamente invece di conoscerla relativamente, per posizionarsi in essa invece d’adottare dei punti di vista su di essa, per averne l’intuizione invece che farne l’analisi e, infine, per afferrarla al di fuori di ogni espressione, traduzione o rappresentazione simbolica, la metafisica è proprio questo. Allora la metafisica è la scienza che pretende di fare a meno dei simboli.
Image
Vi è almeno una realtà che cogliamo completamente dal di dentro, per intuizione e non con la semplice analisi. Essa è la nostra stessa persona nel suo scorrere attraverso il tempo, il nostro Io che dura. Non possiamo simpatizzare intellettualmente con nessun altra cosa, ma simpatizziamo certamente con noi stessi.
Quando faccio scorrere sulla mia persona, supposta inattiva, lo sguardo interiore della mia coscienza, percepisco dapprima tutte le percezioni che gli arrivano dal mondo materiale, come fosse una crosta solidificata alla superficie. Queste percezioni sono nette, distinte, giustappose o sovrapponibili le une alle altre. Esse cercano di raggrupparsi in oggetti. In seguito percepisco dei ricordi più o meno aderenti a queste percezioni e che sevono a interpretarle. Tali ricordi si sono come staccati dal fondo della mia persona, attratti alla superficie da percezioni che a loro assomigliano. Si sono posati su di me senza in alcun modo identificarsi con me. E infine sento manifestarsi delle tendenze, delle abitudini motrici, una folla d’azioni virtuali più o meno solidamente legate alle percezioni e ai ricordi. Tutti questi elementi ben fissati alle forme mi sembrano tanto più distinti da me quanto sono più distinti tra loro. Orientati dall’interno verso l’esterno costituiscono, riuniti, la superficie di una sfera che tende ad allargarsi e a perdersi nel mondo esterno. Ma se mi muovo dalla periferia verso il centro, se cerco al fondo di me ciò che di me è più uniforme, più costante, più durevole, trovo tutt’altro.
Al di sotto di questi cristalli stagliati e di questo congelamento superficiale, c’è una continuità del fluire che non è comparabile a niente che abbia visto fluire. È una successione di stati dei quali ciascuno annuncia quello che segue e contiene quello che precede. A dire il vero, essi formano degli stati molteplici non appena li supero e mi rivolgo indietro per osservarne la traccia. Mentre li sperimentavo essi erano così solidamente organizzati, così profondamente animati d’una vita collettiva, che non avrei saputo dire dove uno qualsiasi di essi finisse e l’altro cominciasse. In realtà nessuno di essi comincia né finisce, ma tutti si prolungano gli uni dentro gli altri.
Si tratta, se si vuole, dello svolgimento di un rullo, poiché non c’è essere vivente che non senta giungere, a poco a poco, la fine del proprio ruolo. E vivere consiste nell’invecchiare. Ma si tratta anche di un avvolgimento continuo, come quello di un filo sul gomitolo, cosicché il nostro passato ci segue, si ingrandisce continuamente del presente che raccoglie sul suo cammino: coscienza significa memoria.
In verità non c’è né un avvolgimento né uno svolgimento poiché queste due immagini evocano la rappresentazione di linee o di superfici le cui parti sono omogenee tra loro e sovrapponibili a vicenda. Però non ci sono due momenti che siano identici per uno stesso essere cosciente. Prendete il sentimento più semplice, consideratelo costante, che assorba in sé la personalità tutta intera: la coscienza che accompagnerà tale sentimento non potrà restare identica a se stessa durante due momenti consecutivi poiché il momento successivo contiene sempre, in più del precedente, il ricordo che il primo ha lasciato. Una coscienza che avesse due momenti identici sarebbe una coscienza senza memoria. Essa perirebbe e rinascerebbe continuamente. Come rappresentarsi in altro modo l’incoscienza?
Si dovrà allora evocare l’immagine di uno spettro dalle mille sfumature, con digradazioni minime che fanno in modo che si passi da una sfumatura all’altra. Una corrente di sentimento che attraversi lo spettro tingendosi ogni volta di ognuna delle sue sfumature mostrerebbe i cambiamenti graduali, ciascuno dei quali annuncerebbe il seguente e ricapitolerebbe in sé quelli che lo precedono. Ma ancora le sfumature successive dello spettro resterebbero sempre estranee le une alle altre: si giustappongono, occupano lo spazio. Al contrario, ciò che è durata pura esclude ogni idea di giustapposizione, d’estraneità reciproca e d’estensione.
Immaginiamo invece un elastico infinitamente piccolo, contratto, se ciò fosse possibile, in un punto matematico. Tiriamolo progressivamente in modo da fare uscire dal punto una linea che andrà via via allungandosi. Fissiamo la nostra attenzione non sulla linea in quanto tale ma sull’azione che la traccia. Consideriamo che questa azione, a dispetto della sua durata, è indivisibile, se si suppone che venga compiuta senza interruzione, mentre, se si inserisce una pausa, si compiono due azioni in luogo di una: ciascuna di queste azioni sarà quindi l’indivisibile di cui parliamo, per cui non è mai l’azione mobile stessa ciò che è divisibile bensì la linea immobile che essa lascia al di sotto come una traccia nello spazio. Infine liberiamoci dello spazio che sottende il movimento onde tenere conto solo del movimento, dell’atto di tensione o estensione, e cioè della mobilità pura. Avremo questa volta un’immagine più fedele dello sviluppo del nostro Io nella durata.
Tuttavia quest’immagine sarà ancora incompleta, e ogni paragone sarà comunque insufficiente, perché lo svolgersi della nostra durata somiglia sotto certi aspetti all’unità di un movimento che progredisce, e sotto altri a una molteplicità di stati che si dispiegano, e nessuna metafora può rendere uno dei due aspetti senza sacrificare l’altro. Se immagino uno spettro dalle mille sfumature, ho davanti a me una cosa completa, mentre la durata si forma continuamente. Se penso a un elastico che si allunga, a una molla che si tende o si distende, dimentico la ricchezza che caratterizza la durata vissuta, non vedendo che il movimento semplice con il quale la coscienza p...

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