Il Casco non basta
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I dati aggiornati dell'INAIL fotografano una situazione indegna per un Paese avanzato come il nostro: quasi 4 morti al giorno sul lavoro. Una situazione inaccettabile che dimostra come, in Italia, la salute e la sicurezza dei lavoratori sono state sacrificate sull'altare della logica del profitto.

Il casco non basta radiografa questo inammissibile stato di cose, purtroppo aggravatosi in questi tristi tempi di pandemia. E prova a dare delle soluzioni, a lanciare un grido di allarme, a proporre un cambio di prospettiva alla luce delle normative vigenti che devono, per forza di cose, essere attuate.

Un prezioso lavoro di studio, dentro un perimetro giuridico e normativo non privo di impulsi intellettuali e culturali.

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Información

Año
2021
ISBN
9788832104516

Antropologia dell’homo dignus

di Stefano Rodotà(1)

Voglio anzitutto chiarire il significato che attribuisco al termine “antropologia” nella dimensione giuridica qui considerata. Non mi riferisco tanto all’antropologia giuridica come “conoscenza del diritto(2)” quanto piuttosto al fatto che il diritto costruisce figure sociali, dunque una vera e propria antropologia.
Il diritto ha sempre contribuito alla creazione di antropologie e, quando lo ha fatto, ha conferito loro persistenze che andavano al di là della vicenda di origine. Ogni grande operazione giuridica, prima ancora che questo ruolo fosse reso del tutto manifesto dalle carte costituzionali, ha disegnato un suo modello di persona, che non era mai la semplice registrazione di una natura “umana”, ma un gioco sapiente di pieni e di vuoti, di selezione di ciò che poteva trovare accoglienza nello spazio del diritto e quel che doveva restarne fuori, di ciò che poteva entrare in quello spazio con i suoi connotati “naturali” e quello che esigeva una metamorfosi resa possibile proprio dall’artificio giuridico.
Riflettendo in generale sul ruolo del diritto, si è sottolineato che «faire de chacun de nous un ‘homo juridicus’ c’est la manière occidentale de lier les dimensions biologique et symbolique costitutives de l’etre humain(3)».
Consideriamo, per cominciare, il titolo di uno dei grandi documenti fondativi della modernità: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Questa Dichiarazione dà la massima evidenza alla controversia tra chi ha sostenuto, e sostiene, che i diritti del cittadino altro non siano che i diritti naturali formalmente riconosciuti e chi, invece, in essi vede «una trasmutazione di una umanità indistinta in una cittadinanza situata(4)» Locke o Rousseau, semplificando. Ma andiamo oltre, continuando a semplificare. Davanti a noi sono due figure, l’uomo e il cittadino: per la prima può parlarsi di una “qualità”; per l’altra, di uno “statuto”. Ora, quale che sia la portata che si vuole attribuire a questi due termini, è indubbio che siamo di fonte ad una “civilizzazione” o secolarizzazione o laicizzazione di diritti ritenuti naturali grazie all’intervento di quello strumento squisitamente artificiale che è appunto il diritto.
Non è una novità. Pensiamo, ad esempio, alla Magna Charta e al suo habeas corpus, all’antica promessa che, nel 1215, il re fa ad ogni “uomo libero”: «non metteremo né faremo mettere la mano su di lui, se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese». Siamo di fronte all’abbandono di una prerogativa regia, all’autolimitazione di un potere che, proprio per i caratteri dell’impegno assunto, nella fase precedente era stato con tutta evidenza esercitato in maniera sostanzialmente arbitraria, peraltro in conformità con la sua natura. Quell’atto, se così si può dire, laicizza il potere del re. Quel che ne risulta, infatti, non riposa più sulla sovranità/sacralità, ma si cala nel mondo, si presenta come l’esito di una negoziazione complessa, manifesta l’avvio di un intrecciarsi di fattori che, in tempi assai successivi, porterà a quella “autolimitazione” dello Stato sovrano come atto di fondazione dei diritti pubblici subiettivi.
Lungo, dunque, è il percorso che ci conduce alla Dichiarazione del 1989 e al suo estrarre dalla naturalità dell’uomo una figura sommamente artificiale qual è il cittadino, affidando alla legge, e solo alla legge, la definizione del suo perimetro. Per ciò è legittimo parlare di una nuova antropologia.
