Io, robot
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Io, robot

Isaac Asimov

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  1. 280 páginas
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Io, robot

Isaac Asimov

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Información del libro

Pubblicata per la prima volta nel 1950, questa storica antologia vede formulate e applicate compiutamente per la prima volta le tre celeberrime Leggi della robotica, quelle norme che regolano il comportamento delle "macchine pensanti" e che da allora sono alla base di tutta la science fiction. Vera pietra miliare nella storia della letteratura fantascientifica, Io, Robot è anche una raccolta di stupende storie, ironiche, tenere, commoventi, divertenti; racconti che mentre parlano di androidi ci svelano i lati più riposti della bizzarra natura umana.

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Información

Editorial
Mondadori
Año
2018
ISBN
9788852032998
Categoría
Literatura
1

Robbie

«Novantotto... novantanove... cento!» Gloria scostò il braccino paffuto con cui si era coperta gli occhi e per un attimo rimase immobile, arricciando il naso e strizzando le palpebre al sole. Poi, cercando di tenere sotto controllo ogni direzione, si allontanò di un paio di passi dall’albero contro il quale era appoggiata, con circospezione.
Tese il collo per valutare le possibilità offerte da una macchia di cespugli sulla destra, poi si allontanò ancora per avere una prospettiva migliore sulla zona d’ombra al suo interno. Regnava un profondo silenzio, incrinato solo dal ronzio incessante degli insetti e, a tratti, dal cinguettio di un uccello abbastanza temerario da sfidare la calura di mezzogiorno.
Gloria fece una smorfia imbronciata. «Scommetto che è entrato in casa, e gliel’ho detto un milione di volte che non è valido.»
Con la boccuccia serrata e una ruga di disappunto che le increspava la fronte, si avviò a passo determinato verso l’edificio a due piani in fondo al vialetto.
Sentì troppo tardi il fruscio alle sue spalle, seguito dal tipico clangore ritmico dei piedi metallici di Robbie. Si voltò in un baleno e scorse il suo compagno di giochi che emergeva trionfante dal nascondiglio dirigendosi a tutta velocità verso la tana.
Gloria emise un gridolino di sconforto. «Aspetta, Robbie! Non è valido, Robbie! Avevi promesso che non correvi finché non ti trovavo.» I suoi piedini non riuscivano a tenere il passo coi balzi enormi di Robbie. Poi, a un paio di metri dal traguardo, Robbie rallentò sino a muoversi appena, e Gloria, con un ultimo scatto selvaggio, gli sfrecciò accanto ansimando e toccò per prima l’ambita corteccia dell’albero che faceva da tana.
Ridendo a crepapelle si voltò verso il fedele Robbie e, con l’ingratitudine più meschina, ricompensò il suo sacrificio canzonandolo crudelmente per le sue scarse doti da corridore.
«Robbie non sa correre!» gridò con tutta la voce che aveva nel suo corpicino di otto anni. «Lo batto quando voglio. Lo batto quando voglio» cantilenava su una melodia stridula.
Robbie non rispose, ovvio... non a parole. Invece mimò l’atto di correre, allontanandosi di un millimetro alla volta fino a che Gloria non si trovò a rincorrerlo; ma all’ultimo lui si scansava sempre e la costringeva a girare in tondo a vuoto, dimenando per aria le piccole braccia tese.
«Robbie, fermati!» strillò, senza fiato, ridendo e ansimando a sprazzi.
Ma poi lui si voltò di colpo e la prese in braccio e la fece volteggiare in cerchio, così che per un istante agli occhi di lei il mondo si rovesciò in un vuoto azzurro dentro il quale gli alberi si protendevano verso il basso, verdissimi, affamati. Poi Gloria si ritrovò di nuovo sul prato, addossata alla gamba di Robbie, con un rigido dito metallico ancora stretto in pugno.
Dopo un po’ riprese fiato. Si ravviò inutilmente i capelli scompigliati, imitando alla bell’e meglio un gesto tipico di sua madre, poi si contorse all’indietro per controllare di non essersi strappata il vestitino.
Batté una mano sul torace di Robbie. «Cattivo! Adesso ti sculaccio!»
