Il grande libro della psichedelia
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Il grande libro della psichedelia

Matteo Guarnaccia

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UNO STRAORDINARIO VIAGGIO DENTRO L'ULTIMA TURBOLENTA AVANGUARDIA DEL '900 CHE HA CAMBIATO LA PERCEZIONE E LA COMUNICAZIONE NELLA MUSICA, NELLA MODA, NEL CINEMA, NELLA PUBBLICITÀ, NEL DESIGN.Dagli anni Sessanta in avanti, l'utilizzo "mistico-creativo" delle sostanze psichedeliche, inizialmente prodotte per scopi terapeutici dall'industria farmaceutica, poi utilizzate in ambito militare, ha prodotto un inaspettato effetto domino nella cultura occidentale. Un impatto che è stato evidente non soltanto nella musica e nelle arti visive - complice la grande potenza comunicativa del rock - ma anche e più di quanto comunemente si pensi, in altri campi: cinema, moda, pubblicità, architettura, design e scienza.Questa opera segue la filosofia psichedelica, dai posati circoli intellettuali europei (Ernst Junger, Walter Benjamin, Aldous Huxley) alle controculture ribelli (beat, hippies) sino all'esplosione artistica (Jimi Hendrix, Jefferson Airplane, Beatles).Sfogliandone le pagine ci si può imbattere negli abiti di Emilio Pucci o nei film di Federico Fellini e Stanley Kubrick, nel design di Ettore Sottsass o nelle architetture di Archigram, nelle avventure di James Bond, negli store Fiorucci e Biba, nei fumetti e nelle riviste underground, nei complotti dei servizi segreti, nello sciamanesimo elettronico e in molto, molto altro.Seguendone le tracce si arriva a quella che è la sua più diretta eredità: la cultura digitale.

