Io credo
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Ortensio Spinetoli

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Io credo

Ortensio Spinetoli

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Il "credo", come tutti sanno, è un compendio di verità su Dio, Gesù Cristo, la Chiesa, l'uomo, il mondo, il presente e il futuro ("risurrezione"), che il "fedele", convinto o no, è tenuto ad accettare, pena l'esclusione dall'alveo comunitario e la perdita della felicità eterna.È paradossale che mentre nella società esistono istituzioni pubbliche (la scuola) e private (la famiglia) che si impegnano nella crescita delle persone verso l'autonomia e la responsabilità, nell'ambito ecclesiale non sembra essere consentito essere cristiani da uomini, da adulti. Si può essere esperti nella propria professione ma si deve rimanere analfabeti in campo religioso. E se si vuole continuare a restare nell'istituzione, guai a dissentire pubblicamente dalle dottrine correnti.Il presente libro […] vuol essere un tentativo di aiutare il credente a liberarsi dalle oppressioni interiori che una fede male intesa può generare nel suo animo, ma può essere uno stimolo anche a chi, in nome di una ipotetica "autorità", lo tiene legato a dottrine non più adeguate e controproducenti (minacce di condanne senza fine, vendette dell'ira divina, lo spauracchio satanico sempre alle costole e via di seguito).L'obiettivo di questo libro non è quello di distruggere la fede ma di purificarla. Esso aiuta a liberarsi da apprensioni superflue, da imposizioni dottrinarie etiche o ascetiche abusive, tratte infondatamente dai libri sacri. Se non è libera da interferenze ideologiche o teologiche, la fede non aiuta l'uomo, è meglio affrancarsene che rimanerne succubi.

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Información

Año
2012
ISBN
9788861532847
Categoría
Religion

1. Equivoci metodologici

L’apologetica cattolica ha percorso sempre facili sentieri e continua a percorrerli; anche il nuovo, meglio ultimo Catechismo è sulla medesima linea. Anch’esso, pur meno categoricamente, si propone di consegnare al lettore “vere certezze” (n. 31).

Il mistero si può “conoscere”

Il testo catechistico, come tutti i vecchi manuali di teologia, comincia con un capitolo introduttivo che riprende e ripropone quelli che una volta si chiamavano i preambula fidei. Si tratta di trovare o di stabilire un ponte che dal mondo dell’uomo approdi a quello di Dio. Senza questa premessa, qualsiasi discorso religioso o teologico diventa impossibile, quindi improponibile.
Dio non è un personaggio che si incontra tutti i giorni, né dietro le “siepi”, né in cima ai “monti”. Non è un protagonista della nostra storia, anche se, per il credente, ne ispira gli operatori.
Ciononostante il Catechismo è apodittico: “L’uomo è ‘capace’ di Dio”. È la prima anche se sibillina affermazione (cap. I). Pur senza sapere chi egli è (e non lo saprà forse mai) l’essere ragionevole può giungere sino a lui “partendo dal movimento e dal divenire, dalla contingenza, dall’ordine e dalla bellezza del mondo” (n. 32). Anche quando esamina se stesso, “la sua apertura alla verità e alla bellezza”, “il suo senso del bene morale”, “la sua libertà e la voce della coscienza”, “la sua aspirazione all’infinito e alla felicità”, l’uomo può giungere alle stesse conclusioni (n. 33).
Sono le “vie” classiche della conoscenza razionale di Dio (cfr. Summa Theologica I 2,3), messe in discussione o accantonate dalle nuove, recenti correnti teologiche, ma che ciononostante il testo cerca di rimettere in auge.
Il tema viene ribadito in più modi: “Dio, principio e fine di tutte le cose può essere conosciuto con certezza con il lume della ragione umana” (n. 36); “con le sole sue forze e la sua luce naturale”; “con la sola luce della ragione” (n. 37). Ritornano poi le espressioni attinte dalla Sapienza (13,1-9), ripetute da Paolo nella Lettera ai Romani (1, 21-25) e citate dal Vaticano I: e rebus creatis, per ea quae facta sunt, “dalle cose create”, “in virtù delle cose (da lui) fatte” (DS 3004) (nn. 32, 36).
Il Vaticano I era più esplicito: stabiliva un rapporto tra la realtà creata e Dio “come da effetto a causa” (tamquam causam per effectus), in grado di portare ad una dimostrazione logica dell’esistenza divina (ideoque demonstrari etiam posse) (DS 3538).
Il Catechismo evita queste due espressioni, ciononostante afferma la stessa cosa quando asserisce che su tali basi “si può pervenire ad una conoscenza vera e certa” (n. 37) o che Dio “può essere conosciuto con certezza” (nn. 36, 47). Non si tratta di “prove” sullo stesso piano “delle scienze naturali”, ma sempre di “argomenti convergenti e convincenti che permettono di raggiungere vere certezze” (n. 31). Dovrebbe perciò ritenersi inescusabile chi non vi arriva, ma non è detto, è affermato caso mai in sordina.

