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Paul Nizan

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Paul Nizan

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Avevo vent'anni....
L'incipit del libro è uno dei più famosi e citati: "Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita." E qualche riga dopo si legge: "È duro imparare la propria parte nel mondo".
Paul Nizan apre così il suo romanzo, dimostrando una grande onestà nei confronti dei suoi lettori: è un libro doloroso, un anti-romanzo di formazione, un'opera in cui la crescita del protagonista ha meno importanza della sofferenza propedeutica a quella crescita.
Il libro è del 1932, Nizan aveva 27 anni, combatte la sua guerra contro un sistema che non gli appartiene, in un mondo contro il quale scaglia tutta la sua rabbia, il suo malessere. Un libro filosofico, profondo, arrabbiato, un'invettiva dura contro il capitalismo, contro il falso intellettualismo e poi un viaggio per fuggire lontano, lontano dalla sua Parigi, per cercare qualcosa che avrebbe dovuto prima ricercare dentro di sé. Nizan sarà vittima di un mondo che con il suo sistema di guerra e di violenza lo porterà alla morte. L'autore: Paul Nizan nasce nel 1905 e dopo aver interrotto gli studi, a soli 21 anni, lascia la Francia e si trasferisce ad Aden, precettore presso una famiglia inglese. Tornato a Parigi insegna filosofia in un liceo e si sposa. Ben presto abbandona l'insegnamento e ed entra nel settore editoriale. Nel 1932 escono i primi testi. Sempre inquieto, abbandona il partito comunista. Parte in Guerra e nel 1940, durante le ritirata di Dunkerke, muore in seguito alle ferite riportate nella battaglia di opposizione alle truppe tedesche.

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Información

Año
2018
ISBN
9788833260402

1.

Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita.
Ogni cosa rappresenta una minaccia per il giovane: l’amore, le idee, la perdita della famiglia, l’ingresso tra i grandi. È duro imparare la propria parte nel mondo.
Ma a cosa assomigliava il nostro mondo? Sembrava il caos che i greci collocano all’origine dell’universo fra le nebbie della creazione, con la sola differenza che noi credevamo di scorgervi il principio della fine, di una vera fine, e non di quella che prelude al principio di un principio. Davanti alle sue estenuanti metamorfosi, delle quali un numero minimo di testimoni si sforzava di trovare la chiave, si poteva soltanto osservare che la confusione portava alla morte naturale di quanto esisteva. Tutto assomigliava a quel disordine che conclude le malattie; già prima della morte, che s’incarica di rendere invisibili tutti i corpi, l’unità della carne si fraziona, e ogni parte di questa moltiplicazione tira per il suo verso: la cosa finisce con la putrefazione che non ammette speranza di risorgere.
Pochissimi uomini si sentivano allora abbastanza chiaroveggenti per individuare le forze già al lavoro dietro i grandi rottami putrescenti; ma noi nulla sapevamo di quanto sarebbe stato necessario sapere e la cultura era troppo complessa per permetterci di capire altro che le rughe superficiali: essa si esauriva nelle sottigliezze di un mondo ordinato di ragioni e quasi tutti i suoi professionisti erano incapaci di leggere con attenzione gli stessi testi che commentavano. L’errore è sempre meno semplice della verità.
C’era bisogno di un “abc” di ciò che realmente importava, ma, in luogo di insegnare a leggere, quelli a cui un sincero tormento impediva talvolta di dormire, escogitavano delle conclusioni che si basavano tutte sullo studio delle decadenze comparate: l’invasione dei barbari, il trionfo delle macchine, le visioni di Patmos, il ricorso a Ginevra e a Dio. Come erano intelligenti tutti quanti!
Ma questi furboni tenevano gli occhi troppo in basso per poter vedere, al di sopra dei propri occhiali, più in là dei naufragi. E i giovani avevano fiducia in loro.
Le condanne erano inappellabili, le affermazioni perentorie: “Voi state per morire”. Quelli della mia età, a cui s’impediva di riprender fiato, oppressi come vittime a cui si tenesse la testa sott’acqua, si chiedevano se in qualche luogo rimanesse un po’ d’aria; tuttavia dovevano ingegnarsi a raggiungere le proprie specie di annegati.
Siccome io ero classificato tra gli intellettuali, non avevo incontrato mai altri che tecnici senza mezzi: ingegneri, avvocati, eruditi e professori: non riesco nemmeno più a ricordarmi quelle miserie.
I casi scolastici e qualche saggio consiglio mi avevano portato verso l’École Normale e verso quell’esercitazione ufficiale che ancora va sotto il nome di filosofia: l’una e l’altra mi suscitarono ben presto tutto lo schifo di cui ero capace. Se poi mi si domandasse perché mai ci rimanessi, dovrei rispondere che era per pigrizia, per ignoranza di un mestiere, e perché lo Stato mi dava da mangiare e da dormire, mi prestava i libri gratis e mi accordava cento franchi al mese.
L’École Normale è un’istituzione che le altre nazioni invidiano alla nostra Repubblica; essa è una delle tante teste della Francia, che è provvista di capi come un’idra. Vi viene addestrata parte di quella orgogliosa milizia di maghi chiamata, da coloro che pagano per formarla, l’Élite, e che ha la missione di mantenere il popolo sulla retta via della compiacenza e del rispetto, virtù che rappresentano il Bene; vi regna lo spirito di corpo dei seminari e dei reggimenti, per cui si arriva facilmente a far credere ai giovani che la loro debolezza privata inclina all’orgoglio collettivo, che l’École Normale è un’entità reale, fornita d’anima e un’anima bella e di una personalità morale più amabile della verità, della giustizia e degli uomini. In quel luogo abitato da entità trasparenti, come il Giardino della Rosa, Ipocrisia è regina. I più dei normalisti s’investono di quei criteri che affermano la loro partecipazione all’Élite: élite cristiana (molti di loro amano la messa), élite universitaria (se ne vedono alcuni che preparano, come se si trattasse di un lungo viaggio, le tappe di una bella carriera e a vent’anni progettano matrimoni con le figlie di celebri professori, mentre il Bulletin de l’École Normale pubblica orgogliose e ridicole genealogie), élite politica (parecchi nuotano nelle sporche acque delle sezioni socialiste e delle leghe radicali con la destrezza di vecchi pesci). Ma sempre élites dello Spirito. Questi pensieri ambiziosi limitano la maggior parte delle meditazioni sul valore degli uomini.
Là, a degli adolescenti già stanchi di anni di liceo, corrotti dagli studi umanistici, dalla morale e dalla cucina borghese delle proprie famiglie, viene propinato l’esempio di predecessori illustri: Pasteur, Taine, Lemaitre, Giraudoux, François-Poncet, e vengono promesse a tempo debito, e cioè quando saranno rimbecilliti, anche a loro la Croce e l’Accademia alla fine dei loro giorni; ma nessuno racconta a quei ragazzi la vita di Evariste Galois.
