Anatema!
Sono il guardiano delle lettere... Tieniti alla larga.
I secolo d.C.
I libri nel Medioevo erano così preziosi da dover essere protetti con ogni mezzo. Una volta che un libro era stato prodotto, veniva scrupolosamente catalogato e conservato in un posto sicuro, le cui chiavi venivano poi tenute da un funzionario particolarmente responsabile.
I regolamenti dei monasteri specificavano nel dettaglio che i libri dovevano essere tenuti al sicuro, chi ne era responsabile, in che modalità dovevano avvenire il prestito e la restituzione dopo un determinato lasso di tempo.
Prestare un libro a una persona estranea al monastero era considerato, da qualcuno, come gettarlo via. Se un libro doveva essere prestato, occorreva, in garanzia, un pegno consistente. Secondo molte comunità, però, nessuna garanzia poteva compensare l’eventuale perdita di un libro e quindi esse emanavano leggi molto severe che proibivano il prestito in qualsiasi circostanza.
Fuori dalle mura del monastero, i libri erano considerati altrettanto preziosi. Con la diffusione delle università e dell’alfabetizzazione durante il tardo Medioevo, i concetti classici di scuola e biblioteca pubblica cominciarono a ridefinirsi. I pochi libri presenti in ogni collezione libraria erano così importanti da essere tutelati da apposite regole e restrizioni.
Nonostante conoscesse fin troppo bene i rischi che un libro poteva correre, Richard de Bury ne donò alcuni all’Università di Oxford ma richiese che, in cambio, nessun libro fosse dato in prestito a meno che una copia non fosse custodita al sicuro sugli scaffali.
Per molte persone queste precauzioni erano comunque insufficienti e diventò abitudine di molte biblioteche incatenare i libri agli scaffali o ai banchi con pesanti catene. L’idea di una biblioteca che effettuasse il prestito era per lo più inconcepibile.
Come si poteva trovare una protezione del tutto sicura per un libro? Qualsiasi libro poteva essere rubato e, anche se era incatenato al banco, cosa impediva che macchie, sbavature, annotazioni non gradite o, peggio, furti di singole pagine lo rovinassero per sempre?
L’uomo medievale trovò la soluzione definitiva: coloro che avevano affidato la propria esistenza all’Altissimo, decisero che anche i libri andavano affidati alla Sua tutela. Così li posero sotto la protezione di Dio, un bibliotecario che pochi avrebbero avuto il coraggio di affrontare.
L’idea di mettere un oggetto inanimato sotto la protezione divina è vecchia quanto il rapporto stesso dell’uomo con la divinità. Questo rapporto stabilisce che gli dèi hanno poteri superiori a quelli dell’uomo, che si rivolge a loro per aiuto e protezione.
Certamente una delle prime richieste dell’uomo ai suoi dèi fu quella di essere difeso non solo dalla Natura e dal Fato, ma anche dal più pericoloso dei suoi nemici, ossia gli altri uomini.
Un uomo religioso era forte quanto la divinità che venerava e poteva minacciare gli altri o essere tutelato grazie ai poteri divini; di conseguenza, anche il concetto di maledizione è antico quanto la religione stessa. Basta vedere, infatti, i mezzi con cui l’uomo cercava di proteggere le sue spoglie una volta defunto: le maledizioni contro i profanatori di tombe esistono fin dai tempi più antichi. Quelle dei faraoni d’Egitto sono tra le più famose, ma sono molto eloquenti anche quelle meno note di un re di Sidon, che morì all’incirca nel 350 a.C. e fece porre sopra la sua bara, ora custodita al Museo archeologico di Istanbul, l’iscrizione seguente:
I, Tabnith, priest of Astarte, king of the Sidonians, son of Eshmunazar, priest of Astarte, king of the Sidonians, am lying in this coffin. Whoever are you, do not open my cover and disturb me, for no silver is gathered with me and no gold is gathered with me or any kind of riches. I alore am lying in this coffin. Do no, do not open my cover and disturb me, for such a thing would be an abomination to Astarte! And if you do open my cover and disturb me, may you have no offspring among the living under the sun or a resting place with the shades.
Duemila anni dopo, William Shakespeare fece incidere sulla sua tomba:
Good friend for Jesus’s sake forbear,
to dig the dust enclosed here.
Blessed the man that spares these stones,
and cursed be he that moves my bones.
Naturalmente, anche se non si trattava delle proprie spoglie, l’idea di proteggere i propri beni più preziosi con una vendetta divina non era nuova quando l’uomo iniziò a possedere libri e a preoccuparsi per la loro sicurezza.
Gli storici ipotizzano che l’idea di porre maledizioni sui libri ebbe origine con i manoscritti orientali. I requisiti necessari all’intervento divino, ovviamente, esistevano fin dall’origine della scrittura. Forse senza alcuna eccezione, ogni civiltà che abbia mai sviluppato una forma di scrittura la interpretava come un dono elargito da una forza superiore. Noi moderni, così abituati a leggere, non possiamo davvero comprendere la riverenza che gli uomini provavano verso questa arte, che consentiva di rendere la comunicazione orale visibile, in grado di essere conservata e ripetibile nel tempo.
Dato che l’arte della scrittura era un dono divino e che solo i più colti tra gli uomini, come i sacerdoti, la padroneggiavano, le prime opere scritte furono religiose, i beni più sacri di quella civiltà che, in virtù della loro importanza, erano conservati nei templi e protetti dagli dèi.
La maledizione più antica finora conosciuta, probabilmente, ha più di 6000 anni. Ho scritto che probabilmente lo è, perché protegge la biblioteca del tempio solo indirettamente. La maledizione è stata incisa in una cavità della porta del tempio (che ora si trova nel Museo dell’Università della Pennsylvania) per ordine di Sargon I, che regnò su Nippur, a Babilonia, all’incirca nel 3800 a.C.:
Shargani-shar-ali, son of Itti-Bel, the mighty King of Accad and the dominion of Bel, the builder of Ekur, the Temple of Bel in Nippur. Whoever removes this inscribed stone, may Bel and Shamash tear out his foundation and e...