Un discorso accademico

La storia del cammino dell’uomo sulla terra non sembra dare ragione alle affermazioni del Catechismo. Gli estensori perciò precisano che quanto essi dicono ha valore solo in linea di principio, meno o affatto sul piano pratico. Infatti “nelle condizioni storiche in cui l’uomo si trova”, “a causa delle tendenze malsane nate dal peccato originale” (n. 37), le sue attitudini si sono indebolite, addirittura confuse (cfr. n. 38). Oltre a ciò “l’ignoranza o l’indifferenza religiosa, le preoccupazioni del mondo e delle ricchezze, il cattivo esempio, le correnti di pensiero ostili alla religione” (n. 29) creano gravi difficoltà, spesso insormontabili, alla conoscenza dell’Essere ultimo, priva d’errori e accessibile a tutti (cfr. n. 38).
La conoscenza naturale di Dio, pur affermata e riaffermata solennemente, è alla fine solo teorica; di fatto occorre un aiuto straordinario dello stesso Creatore (“rivelazione”) per arrivarvi (n. 38). Ma le basi di un tale ragionamento non sembrano garantite.
Il Catechismo suppone uno stato di natura pura che è difficile dimostrare e che probabilmente non è mai esistito. L’ipotesi parte da un’interpretazione storicistica del testo biblico (Gn 1-2) che non è più comune tra gli studiosi. La supposizione che l’uomo attuale sia in una situazione di disagio morale, addirittura di colpa congenita che lo tiene lontano da Dio e dalla verità, è del tutto gratuita. Il mito dell’età dell’oro e dell’Eden biblico sono eziologie, ossia proiezioni retrospettive che nascono dall’aspirazione fondamentale dell’uomo alla felicità, all’equilibrio, alla pace.
La storia dimostra che l’uomo è nato nella caverna e ne sta uscendo fuori lentamente con le sue capacità e forze fino a costruirsi il suo mondo e a stabilirvi la sua felice esistenza. L’Eden deve ancora venire, non è storia passata, si può dire anticipando quanto verrà spiegato a proposito dei nn. 355-421.
L’uomo nel suo stato naturale è sensibile, intelligente, volitivo, ma anche ottuso, egoista, perverso; l’equilibrio delle sue facoltà non è un dono di natura, ma una sua faticosa conquista. Il trionfo del bene sul male, sull’istintività, è al termine dell’evoluzione fisica e spirituale a cui è chiamato e a cui va incontro.
L’essere ragionevole che si guarda attorno vede gli orrori e le meraviglie del creato, l’irrazionalità coesistere con la perfezione. Le “cinque vie” di san Tommaso sono un’astrazione filosofica, non una fotografia del reale che ognuno può scattare a piacimento.
La maggior parte degli interpreti della storia umana e cosmica propende per una soluzione dualistica del problema dell’essere. Essi pongono all’origine del tutto un principio per ciò che di buono si registra e un altro per quanto di malvagio vi accade, perché sembra assurdo che l’ordine e il disordine possano provenire da un’unica sorgente. Il male fisico e morale, la ferocia, la crudeltà tra gli esseri inferiori, al pari della delinquenza tra gli uomini, creano gravi addebiti all’esistenza di un principio buono posto all’origine di ogni cosa. La ragione non riesce a conciliare gli estremi della situazione cosmico-antropologica.
Se l’uomo si lascia guidare dalla sola ragione finisce nell’ateismo o nel nichilismo. La ragione spiega poco o nulla delle contraddizioni che la grande storia presenta. I cataclismi naturali o causati da perturbatori di turno, le stragi, le oppressioni e soprattutto la sofferenza che non esenta né colpevoli né innocenti non trovano adeguate risposte, soprattutto non si vede come si possano conciliare con l’esistenza di un essere veramente preoccupato della felicità dell’uomo.
Il Catechismo, citando un testo dell’Humani Generis di Pio XII, fa appello alla “legge di natura” che fa sentire la sua voce nelle profondità della coscienza e che in ultima analisi è il riflesso di una volontà superiore (n. 37), ma sono sempre suggestioni. Per il “cannibale” la legge di natura è divorare il proprio simile, come per l’uomo “civilizzato” è “naturale” defraudarlo. Ciò che risponde alle leggi di natura e ciò che è contrario è, il più delle volte, frutto dell’educazione, della cultura, della consuetudine più che di un autentico incontro con la realtà ultima.