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Información

et la recette merveilleuse…, collage di Matteo Guarnaccia, 2015.
1965/1966
ARE YOU EXPERIENCED?
Britannia psichedelica e buone vibrazioni. Un’arancia, una prugna e una scatola di fiammiferi. Il dentista sporcaccione e due Beatles dopati. Biciclette bianche e scemi del villaggio. Un tributo al Dr. Strange. Le Mu-tazioni Unite. Bricolage spirituale e lunga mano della legge. Trappole ottiche e geometrie spaesanti. Fuoco nei ghetti, nella giungla pluviale e nella psiche. Non ci possono arrestare tutti!
IL FRIVOLO CAPITALISMO
Essere strani fa curriculum, tra minigonne e Union Jack in svendita sulle bancarelle, l’underground d’Albione prepara una comunione totale.
Nel 1965 il virus psichedelico, irrobustito e modificato dal proficuo soggiorno americano, riattraversa l’Atlantico e trova nel Regno Unito un habitat perfetto per diffondersi.
L’Inghilterra, dopo essere uscita a fatica dal dopoguerra, acciaccata e privata del suo impero, sta vivendo un momento magico di popolarità, impacchettata nell’esaltante mito della Swinging London (due insidiose parole, presto diventate cliché, inventate dalla rivista americana Time per illustrare un suo reportage sulla città). Nell’austero Paese delle immutabili tradizioni si sta imponendo una nuova classe sociale, facoltosa e influente, composta dai “favolosi” dispensatori di stile: fotografi, parrucchieri, attori, cantanti, discografici, decoratori di interni, pubblicitari, PR, grafici, gestori di discoteche, gigolò, modelle, sarti. L’ossessione tipicamente inglese per l’esclusività e l’immagine, rafforzata dal forte narcisismo che caratterizza le generazioni nate durante la guerra, si è trasformata in un frivolo capitalismo basato sull’assecondamento e l’esaltazione dei nuovi bisogni della promettente fascia giovanile di mercato, esentata dal servizio militare obbligatorio e dalle preoccupazioni di gravidanze indesiderate (va ricordato che l’Inghilterra è uno dei primi Paesi dove la pillola anticoncezionale è disponibile e legale). È un parco giochi che mette a disposizione di una popolazione disinvolta, una felice abbondanza di cose inutili. Si è immersi tra le minigonne di Mary Quant, le Lambrette accessoriate dei mod e gli alamari del revival vittoriano, le cacofonie cromatiche delle fibre sintetiche e la rivoluzione unisex di Carnaby Street e King’s Road, gli stand dei mercatini di Portobello dove il passato diventa pop, le fotogeniche ossa di Twiggy, l’onnipresente Union Jack ridicolizzata e ridotta a un pattern tessile, l’oggettistica kitsch, l’atmosfera elettrica, l’etere invaso dalle prime stazioni radio pirata, i drink nei club à la page (Flamingo, Beat City, Marquee), James Bond con i suoi gadget automobilistici high-tech.
È una vera e propria rivoluzione: per la prima volta, nella storia di un Paese tenacemente classista, ragazzi provenienti dalla classe operaia, grazie alle loro capacità espressive, si ritrovano a essere accolti e coccolati nei salotti della buona società. L’essere “strani” è diventato un valido strumento di promozione sociale. Un contesto perfettamente descritto da Michelangelo Antonioni nel film Blow-Up, con la marijuana distribuita alle comparse per rendere più vivace la scena del party, i piccioni ritoccati con spray grigio e l’erba dei prati di Maryon Park dipinta con la vernice verde per assumere un aspetto più naturale. Insomma, Londra è il posto dove ci sono le persone giuste, dove avvengono le cose più elettrizzanti del pianeta, dove è possibile assistere in diretta alla nascita di nuove mode.
Ops! Ma questa è un’insurrezione culturale! Non tutti i giovani rispondono alle lusinghe del mutamento fashion, edonista e disimpegnato: qualcuno pensa che la rivoluzione non sia solo una questione di stile e sta lavorando in semi-clandestinità per riorganizzare la propria percezione della realtà, formando una comunità alternativa con forti valori di solidarietà e indipendenza, e che guarda all’esempio dalla bohéme americana, come un modello plausibile. I protagonisti di questo gruppo si fanno notare per la sorprendente lunghezza dei capelli (una sfida all’immagine maschile dominante), sono indaffarati nella sperimentazione artistica, letteraria nonché sessuale e hanno già avuto modo di incrociare, lungo la loro strada per la liberazione, sostanze psichedeliche come mescalina, semi di convolvolo e, in misura minore, LSD. Con loro ci sono gli eredi degli Angry Young Men, ma anche alcune frange di ex mod che, a poco a poco, abbandonano la loro estetica minimalista e le amfetamine per buttarsi sullo stile space age o rianimare il dandysmo tra sciarpine, velluti colorati ed erba giamaicana. Troviamo anche i seguaci del Free Cinema, gli appassionati di jazz e i reduci delle marce antinucleari del CND, il mitico Committee For Nuclear Disarmament, capitanato dal grande vecchio Bertrand Russell, amato dai giovani. Poi i beatnik, globetrotter contaminati dall’esistenzialismo francese che dormono nei sacchi a pelo sulle spiagge della Cornovaglia, suonando musica folk e fumando marijuana, l’esaltante scena poetico musicale di Liverpool e gli sfrontati studenti delle Art School (una vera scuola