Nel 1924 c’era ancora un uomo: Luden Herr. Quando si vedeva quel gigante, curvo sopra una montagna di libri, con quei suoi occhi senza nebbie sotto una fronte gobba, simile a un severo frangente di pensieri, quando si udiva la sua voce, che non mentiva mai, enunciare giudizi che non volevano che questo giusto fine, dare a ciascuno quel che gli spetta, si sapeva che non era pericoloso vivere in quella sudicia dimora. Ma morì: e non rimase che l’École Normale, oggetto risibile e più spesso odioso, presieduta da un vecchietto patriottardo, ipocrita, autoritario e militarista.
Per anni ho udito in rue d’Ulm e nelle aule della Sorbona uomini importanti parlare in nome dello Spirito.
Si trattava di quei filosofi che insegnano saggezza nelle riviste, che scrivono opere di consultazione, e di bei ragionamenti, che entrano nelle associazioni filosofiche e convocano congressi per decidere sui progressi che lo Spirito ha fatto in un anno e su quelli che gli restano da fare, che portano nastrini sui risvolti come vecchi gendarmi giubilati e inaugurano lapidi di marmo su case natali e su “case mortuarie” ai crocicchi in Olanda (tali commemorazioni fanno conoscere loro altri paesi), che vivono quasi tutti nei quartieri occidentali di Parigi: Passy, Auteuil, Boulogne: quartieri tranquilli, con poco rumore, poca gente, dove le ragazze non regolarizzano la propria situazione con un anno di ritardo. Sono i Saggi del XVIo arrondissement.
Eppure presentano idee ben ammaestrate, teorie i cui denti si sono limati sulla psicologia, sulla morale e sul progresso; astrazioni che mostravano già la corda ai tempi di Jules Simon o di Victor Cousin ma che servono ancora bene. Sono delle brave persone, dicono che la verità si acchiappa a volo come un uccellino ingenuo; lanciano messaggi sulla pace e sulla guerra, sull’avvenir e della democrazia, sulla giustizia e sulla creazione di Dio, sulla relatività, sulla serenità, e sulla vita dello Spirito. Compongono dei vocabolari perché hanno scoperto tutti insieme un postulato importante: i problemi cesseranno di esistere quando i termini ne saranno opportunamente definiti; allora cadranno in polvere: mai visti né conosciuti, e il porli equivarrà a risolverli. I filosofi saranno soltanto i cani da guardia del vocabolario e gli storici di quei Medioevo in cui le parole avevano più di un significato. In attesa, essi insegnano a mettere da parte i pensieri pericolosi per il giorno in cui i loro veleni saranno evaporati: la ragione ha tutto il tempo e li ritroverà alla sua ora, ora che non coincide con quella degli uomini.
Così esercitano la filosofia, e questa esige, tutto sommato, un sufficiente decoro e una certa diligenza perché sia cosa onorevole il consacrarvi una vita sottratta alla contabilità e alla compagnia di Gesù.
E quale forbito linguaggio! Sciorinano tanti giri di parole e massime e figure retoriche, che non so se, con l’aiuto di silenzi, nutriti dai segreti chiarimenti del sonno, di conversazioni con passanti che si attardano sulle piazze o nelle caserme, spacci, officine, non so se saprò mai più ritrovare il senso giusto delle parole e delle semplici invenzioni degli uomini.
Tra di essi un gran pensatore: Léon Brunschwicg, uno che meglio degli altri sapeva nascondere il suo gioco e aveva più di un asso nella manica. Una precisione da orologiaio nei pensieri e una notevole disposizione nell’arte dell’illusionista facevano anzitutto pensare a un filosofo: ma alla fine non si trovava altro che un Robert Houdin facilmente misurabile e di cui si potevano computare le menzogne. Questo misero rivenditore di sofismi aveva il fisico di un vecchio maitre d’hotel, autorizzato a mettere su, col tempo, pancia e barba. La scaltrezza gli guizzava dall’angolo dell’occhio, guidava, nello spazio grigio, le brevi mosse delle mani leziose da mercante ebreo; lanciando, fra strizzatine di occhi, motti di spirito come decreti della ragione, insinuava in ogni discorso: lasciate fare a me, tutto si accomoderà, io aggiusto ogni cosa nelle anime e nelle scienze... e salutava il pubblico. E che nascosto appetito di incarichi, di sicurezza e di onori! Che sincero terrore della verità che minaccia, di quella che, per intendersi, avrebbe potuto attentare al portafoglio di quest’uomo ricco! E i discepoli, schierati attorno a lui, si tenevano pronti a risollevare dal suo cadavere la bandiera mercenaria dell’idealismo critico.
Eppure c’erano uomini che lavoravano in catene, poliziotti che marciavano per le vie, uomini che morivano in Cina di morte violenta, mentre nell’Alto Volta i lavori forzati uccidevano i neri come un’epidemia.
Così facevano quel che potevano per nasconderci l’esistenza reale dei nostri fratelli affinché fossimo veramente agguerriti per il lavoro da curati ai quali ci destinavano. La borghesia ingrassa i suoi intellettuali nelle gabbie perché non siano tentati di amare il mondo. Così noi vivevamo alla piccola velocità del sonno (nessuno ignora che sono le grandi velocità a costare care) e ci muovevamo come ci avevano addestrati a muoverci, occupati nei giochetti di costruzioni che tutti quei funzionari ci avevano insegnato. C’era gente un po’ dappertutto: nelle campagne e nelle periferie; ma noi, noi guardavamo ai nostri maestri e ai nostri genitori per fare come loro, tristemente accovacciati in un angolo, ma che ogni tanto si rialzavano per far ridere i padroni o per dar loro un insieme di illusioni, di argomenti o di giustificazioni. Giullari e complici: ecco le arti dello Spirito! Di tanto in tanto ci pregavano di essere pazienti:  il mondo sarebbe stato presto salvato.
 