La fragilità del linguaggio

Il Catechismo dà segno di essere al corrente dei risultati della moderna filosofia del linguaggio, ma lascia l’impressione di non tenerne in eccessivo conto (nn. 39-43). Le capacità conoscitive dell’uomo sembrano essersi al momento attuale ridotte. Già il mondo fisico o fenomenico è di difficile osservazione e comprensione perché si è microsezionato all’infinitesimo.
Si può descrivere qualche oggetto che passa davanti agli occhi ma la sua “intelligenza” (l’intus legere, il “leggere dentro”) non è accessibile perché i riflessi esterni non ne lasciano trapelare la natura intima, la sua “sostanza”, “essenza” come dicevano i filosofi medievali.
L’adaequatio intellectus ad rem, la “conformità dell’intelligenza alla cosa”, cioè la comunicazione della mente umana con le profondità stesse dell’essere, è diventata un sogno.
In una concezione statica del reale in cui le cose come sono al momento attuale sono sempre state e sempre saranno, si poteva cullare l’illusione di un incontro “definitivo” con la realtà; ma in una concezione evolutiva dell’essere, in cui se non nel corso di una generazione, nel corso del tempo le cose si modificano, si trasformano, la conoscenza, già di per sé superficiale, è solo relativa, vale cioè per un certo periodo e non oltre. Il provvisorio ha preso il posto dell’assoluto; l’area dell’opinabile si va estendendo a discapito di quella del dogmatico.
Il linguaggio appare sempre più un mezzo convenzionale di comunicazione. Si danno nomi, significati soprattutto o solo per poter parlare, per intendersi, per non ritrovarsi in un’eventuale Babele, nell’umana convivenza.
La comunicazione con le ipotetiche realtà spirituali, con gli esseri che non fanno parte del mondo visibile, in altre parole con Dio, non ha nemmeno le categorie idonee per essere affrontata. Il linguaggio religioso è oltremodo precario, soggettivo più di quello comune perché la realtà che cerca di cogliere o definire non è oggetto di una diretta conoscenza. Non è tra le “cose” che l’uomo può almeno vedere, toccare, anche se non riesce a comprendere. Il discorso su Dio è sempre ipotetico: tutto quello che si dice o si può dire è pura immaginazione.
Non c’è alcuna possibilità di verifica. Si può accettare o non accettare, non però in base a una consequenzialità logica, ma solo a un’adesione fiduciosa.
La portata del linguaggio umano, in particolare di quello teologico, è illustrata da molteplici pubblicazioni; non occorre che venga ricordata più a lungo in queste righe.
Il Catechismo sembra ridimensionare le sue affermazioni quando precisa che “le prove dell’esistenza di Dio possono disporre alla fede ed aiutare a constatare che questa non si oppone alla ragione umana” (n. 35). Era il punto da cui si poteva o doveva cominciare. Oppure dall’analoga osservazione presente nel n. 42: “Le parole umane rimangono sempre al di qua del Mistero di Dio”.
Se ciò è vero, che peso hanno ancora le asserzioni dell’intero capitolo primo?

2. “Un Dio che parla”

L’essere ragionevole con le sue capacità naturali può arrivare a conoscere Dio, ma di fatto per varie ragioni non vi arriva (cap. I). Tutte le esperienze religiose che ha compiuto e compie s’arrestano a metà strada. È la premessa, anche se indimostrata, per passare alla manifestazione spontanea e “libera” (“rivelazione”) di Dio all’uomo (cap. II).