E Robbie si rannicchiò proteggendosi il viso con le mani, tanto che lei si sentì di aggiungere: «Ma no, Robbie, non ti sculaccio. Però ora tocca lo stesso a me nascondermi perché tu hai le gambe più lunghe e avevi promesso che non correvi finché non ti trovavo».
Robbie annuì col capo – che era un piccolo parallelepipedo con gli spigoli stondati, connesso al parallelepipedo simile ma più grande del torace mediante una corta asta flessibile – e si girò verso l’albero, obbediente. I suoi occhi luminosi furono oscurati da un sottile otturatore metallico e dall’interno del suo corpo risuonò un ticchettio regolare e vibrante.
«Adesso non sbirciare... e non saltare i numeri!» lo ammonì Gloria prima di correre a nascondersi.
I secondi furono scanditi con una regolarità inflessibile; al centesimo le palpebre si sollevarono e gli occhi rosso acceso di Robbie perlustrarono i dintorni. Si soffermarono per un attimo su un lembo di cotone sgargiante che sbucava da dietro un masso. Avanzò di qualche passo e si rese conto che Gloria era rannicchiata lì.
Procedette lentamente verso il nascondiglio, tenendosi sempre fra Gloria e la tana, e quando la bambina fu così visibile da non riuscire più nemmeno a sognarsi di non essere stata scoperta Robbie tese un braccio verso di lei, sbattendo l’altro contro una gamba per produrre un clangore sordo. Gloria emerse, imbronciata.
«Hai sbirciato!» esclamò con clamoroso spirito antisportivo. «E poi mi sono stufata di giocare a nascondino. Voglio fare cavalluccio.»
Ma Robbie era rimasto ferito da quell’accusa infondata, quindi si sedette piano e scosse la testa da una parte all’altra con movimenti impacciati.
Gloria cambiò tono e si fece di colpo dolce e suadente. «Su, Robbie, mica dicevo sul serio che sbirciavi. Dài, facciamo cavalluccio.»
Però Robbie non si lasciò convincere con così poco. Fissò con ostinazione il cielo e scosse il capo con enfasi persino più marcata.
«Per favore, Robbie, facciamo cavalluccio, per favore.» Gli cinse il collo fra le braccia rosee e lo strinse a sé. Poi, in un baleno, cambiò umore e si allontanò. «Se no mi metto a piangere» disse, preparandosi a sfoderare uno dei suoi bronci.
Robbie, cuore di pietra, ignorò quella temibile eventualità e per la terza volta scosse il capo. Gloria si vide costretta a giocarsi l’asso nella manica.
«Se no,» esclamò accalorata «non ti racconto più storie, ecco. Mai più.»
Robbie si arrese subito e senza condizioni all’ultimatum, annuendo con tanto vigore da far cigolare il collo metallico. Sollevò con cura la bambina e se la depositò sulla superficie piatta e ampia delle spalle.
Le lacrime minacciate da Gloria sparirono immediatamente, e lei emise un gridolino di gioia. La pelle metallica di Robbie, mantenuta a una temperatura costante di ventuno gradi da una rete di resistenze sottocutanee, era piacevole, liscia, e i talloni di lei che gli tamburellavano il petto producevano un clangore delizioso.
«Facciamo che eri un’aeronave, Robbie, una grande aeronave d’argento. Su, apri bene le braccia. Devi farlo, Robbie, se no mica sei un’aeronave.»
Era una logica inconfutabile. Le braccia di Robbie erano ali impigliate nelle correnti d’aria, e lui era un’aeronave d’argento.
Gloria girò la testa del robot e si sbilanciò a destra. Lui eseguì una brusca virata. Gloria dotò l’aeronave di un motore che faceva bruuum, poi di armi che facevano bum! e ta-ta-ta-ta. I pirati stavano per lanciarsi all’inseguimento e la nave dovette tirare fuori i cannoni. I pirati caddero come mosche.
«Ne ho preso un altro... due!» gridò.
Poi Gloria disse pomposamente: «Ciurma, più in fretta, stiamo finendo le munizioni!». Con un coraggio ammirevole prese la mira dietro le proprie spalle e Robbie divenne un’astronave dal profilo smussato che sfrecciava alla massima accelerazione nel vuoto siderale.
Robbie volò a tutta velocità attraverso il giardino, fino all’erba alta sul limitare opposto, dove si fermò così di colpo da strappare un gridolino alla sua arrossata timoniera, per ribaltarla infine sul soffice tappeto erboso.
