1.
Avevo ventâanni. Non permetterĂČ a nessuno di dire che questa Ăš la piĂč bella etĂ della vita.
Ogni cosa rappresenta una minaccia per il giovane: lâamore, le idee, la perdita della famiglia, lâingresso tra i grandi. Ă duro imparare la propria parte nel mondo.
Ma a cosa assomigliava il nostro mondo? Sembrava il caos che i greci collocano allâorigine dellâuniverso fra le nebbie della creazione, con la sola differenza che noi credevamo di scorgervi il principio della fine, di una vera fine, e non di quella che prelude al principio di un principio. Davanti alle sue estenuanti metamorfosi, delle quali un numero minimo di testimoni si sforzava di trovare la chiave, si poteva soltanto osservare che la confusione portava alla morte naturale di quanto esisteva. Tutto assomigliava a quel disordine che conclude le malattie; giĂ prima della morte, che sâincarica di rendere invisibili tutti i corpi, lâunitĂ della carne si fraziona, e ogni parte di questa moltiplicazione tira per il suo verso: la cosa finisce con la putrefazione che non ammette speranza di risorgere.
Pochissimi uomini si sentivano allora abbastanza chiaroveggenti per individuare le forze giĂ al lavoro dietro i grandi rottami putrescenti; ma noi nulla sapevamo di quanto sarebbe stato necessario sapere e la cultura era troppo complessa per permetterci di capire altro che le rughe superficiali: essa si esauriva nelle sottigliezze di un mondo ordinato di ragioni e quasi tutti i suoi professionisti erano incapaci di leggere con attenzione gli stessi testi che commentavano. Lâerrore Ăš sempre meno semplice della veritĂ .
Câera bisogno di un âabcâ di ciĂČ che realmente importava, ma, in luogo di insegnare a leggere, quelli a cui un sincero tormento impediva talvolta di dormire, escogitavano delle conclusioni che si basavano tutte sullo studio delle decadenze comparate: lâinvasione dei barbari, il trionfo delle macchine, le visioni di Patmos, il ricorso a Ginevra e a Dio. Come erano intelligenti tutti quanti!
Ma questi furboni tenevano gli occhi troppo in basso per poter vedere, al di sopra dei propri occhiali, piĂč in lĂ dei naufragi. E i giovani avevano fiducia in loro.
Le condanne erano inappellabili, le affermazioni perentorie: âVoi state per morireâ. Quelli della mia etĂ , a cui sâimpediva di riprender fiato, oppressi come vittime a cui si tenesse la testa sottâacqua, si chiedevano se in qualche luogo rimanesse un poâ dâaria; tuttavia dovevano ingegnarsi a raggiungere le proprie specie di annegati.
Siccome io ero classificato tra gli intellettuali, non avevo incontrato mai altri che tecnici senza mezzi: ingegneri, avvocati, eruditi e professori: non riesco nemmeno piĂč a ricordarmi quelle miserie.
I casi scolastici e qualche saggio consiglio mi avevano portato verso lâĂcole Normale e verso quellâesercitazione ufficiale che ancora va sotto il nome di filosofia: lâuna e lâaltra mi suscitarono ben presto tutto lo schifo di cui ero capace. Se poi mi si domandasse perchĂ© mai ci rimanessi, dovrei rispondere che era per pigrizia, per ignoranza di un mestiere, e perchĂ© lo Stato mi dava da mangiare e da dormire, mi prestava i libri gratis e mi accordava cento franchi al mese.