2.

Immaginatevi ora noi a vent’anni, mollati in un mondo inflessibile, muniti di poche arti ornamentali, quali il greco, la logica, e un vocabolario annacquato che neppure ci dà l’illusione di vedere chiaro, sperduti nella galleria delle macchine dei nostri padri, dove ogni angolo mal illuminato dissimula scontri cruenti, guerre coloniali, terrore bianco nei Balcani e assassini americani applauditi dalle mani di tutti i francesi; la spaventosa ipocrisia degli uomini al potere non riesce a velarci la presenza di sciagure che noi non comprendiamo: sappiamo soltanto che queste sciagure esistono e che in qualche luogo succedono. E non veniteci a dire che è per il nostro bene nascondercele; non accontentatevi di accusare il destino, di fare in eterno il gesto di Pilato.
In fondo ai propri risvegli ognuno scopre tutti gli sconvolgimenti dell’epoca, ridotti non so quante volte alla modesta scala di un’inquietudine privata. In noi vi sono divisioni, alienazioni, conflitti e concordati. Possono ben dirci che questa è l’età delle coscienze inquiete: la cosa non c’impedisce di temere per la nostra pelle, di soffrire delle mutilazioni che ci aspettano; dopo tutto non ignoriamo come vivono i nostri genitori: goffamente infelici come gatti che hanno la febbre o capre che soffrono il mal di mare. Dove stava il nostro malanno? In che parte della nostra vita? Quello che sapevamo eccolo qui: gli uomini non vivono come dovrebbe vivere un uomo. Ma ancora ignoriamo gli elementi che compongono la vita vera; i nostri pensieri sono tutti negativi. Il famoso Alain ci dice che: “Pensare è dire di no”, ma solo lo spirito del male nega eternamente. Verrà il momento in cui lo spirito non manifesterà più le proprie adesioni: allora l’uomo arrossirà di essersi per tanto tempo limitato alla difensiva.
Noi già in anticipo non siamo soddisfatti dei mestieri ai quali veniamo addestrati in vista di un magro salario. Abbiamo paura di quel che ci capiterà. Bella, la giovinezza! Come chiedere aiuto a degli uomini? Dove sono nascosti? Tutto ci tiene lontano da loro: doveri, famiglia, patria, rispetto, denaro. Troppi nemici per le nostre forze. Oggi io so che, pieni di buone intenzioni, prendevamo sul serio dei fantasmi, dei riflessi mille volte contorti: ma, per saperlo, ce ne ho messo del tempo!
Ecco qua: stiamo per entrare in una prigione di cui non arriviamo a immaginare il regime in tutti i suoi particolari, Quale giovane, pensando a una prigione, indovina quello che accade in ogni cella? Non certo a vent’anni è possibile mettere la mano sulle cose particolari, sui singoli eventi; ma noi già ne indoviniamo abbastanza per sentirci soffocare. Non siamo malati d’illusioni; ci incombono minacciose menomazioni e costrizioni effettive che noi non sappiamo individuare. Invano volete farci credere ai candidi conflitti della libertà e del determinismo, della predestinazione e della grazia, della maturità e della pubertà; se non si tratta che di queste parole, noi non siamo più stupidi di voi; sapremmo anche noi fare delle tesi o predicare dalle cattedre: ma il fatto è che dietro le vostre asserzioni si nascondono delle strazianti realtà.
Ma noi siamo deboli, in noi c’è impotenza; fin dalla facile infanzia ci vanno addestrando a una docile schiavitù; nessuna possibilità perciò di scovare dentro di noi le sorgenti della speranza: non siamo dei rabdomanti. Nessuna possibilità di capire che soffriamo della inazione dei nostri bisogni umani: i maestri sembrano incrollabili, macchine decise a laminare qualunque esistenza che sia troppo ben saldata per poter essere infranta. Ma se non ci metteremo a fare qualcosa, l’inerzia durerà tutta la vita. Che cosa ci succederà, meglio, che cosa non ci succederà? È duro essere l’ago di una bussola impazzita per un uragano o un’aurora boreale, roteante verso tutti i punti cardinali, in un’ombra trafitta da suoni, fuochi, grida, in cui la pazzia fa la vezzosa mostrando il suo bel viso agli angoli delle strade.