Avviciniamoci ai tempi nostri, e leggiamo quel che scriveva, nel 1954, Luigi Mengoni. «Il modello antropologico dell’individualismo proprietario è stato corretto dal diritto del lavoro, che comincia a svilupparsi verso la metà del XIX secolo, o verso la sua fine, nei paesi, come l’Italia, a ritardata crescita capitalistica. In quanto presuppone l’uomo che lavora, e non semplicemente un proprietario di forza-lavoro che la offre sul mercato, il diritto del lavoro instaura l’antropologia definitiva del diritto moderno, fissata nell’articolo 1 della Costituzione del 1947, che proclama essere il nostro ordinamento “fondato sul lavoro”(5)».Viene così descritto l’esito di un processo storico, irriducibile alla forzatura ideologica di cui quell’articolo sarebbe testimone, e che segna un distacco netto dall’antropologia legata appunto a quell’individualismo proprietario che aveva accompagnato per tutto l’Ottocento e buona parte del Novecento il diritto civile, da intendere, però, non come un semplice settore della disciplina giuridica, ma come la fondazione costituzionale dei rapporti privati. Non a caso Jean Carbonnier ha parlato del Code civil come della «costituzione civile dei francesi», mettendo in evidenza un aspetto già colto nitidamente da Gioele Solari fin dal 1911, sottolineando che «la Codificazione risponde nel campo del diritto privato a quello che furono le Dichiarazioni di diritti e le Costituzioni nel campo del diritto pubblico(6)».
Se, a questo punto, si torna al clima e all’assetto istituzionale del tempo che seguì la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, possiamo cogliere l’incidenza del Code civil, che modifica profondamente l’antropologia emersa dalla rivoluzione. Esponendo i motivi della codificazione, il maggiore tra i suoi artefici, Jean-Etienne-Marie Portalis, scrive: «al cittadino appartiene la proprietà, al sovrano l’impero». Ecco indicati, con ammirevole semplicità, il senso e la portata dell’operazione politica realizzata attraverso il Code, individualista e patrimonialista. La proprietà dà il tono al codice. Lo aveva già detto con assoluta chiarezza Cambacérès, scrivendo che «la legislazione civile regola i rapporti individuali e attribuisce a ciascuno i suoi diritti in relazione alla proprietà». Lo sapeva bene Napoleone che, nel suo proclama del 18 brumaio, si presentava appunto come il difensore di “libertà, eguaglianza e proprietà”, reinterpretando, attraverso la cancellazione della fraternità, la triade rivoluzionaria. Portando a compimento questo disegno, il Code Napoléon definisce non solo lo statuto della borghesia vittoriosa, ma l’intera trama delle relazioni tra i cittadini, diviene il piano dei rapporti sociali.
Le conseguenze di questo radicale mutamento sono evidenti. «Ecco in mano mia il Codice civile. Non è per nulla il prodotto della società borghese. È piuttosto la società borghese, nata nel XVII secolo e sviluppatasi nel XIX, che semplicemente trova nel Codice una forma giuridica»: così Karl Marx nel 1849. E Antonio Labriola incalza: «Il novello stato, che ebbe bisogno del 18 brumaio per diventare una ordinata burocrazia poggiata sul militarismo vittorioso, questo stato che completava la rivoluzione nell’atto che la negava, non potea fare a meno del suo testo, e l’ebbe nel Codice civile, che è il libro d’oro della società che produca e venda merci».
La rilevanza attribuita alla proprietà, diritto esclusivo, non oscura soltanto la fraternità: reinterpreta anche gli altri due riferimenti della triade rivoluzionaria attraverso la saldatura tra libertà e proprietà e il conseguente, inevitabile, mutamento di senso dell’eguaglianza. Una volta intesa la proprietà come fondamento della libertà stessa, secondo la classica lettura del liberalismo, è evidente che essa diviene pure la condizione dell’eguaglianza, dal momento che solo l’eguaglianza nel possesso si presenta come il fattore decisivo per il superamento delle disparità. L’individualismo proprietario connota non solo l’assetto economico, ma istituisce una diversa antropologia, quella del borghese moderno, che implica quasi una costituzionalizzazione della diseguaglianza.
Tra l’originaria costituzione, la Dichiarazione dei diritti e il Code civil si manifesta precocemente quella ch...

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