LâĂcole Normale Ăš unâistituzione che le altre nazioni invidiano alla nostra Repubblica; essa Ăš una delle tante teste della Francia, che Ăš provvista di capi come unâidra. Vi viene addestrata parte di quella orgogliosa milizia di maghi chiamata, da coloro che pagano per formarla, lâĂlite, e che ha la missione di mantenere il popolo sulla retta via della compiacenza e del rispetto, virtĂč che rappresentano il Bene; vi regna lo spirito di corpo dei seminari e dei reggimenti, per cui si arriva facilmente a far credere ai giovani che la loro debolezza privata inclina allâorgoglio collettivo, che lâĂcole Normale Ăš unâentitĂ reale, fornita dâanima e unâanima bella e di una personalitĂ morale piĂč amabile della veritĂ , della giustizia e degli uomini. In quel luogo abitato da entitĂ trasparenti, come il Giardino della Rosa, Ipocrisia Ăš regina. I piĂč dei normalisti sâinvestono di quei criteri che affermano la loro partecipazione allâĂlite: Ă©lite cristiana (molti di loro amano la messa), Ă©lite universitaria (se ne vedono alcuni che preparano, come se si trattasse di un lungo viaggio, le tappe di una bella carriera e a ventâanni progettano matrimoni con le figlie di celebri professori, mentre il Bulletin de lâĂcole Normale pubblica orgogliose e ridicole genealogie), Ă©lite politica (parecchi nuotano nelle sporche acque delle sezioni socialiste e delle leghe radicali con la destrezza di vecchi pesci). Ma sempre Ă©lites dello Spirito. Questi pensieri ambiziosi limitano la maggior parte delle meditazioni sul valore degli uomini.
LĂ , a degli adolescenti giĂ stanchi di anni di liceo, corrotti dagli studi umanistici, dalla morale e dalla cucina borghese delle proprie famiglie, viene propinato lâesempio di predecessori illustri: Pasteur, Taine, Lemaitre, Giraudoux, François-Poncet, e vengono promesse a tempo debito, e cioĂš quando saranno rimbecilliti, anche a loro la Croce e lâAccademia alla fine dei loro giorni; ma nessuno racconta a quei ragazzi la vita di Evariste Galois.
Nel 1924 câera ancora un uomo: Luden Herr. Quando si vedeva quel gigante, curvo sopra una montagna di libri, con quei suoi occhi senza nebbie sotto una fronte gobba, simile a un severo frangente di pensieri, quando si udiva la sua voce, che non mentiva mai, enunciare giudizi che non volevano che questo giusto fine, dare a ciascuno quel che gli spetta, si sapeva che non era pericoloso vivere in quella sudicia dimora. Ma morĂŹ: e non rimase che lâĂcole Normale, oggetto risibile e piĂč spesso odioso, presieduta da un vecchietto patriottardo, ipocrita, autoritario e militarista.
Per anni ho udito in rue dâUlm e nelle aule della Sorbona uomini importanti parlare in nome dello Spirito.
Si trattava di quei filosofi che insegnano saggezza nelle riviste, che scrivono opere di consultazione, e di bei ragionamenti, che entrano nelle associazioni filosofiche e convocano congressi per decidere sui progressi che lo Spirito ha fatto in un anno e su quelli che gli restano da fare, che portano nastrini sui risvolti come vecchi gendarmi giubilati e inaugurano lapidi di marmo su case natali e su âcase mortuarieâ ai crocicchi in Olanda (tali commemorazioni fanno conoscere loro altri paesi), che vivono quasi tutti nei quartieri occidentali di Parigi: Passy, Auteuil, Boulogne: quartieri tranquilli, con poco rumore, poca gente, dove le ragazze non regolarizzano la propria situazione con un anno di ritardo. Sono i Saggi del XVIo arrondissement.
Eppure presentano idee ben ammaestrate, teorie i cui denti si sono limati sulla psicologia, sulla morale e sul progresso; astrazioni che mostravano giĂ la corda ai tempi di Jules Simon o di Victor Cousin ma che servono ancora bene. Sono delle brave persone, dicono che la veritĂ si acchiappa a volo come un uccellino ingenuo; lanciano messaggi sulla pace e sulla guerra, sullâavvenir e della democrazia, sulla giustizia e sulla creazione di Dio, sulla relativitĂ , sulla serenitĂ , e sulla vita dello Spirito. Compongono dei vocabolari perchĂ© hanno scoperto tutti insieme un postulato importante: i problemi cesseranno di esistere quando i termini ne saranno opportunamente definiti; allora cadranno in polvere: mai visti nĂ© conosciuti, e il porli equivarrĂ a risolverli. I filosofi saranno soltanto i cani da guardia del vocabolario e gli storici di quei Medioevo in cui le parole avevano piĂč di un significato. In attesa, essi insegnano a mettere da parte i pensieri pericolosi per il giorno in cui i loro veleni saranno evaporati: la ragione ha tutto il tempo e li ritroverĂ alla sua ora, ora che non coincide con quella degli uomini.