La nostra infanzia ha il suo peso: le morbide piume della vita di provincia, le prime comunioni, i glicini dell’estate 1914 non ci hanno certo preparato all’avvento della guerra. La morte di cugini e fratelli, il diploma concesso per l’assenza dei padri, gli oggetti micidiali dei fratelli maggiori hanno fornito alimenti misteriosi al disordine, a quel disordine di cui godette la nostra infanzia, miracolosamente sottratta ai pacifici conflitti dell’ordine: a noi la guerra ha permesso di vivere senz’altra costrizione che quella di toglierci il cappello davanti ai morti e alle bandiere. Durante le incursioni notturne tra le fiammate delle bombe, gli ululati delle sirene e dei cani, nelle cantine, tra gli incendi, i figlioli si divertivano lasciando in tutta tranquillità i genitori.
Facendo assegnamento sulla miseria dei tempi per foggiare cuori eroici e alimentare la virtù, professori e madri poco si sono preoccupati di insegnarci i valori morali che dilagarono abbondantemente tra il ‘14 e il ‘18, pensando che essi stessi, da soli, avrebbero impregnato di sé l’aria civica e guerriera che si respirava fin nelle più remote prefetture del mezzogiorno. Grazie a un errore così grossolano, noi, giunti all’età virile, ignoriamo molti drammi; ma troppo tardi i grandi si mettono a cacciarci in testa le Leggi, come se si trattasse duna pubblicità per la sifilide: come crederci, se le vediamo simili a catene atroci per un uomo, a catene che feriscono le nostre vite? Essere un uomo ci pare l’unica faccenda legittima: ma che disperazione scoprire che tanti bei doveri, ai quali avrebbero dovuto farci credere dieci anni fa, non lasciano in piedi niente dell’amore della vita! Amare quella vita che essi ci ammanniscono? Mettete insieme qualche famiglia provinciale, dei programmi, degli esami, alcune ragazzine tirate su bene, qualche faccia plebea di ufficiale istruttore, delle puttane appoggiate col gomito a davanzali di falso marmo, e viali bui, lezioni a trenta franchi l’ora e la tavola kantiana dei giudizi, ed eccoci uomini. Ecco di che saziare la nostra giovinezza!
Nella falsa luce di fiera nazionale, all’indomani della guerra, si svolgono le giornate dei poveri fessi: sono cominciate subito al mattino dell’armistizio, l’unica festa per le strade che io abbia mai visto. Fu un gran sospiro di sollievo, già trattenuto da anni in fondo ai polmoni, e fu esplosione del desiderio sessuale, e voglia di bevute e il diritto naturale di accendere tutte le luci che si volesse e di insultare gli antichi nemici; e fu anche quello il giorno in cui io finalmente baciai a boulevard Montmartre, davanti la macelleria all’ingrosso del Matin, la prima bocca della mia vita. Da allora i combattenti, svuotati di tutta la loro guerra, ne tengono in vita la fiamma con la stessa fedeltà con cui si conserva sempre acceso quel cretino di un gas sotto l’Arco di Trionfo: scoppiando dall’orgoglio insolente di essere stati costretti al sacrificio, utilizzano in faccia a noi i morti nazionali. In quei cadaveri gloriosi tutto è buono per una sinistra salumeria che spacci pubblicamente tutte le parti dei morti; essi vivono secondo l’ordine militare che sognano di mantenere in una nazione indisciplinata, cinta da nemici inventati da loro giorno per giorno: i cuori di tutti sono impregnati per opera loro di una sporca puzza di combattimento, di bivacco e di permesso di sparare. Dietro questo sballamento di ideale patriottico, che seduce pochi adolescenti di buona famiglia, si organizzano l’industria francese e la guerriglia civile contro gli operai che non mangiano morti. Pensiamo ancora, debolmente, alle verità serie, ma quelli là rappresentano ormai per noi i rumorosi difensori della legge, i profeti dei nostri doveri. Pure niente di queste storie ci riguarda: noi andiamo cercando qualcosa di reale da mettere sotto i denti, ma essi ci strapperebbero il pane di bocca! Fame e debolezza corrompono le nostre parole e le nostre prime azioni: i libri che ci danno sembrano scritti nei viali di un cimitero. I partiti ci fanno apertamente delle proposte: i messaggi che lanciamo ci ricascano sul naso. Facciamo qualc...

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