Gloria esclamò a intermittenza, a mezza voce fra gli ansimi: «È stato bellissimo!».
Robbie attese che riprendesse fiato poi le tirò dolcemente una ciocca di capelli.
«Vuoi qualcosa?» disse Gloria, sgranando gli occhi con una goffa ingenuità che non ingannò neppure per un istante il suo colossale “baby-sitter”. Le tirò la ciocca con più insistenza.
«Ah, ho capito. Vuoi una storia.»
Robbie annuì rapidamente.
«Quale?»
Robbie tracciò un semicerchio a mezz’aria con un dito.
La bambina protestò: «Ancora? Ma Cenerentola te l’ho raccontata un milione di volte! Non ti sei stufato...? È per bambini piccoli!».
Un altro semicerchio.
«Oh, come vuoi.» Gloria si ricompose, ripercorse a mente i dettagli della storia (arricchiti dalle sue elaborazioni personali, che erano parecchie) e cominciò:
«Sei pronto? Allora: c’era una volta una bellissima bambina che si chiamava Ella. E aveva una matrigna crudele e due sorellastre bruttissime e molto crudeli che...»
Gloria stava per raggiungere l’apice della storia – era appena suonata la mezzanotte, ogni cosa stava tornando precipitosamente allo squallore della realtà, e Robbie ascoltava rapito, con gli occhi ardenti – quando vennero interrotti.
«Gloria!»
Era la voce acuta di una donna che chiamava da parecchio, col nervosismo di qualcuno la cui ansia stava per avere la meglio sull’impazienza.
«Mi chiama la mamma» disse Gloria, non proprio felice. «Meglio che mi riporti a casa, Robbie.»
Robbie obbedì senza farselo ripetere, perché qualcosa in lui sentiva che obbedire alla signora Weston senza un’ombra di esitazione era la cosa giusta da fare. Di giorno il padre di Gloria non era quasi mai a casa, tranne la domenica – ed era appunto domenica – ma quando c’era si mostrava allegro e comprensivo. La madre, invece, lo metteva a disagio, e Robbie aveva sempre l’impulso di nascondersi da lei.
La signora Weston li avvistò non appena sbucarono dal riparo dell’erba alta e si ritirò in casa ad aspettare.
«Ho gridato così tanto che mi fa male la gola, Gloria» disse severa. «Ma dov’eri?»
«Ero con Robbie» rispose Gloria, tremando. «Gli stavo raccontando Cenerentola, mi ero dimenticata che è ora di cena.»
«Be’, è un peccato che se ne sia dimenticato anche Robbie, non trovi?» Poi, come ricordandosi solo allora della presenza del robot, si voltò di scatto verso di lui. «Puoi andare, Robbie. Ora non ha bisogno di te.» Poi aggiunse, secca: «E non tornare finché non ti chiamo».
Robbie fece per andarsene, ma esitò quando sentì Gloria piagnucolare in sua difesa. «Aspetta, mamma, non mandarlo via. Non ho finito Cenerentola. Gli ho promesso che gli avrei raccontato Cenerentola e non ho finito.»
«Gloria!»
«Ti giuro, mamma, starà così zitto che neanche ti accorgerai che c’è. Può stare sulla sedia nell’angolo, e non dirà niente... cioè, non farà niente. Vero, Robbie?»
Robbie, sentendosi chiamato in causa, mosse l’enorme testa avanti e indietro, una volta sola.
«Gloria, se non la smetti subito ti tolgo Robbie per una settimana.»
La bambina abbassò gli occhi. «Va bene. Ma Cenerentola è la sua storia preferita e non l’ho finita... e gli piace tanto tanto!»
Il robot si allontanò con passo sconsolato, e Gloria trattenne un singhiozzo.
George Weston si stava rilassando. Rilassarsi di domenica pomeriggio era una sua tradizione. Un pranzo ricco e gustoso nello stomaco; un bel divano comodo e liso su cui spaparanzarsi; una copia del «Times»; pantofole ai piedi e camicia sbottonata... come sarebbe stato possibile non rilassarsi in queste circostanze?
E quindi non fu contento quando sua moglie irruppe nella stanza. Dopo dieci anni di matrimonio era ancora tanto indicibilmente stupido da amarla, quindi era sempre felice di vederla. Eppure la domenica subito dopo pranzo era un momento sacro per lui, e la sua idea di relax prevedeva due o tre ore di assoluta solitudine. Pertanto concentrò lo sguardo sugli ultimi aggiornamenti della spedizione Lefebre-Yoshida (doveva decollare dalla Base Lunare, stavolta non era escluso che riuscissero davvero ad arrivare su Marte) e finse di non vederla.
L...

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