CosĂŹ esercitano la filosofia, e questa esige, tutto sommato, un sufficiente decoro e una certa diligenza perchĂ© sia cosa onorevole il consacrarvi una vita sottratta alla contabilitĂ e alla compagnia di GesĂč.
E quale forbito linguaggio! Sciorinano tanti giri di parole e massime e figure retoriche, che non so se, con lâaiuto di silenzi, nutriti dai segreti chiarimenti del sonno, di conversazioni con passanti che si attardano sulle piazze o nelle caserme, spacci, officine, non so se saprĂČ mai piĂč ritrovare il senso giusto delle parole e delle semplici invenzioni degli uomini.
Tra di essi un gran pensatore: LĂ©on Brunschwicg, uno che meglio degli altri sapeva nascondere il suo gioco e aveva piĂč di un asso nella manica. Una precisione da orologiaio nei pensieri e una notevole disposizione nellâarte dellâillusionista facevano anzitutto pensare a un filosofo: ma alla fine non si trovava altro che un Robert Houdin facilmente misurabile e di cui si potevano computare le menzogne. Questo misero rivenditore di sofismi aveva il fisico di un vecchio maitre dâhotel, autorizzato a mettere su, col tempo, pancia e barba. La scaltrezza gli guizzava dallâangolo dellâocchio, guidava, nello spazio grigio, le brevi mosse delle mani leziose da mercante ebreo; lanciando, fra strizzatine di occhi, motti di spirito come decreti della ragione, insinuava in ogni discorso: lasciate fare a me, tutto si accomoderĂ , io aggiusto ogni cosa nelle anime e nelle scienze... e salutava il pubblico. E che nascosto appetito di incarichi, di sicurezza e di onori! Che sincero terrore della veritĂ che minaccia, di quella che, per intendersi, avrebbe potuto attentare al portafoglio di questâuomo ricco! E i discepoli, schierati attorno a lui, si tenevano pronti a risollevare dal suo cadavere la bandiera mercenaria dellâidealismo critico.
Eppure câerano uomini che lavoravano in catene, poliziotti che marciavano per le vie, uomini che morivano in Cina di morte violenta, mentre nellâAlto Volta i lavori forzati uccidevano i neri come unâepidemia.
CosĂŹ facevano quel che potevano per nasconderci lâesistenza reale dei nostri fratelli affinchĂ© fossimo veramente agguerriti per il lavoro da curati ai quali ci destinavano. La borghesia ingrassa i suoi intellettuali nelle gabbie perchĂ© non siano tentati di amare il mondo. CosĂŹ noi vivevamo alla piccola velocitĂ del sonno (nessuno ignora che sono le grandi velocitĂ a costare care) e ci muovevamo come ci avevano addestrati a muoverci, occupati nei giochetti di costruzioni che tutti quei funzionari ci avevano insegnato. Câera gente un poâ dappertutto: nelle campagne e nelle periferie; ma noi, noi guardavamo ai nostri maestri e ai nostri genitori per fare come loro, tristemente accovacciati in un angolo, ma che ogni tanto si rialzavano per far ridere i padroni o per dar loro un insieme di illusioni, di argomenti o di giustificazioni. Giullari e complici: ecco le arti dello Spirito! Di tanto in tanto ci pregavano di essere pazienti: il mondo sarebbe stato presto salvato.
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2.
Immaginatevi ora noi a ventâanni, mollati in un mondo inflessibile, muniti di poche arti ornamentali, quali il greco, la logica, e un vocabolario annacquato che neppure ci dĂ lâillusione di vedere chiaro, sperduti nella galleria delle macchine dei nostri padri, dove ogni angolo mal illuminato dissimula scontri cruenti, guerre coloniali, terrore bianco nei Balcani e assassini americani applauditi dalle mani di tutti i francesi; la spaventosa ipocrisia degli uomini al potere non riesce a velarci la presenza di sciagure che noi non comprendiamo: sappiamo soltanto che queste sciagure esistono e che in qualche luogo succedono. E non veniteci a dire che Ăš per il nostro bene nascondercele; non accontentatevi di accusare il destino, di fare in eterno il gesto di Pilato.