quadri della controcultura) disponibili a ogni birbonaggine. La capitale britannica è anche una tappa importante dei viaggi inquieti e sans souci dei poeti americani della beat generation, accolti con curiosità da giovani sintonizzati sulla stessa onda, che hanno il loro quartier generale nella libreria Better Books, dove consumano avidamente il prodotto più ricercato del momento: le riviste di poesia di San Francisco e quelle dedicate al cinema di Parigi. Il vivace mix creativo si manifesta in tutta la sua ampiezza e complessità nel giugno del 1965 quando, alla Royal Albert Hall, va in scena l’evento fondante della scena hip londinese, uno sconclusionato, scandaloso ed energetico reading denominato Wholly Communion. Tra gli organizzatori ci sono specialisti della sovversione artistica come Alexander Trocchi (enfant terrible del situazionismo, eroinomane sovversivo, autore di Cain’s Book), il poeta, attore e film-maker neozelandese John Esam – noto in città per l’abitudine di girare con una boccetta di collirio piena di LSD – e Daniel Richter, un poeta e attore americano che diventerà “famoso” per l’interpretazione dello scimmione che spacca le ossa nel film 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick.
Anche il blues diventa psichedelico. Bare Wires di John Mayall, artwork di John Mayall, maggio 1968, GB.
Ma quanti elefanti rosa ha visto questa ragazza? How Pink Are Those Elephants Over There, compilation di artisti vari, 1969, NL.
Cofanetto A Gift From A Flower To A Garden, di Donovan, fotografie di Karl Ferris, 1968, GB.
Il successo dell’iniziativa (a cui partecipano oltre 7.000 “spettatori”) è la dimostrazione della disponibilità immediata a partecipare a un esperimento culturale, da parte di persone creative, provenienti da ambienti diversi. Un “collasso razionale della ragione”, un’occasione per contarsi, per uscire alla luce del sole. È la prima volta, dai tempi dell’antica Grecia, che dei poeti si trovano dinanzi un pubblico così vasto e partecipe: tutti sono esaltati e felici come se si trovassero a un concerto pop. Alla serata partecipa una folta rappresentanza della beat generation: ci sono Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso e William Burroughs (anche se non sale fisicamente sul palco) e naturalmente anche Allen Ginsberg – onnipresente ovunque ci siano da tessere amore e scompiglio – che, ubriaco e felice per aver appena conosciuto i Beatles (loro un po’ meno visto che si è presentato all’incontro completamente nudo) suona i cimbali, recita mantra e invita i presenti a unirsi carnalmente. La lista prosegue con il promotore Alex Trocchi strafatto; vari poeti russi e cubani; Simon Vinkenoog, uomo di lettere olandese e pioniere psichedelico, che vaga allucinato per la sala; i seguaci di Bart Huges, l’olandese folle, già cavia nel suo Paese di origine, appena radiato dall’albo della professione medica per essersi fatto promotore della trapanazione cranica come metodo per cambiare stato di coscienza e riacquistare il potere immaginifico dell’infanzia; una stranita personalità politica, Indira Gandhi, capitata lì per caso; il poeta Adrian Mitchell che infiamma l’auditorio ripetendo ipnoticamente la frase “ditemi delle bugie sul Vietnam”; Michael Horovitz, poeta e direttore della rivista letteraria New Departures; il futuro paroliere dei Cream, Pete Brown; lo psichiatra eretico R.D. Laing con un gruppo di suoi pazienti che brucia banconote; Jeff Nuttall e John Latham, nudi e dipinti di blu (uno dei due collassa perché soffocato dalla pittura). Tutti gli astanti danno segni di espansività molto poco britannica, hanno occhi stellati, visi dipinti, annusano e distribuiscono fiori, battendo sul tempo le usanze degli hippie di San Francisco. Si assiste a un importante mutamento di attitudine nei rapporti interpersonali: dall’aggressività e freddezza del galateo mod si passa a gentilezza ed empatia. Per i beat il reading all’Albert Hall è l’apoteosi, il segno che sono “arrivati”, per tutti gli altri è il punto zero, il via libera per nuove promettenti avventure.
“Prendo navi spaziali con parti diverse del mio corpo, ogni organo diventa una costellazione”
GEORGE ANDREWS
The Piper At The Gates Of Dawn dei Pink Floyd, copertina di Vic Singh, 1968, GB.
The 5000 Spirits, dell’Incredible String Band, design e artwork di Simon & Marijke (The Fool), 1967, GB.
Syd Barrett tra un’arancia, una prugna e una scatola di fiammiferi. Tutto viene filmato da Peter Whitehead, cineasta radicale, ammiratore di Godard: un brillante figlio della working class con un ottimo curriculum scolastico ottenuto a Cambridge, dove ha diviso la casa con un ragazzino molto intelligente e dotato, indeciso se intraprendere la carriera di pittore o quella di musicista. Il suo nome è Syd Barrett, a cui il trentenne Whitehead ha dato ottimi consigli per uscire dal mondo circoscritto del blues, grazie alla sua raffinata collezione di dischi che comprende il Modern Jazz Quartet, Wagner e Bartók. L’aiuto regista durante le riprese all’Albert Hall è John Esam, un altro personaggio che avrà a che fare con la “psichedelicizzazione” di Syd: è dal suo appartamento l...

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