Il circolo chiuso

Le carenze conoscitive dell’uomo sono cancellate gratuitamente da Dio che “viene incontro” alla sua creatura prediletta “svelando il suo Mistero”, “il suo disegno di benevolenza” (n. 50).
Quindi in concreto per andare sicuri al termine bisogna passare non più o non solo attraverso la ragione, ma attraverso la “rivelazione”, in pratica l’esperienza religiosa ebraico-cristiana o cristiano-cattolica semplicemente. E non attraverso le testimonianze storico-religiose dei rispettivi popoli, ma attraverso i “libri sacri” che i profeti, i legislatori, i sapienti israeliti o i predicatori cristiani hanno lasciato. In concreto Dio si manifesta attraverso il libro per eccellenza, la Bibbia, chiamata per questo la sua “Parola” (nn. 101-130). E poiché la parola scritta è “lettera”, se non morta senz’altro muta, occorre chi la sappia leggere e interpretare nel giusto senso. A questo scopo c’è, anche se non si sa bene da chi sia stato costituito, un gruppo di maestri autorizzati a deciderlo.
Tutto quello che di Dio si può conoscere o da Dio può essere stato detto, tutto il complesso di informazioni sul cosmo, sull’uomo, sull’esistenza presente e futura, sui comportamenti da assumere per piacere a lui, tutto è scritto nella Bibbia, contenuto nella tradizione della Chiesa ed è conosciuto con sicurezza irrefragabile dai dottori d’ufficio che sono anche i giudici inappellabili di quanto è contenuto nel “deposito” della verità o della fede (1Tm 6,20; 2Tm 1,12-14) (nn. 74-100). Un passaggio obbligato: per Iddio che tuttavia può trovare sempre qualche scappatoia, ma soprattutto per l’uomo che non ha altri percorsi se vuole confrontarsi con lui.
La rivelazione è una e unica. Non ci sono state e non ci saranno altre “vie” per questo incontro privilegiato con Dio al di fuori di quella ebraico-cristiana (nn. 65-73). Per ritornare a Dio attraverso la sua “manifestazione” bisogna passare attraverso le proposte, le spiegazioni, gli insegnamenti dei maestri di turno poiché l’accesso alla “Parola” è precluso al privato, al semplice credente. La trafila è chiara: per parlare con Dio, conoscere soprattutto il suo volere, non bisogna ricorrere a Gesù Cristo o ai profeti ma occorre passare attraverso la “gerarchia cattolica”, l’unica con cui egli attualmente tratta. L’extra ecclesiam nulla salus ha anche questo significato.
I tre articoli del cap. II del Catechismo girano attorno a questo “cerchio”; lo esaminano, lo spiegano e quindi lo chiudono ermeticamente: o si è dentro o si è fuori. In pratica lo stesso testo catechistico è un anello, l’ultimo, della catena. Esso raccoglie sinteticamente e più ancora manualmente tutta la manifestazione di Dio ad extra, quello che egli ha voluto far sapere di sé, del suo progetto, della sua realizzazione, della sua conclusione nel tempo e nell’eternità.
Il fedele, come anche il pastore d’anime, non deve perdersi dietro tante ricerche, frequentare archivi e biblioteche; tutto è a portata di mano: il meglio che i suoi “maestri” passati e presenti possono offrirgli.
Nonostante oggi non riscuotano tutto l’interesse dovuto, tuttavia ancora “sopravvivono” i testi del Vaticano II, ma non sono così facili, chiari, comodi, anzi a volte sono “tendenziosi”, possono confondere più che illuminare. Il Catechismo porta luce anche su di essi, come su tutte le scuole teologiche presenti nel mondo cattolico.
La Chiesa è una, nel vivere, nel celebrare, ma soprattutto nel pensare e nel parlare. Il Catechismo le ridona quella compattezza che la “democrazia”, che andava serpeggiando nelle chiese nazionali e nelle comunità locali, sembrava compromettere. Il decreto pontificio che “presenta e promulga” il testo (Fidei depositum) vuol togliere ogni dubbio sulla portata non soltanto pastorale ma dottrinale, per non dire dogmatica, dell’epitome.
Il Catechismo è un ritorno alla tradizione. L’indice analitico rivela tutto il suo legame col passato, con i simboli della fede, i concili ecumenici, i concili e i sinodi, i documenti pontifici, i documenti ecclesiastici, il diritto canonico, la liturgia, gli scrittori ecclesiastici. E nessun nome che non sia in perfetta regola con l’ortodossia. Tutte persone e documenti rispettabili, ma non sono forse i più indicati se si mira a una traduzione della proposta cristiana agli uomini del 2000. Possono essere utili sul piano storico per comprendere l’esperienza cristiana del passato, ma non sul piano pastorale per impostare nel modo migliore quella del futuro.

Una tesi da dimostrare

L’ipotesi della manifestazione di Dio all’uomo (“rivelazione”) è meno evidente della conoscenza naturale di Dio da parte dell’uomo, ma non può essere in partenza dichiarata inammissibile. La pretesa che Dio si sia fatto conoscere solo a determinati protagonisti, alla luce delle nuove correnti teologiche che circolano al di fuori e all’interno delle chiese cristiane, si va rivelando sempre più insicura.
I profeti s’incontrano nella storia di tutti i popoli e hanno tutti pari diritto di ascolto. Se per i cristiani il profeta è Gesù di Nazaret, ciò non può impedire che nel corso dei secoli, nell’immensa latitudine e longitudine del globo, non siano sorti e non sorgano altri portaparola dell’Altissimo per i popoli e gli uomini che vivono loro accanto.
Iddio è sempre al di sopra dei settarismi dei suoi reali o sedicenti fiduciari. Perché è Dio e non un uomo, egli dona tutto a tutti e a nessuno nega i suoi favori. I cr...

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