In fondo ai propri risvegli ognuno scopre tutti gli sconvolgimenti dellâepoca, ridotti non so quante volte alla modesta scala di unâinquietudine privata. In noi vi sono divisioni, alienazioni, conflitti e concordati. Possono ben dirci che questa Ăš lâetĂ delle coscienze inquiete: la cosa non câimpedisce di temere per la nostra pelle, di soffrire delle mutilazioni che ci aspettano; dopo tutto non ignoriamo come vivono i nostri genitori: goffamente infelici come gatti che hanno la febbre o capre che soffrono il mal di mare. Dove stava il nostro malanno? In che parte della nostra vita? Quello che sapevamo eccolo qui: gli uomini non vivono come dovrebbe vivere un uomo. Ma ancora ignoriamo gli elementi che compongono la vita vera; i nostri pensieri sono tutti negativi. Il famoso Alain ci dice che: âPensare Ăš dire di noâ, ma solo lo spirito del male nega eternamente. VerrĂ il momento in cui lo spirito non manifesterĂ piĂč le proprie adesioni: allora lâuomo arrossirĂ di essersi per tanto tempo limitato alla difensiva.
Noi giĂ in anticipo non siamo soddisfatti dei mestieri ai quali veniamo addestrati in vista di un magro salario. Abbiamo paura di quel che ci capiterĂ . Bella, la giovinezza! Come chiedere aiuto a degli uomini? Dove sono nascosti? Tutto ci tiene lontano da loro: doveri, famiglia, patria, rispetto, denaro. Troppi nemici per le nostre forze. Oggi io so che, pieni di buone intenzioni, prendevamo sul serio dei fantasmi, dei riflessi mille volte contorti: ma, per saperlo, ce ne ho messo del tempo!
Ecco qua: stiamo per entrare in una prigione di cui non arriviamo a immaginare il regime in tutti i suoi particolari, Quale giovane, pensando a una prigione, indovina quello che accade in ogni cella? Non certo a ventâanni Ăš possibile mettere la mano sulle cose particolari, sui singoli eventi; ma noi giĂ ne indoviniamo abbastanza per sentirci soffocare. Non siamo malati dâillusioni; ci incombono minacciose menomazioni e costrizioni effettive che noi non sappiamo individuare. Invano volete farci credere ai candidi conflitti della libertĂ e del determinismo, della predestinazione e della grazia, della maturitĂ e della pubertĂ ; se non si tratta che di queste parole, noi non siamo piĂč stupidi di voi; sapremmo anche noi fare delle tesi o predicare dalle cattedre: ma il fatto Ăš che dietro le vostre asserzioni si nascondono delle strazianti realtĂ .
Ma noi siamo deboli, in noi câĂš impotenza; fin dalla facile infanzia ci vanno addestrando a una docile schiavitĂč; nessuna possibilitĂ perciĂČ di scovare dentro di noi le sorgenti della speranza: non siamo dei rabdomanti. Nessuna possibilitĂ di capire che soffriamo della inazione dei nostri bisogni umani: i maestri sembrano incrollabili, macchine decise a laminare qualunque esistenza che sia troppo ben saldata per poter essere infranta. Ma se non ci metteremo a fare qualcosa, lâinerzia durerĂ tutta la vita. Che cosa ci succederĂ , meglio, che cosa non ci succederĂ ? Ă duro essere lâago di una bussola impazzita per un uragano o unâaurora boreale, roteante verso tutti i punti cardinali, in unâombra trafitta da suoni, fuochi, grida, in cui la pazzia fa la vezzosa mostrando il suo bel viso agli angoli delle strade.
La nostra infanzia ha il suo peso: le morbide piume della vita di provincia, le prime comunioni, i glicini dellâestate 1914 non ci hanno certo preparato allâavvento della guerra. La morte di cugini e fratelli, il diploma concesso per lâassenza dei padri, gli oggetti micidiali dei fratelli maggiori hanno fornito alimenti misteriosi al disordine, a quel disordine di cui godette la nostra infanzia, miracolosamente sottratta ai pacifici conflitti dellâordine: a noi la guerra ha permesso di vivere senzâaltra costrizione che quella di toglierci il cappello davanti ai morti e alle bandiere. Durante le incursioni notturne tra le fiammate delle bombe, gli ululati delle sirene e dei cani, nelle cantine, tra gli incendi, i figlioli si divertivano lasciando in tutta tranquillitĂ i genitori.
Facendo assegnamento sulla miseria dei tempi per foggiare cuori eroici e alimentare la virtĂč, professori e madri poco si sono preoccupati di insegnarci i valori morali che dilagarono abbondantemente tra il â14 e il â18, pensando che essi stessi, da soli, avrebbero impregnato di sĂ© lâaria civica e guerriera che si respirava fin nelle piĂč remote prefetture del mezzogiorno. Grazie a un errore cosĂŹ grossolano, noi, giunti allâetĂ virile, ignoriamo molti drammi; ma troppo tardi i grandi si mettono a cacciarci in testa le Leggi, come se si trattasse duna pubblicitĂ per la sifilide: come crederci, se le vediamo simili a catene atroci per un uomo, a catene che feriscono le nostre vite? Essere un uomo ci pare lâunica faccenda legittima: ma che disperazione scoprire che tanti bei doveri, ai quali avrebbero dovuto farci credere dieci anni fa, non lasciano in piedi niente dellâamore della vita! Amare quella vita che essi ci ammanniscono? Mettete insieme qualche famiglia provinciale, dei programmi, degli esami, alcune ragazzine tirate su bene, qualche faccia plebea di ufficiale istruttore, delle puttane appoggiate col gomito a davanzali di falso marmo, e viali bui, lezioni a trenta franchi lâora e la tavola kantiana dei giudizi, ed eccoci uomini. Ecco di che saziare la nostra giovinezza!
Nella falsa luce di fiera nazionale, allâindomani della guerra, si svolgono le giornate dei poveri fessi: sono cominciate subito al mattino dellâarmistizio, lâunica festa per le strade che io abbia mai visto. Fu un gran sospiro di sollievo, giĂ trattenuto da anni in fondo ai polmoni, e fu esplosione del desiderio sessuale, e voglia di bevute e il diritto naturale di accendere tutte le luci che si volesse e di insultare gli antichi nemici; e fu anche quello il giorno in cui io finalmente baciai a boulevard Montmartre, davanti la macelleria allâingrosso del Matin, la prima bocca della mia vita. Da allora i combattenti, svuotati di tutta la loro guerra, ne tengono in vita la fiamma con la stessa fedeltĂ con cui si conserva sempre acceso quel cretino di un gas sotto lâArco di Trionfo: scoppiando dallâorgoglio insolente di essere stati costretti al sacrificio, utilizzano in faccia a noi i morti nazionali. In quei cadaveri gloriosi tutto Ăš buono per una sinistra salumeria che spacci pubblicamente tutte le parti dei morti; essi vivono secondo lâordine militare che sognano di mantenere in una nazione indisciplinata, cinta da nemici inventati da loro giorno per giorno: i cuori di tutti sono impregnati per opera loro di una sporca puzza di combattimento, di bivacco e di permesso di sparare. Dietro questo sballamento di ideale patriottico, che seduce pochi adolescenti di buona famiglia, si organizzano lâindustria francese e la guerriglia civile contro gli operai che non mangiano morti. Pensiamo ancora, debolmente, alle veritĂ serie, ma quelli lĂ rappresentano ormai per noi i rumorosi difensori della legge, i profeti dei nostri doveri. Pure niente di queste storie ci riguarda: noi andiamo cercando qualcosa di reale da mettere sotto i denti, ma essi ci strapperebbero il pane di bocca! Fame e debolezza corrompono le nostre parole e le nostre prime azioni: i libri che ci danno sembrano scritti nei viali di un cimitero. I partiti ci fanno apertamente delle proposte: i messaggi che lanciamo ci ricascano sul naso. Facciamo qualc...