Il senso del dolore
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Il senso del dolore

L'inverno del commissario Ricciardi

Maurizio de Giovanni

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  1. 216 páginas
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Il senso del dolore

L'inverno del commissario Ricciardi

Maurizio de Giovanni

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Il romanzo del possesso.
Il talento infinito, l'amore del pubblico, la devozione delle donne, l'amicizia dei potenti: e Arnaldo Vezzi, il piú grande tenore del suo tempo, crede di essere un dio. Quindi si prende quello che vuole, se ne serve e lo getta via; calpesta cuori e anime; deride, distrugge. Tutto deve essere suo, nulla gli si può rifiutare. Ma un dio può non essere immortale. *** In nuova edizione l'intero ciclo delle «stagioni»: le prime quattro storie del commissario Ricciardi.
In ogni volume, in postfazione, l'autore dialoga con i suoi personaggi principali: lo stesso Ricciardi, che ha il dono, o la condanna, di sentire il dolore, vedere i morti di morte violenta e ascoltare le loro ultime parole; il brigadiere Maione, suo compagno di avventure; Bambinella, il femminiello che sa tutte le voci della città; e il razionale, umanissimo dottor Modo.

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Información

Editorial
EINAUDI
Año
2021
ISBN
9788858438268

Il senso del dolore

A mia madre

I.

Il bambino morto stava all’impiedi, fermo all’incrocio tra Santa Teresa e il Museo. Guardava i due ragazzi che, seduti a terra, facevano il giro d’Italia con le biglie. Li guardava e ripeteva: Scendo? Posso scendere?
L’uomo senza cappello sapeva della presenza del bambino morto ancora prima di vederlo: sapeva che il lato sinistro, il primo che i suoi occhi avrebbero incontrato, era intatto; mentre a destra, il cranio era stato cancellato dall’impatto, la spalla era rientrata nella cassa toracica sfondandola, il bacino era ruotato attorno alla colonna vertebrale spezzata. E sapeva pure che al terzo piano del palazzo d’angolo che in quel primo mattino di mercoledí gettava una fascia d’ombra fredda sulla strada, un balconcino era serrato; sulla bassa ringhiera restava appeso un drappo nero. Poteva solo immaginare il dolore di una giovane madre che, contrariamente a lui, il figlio non lo avrebbe piú rivisto. Meglio per lei, pensò. Tutto questo strazio.
Il bambino morto, per metà nascosto dall’ombra, alzò lo sguardo al passaggio dell’uomo senza cappello. Scendo? Posso scendere? gli chiese. Un salto di tre piani, un dolore accecante lungo quanto un lampo.
L’uomo senza cappello chinò la testa e accelerò il passo. Superò i due ragazzi che, con espressione seria, continuavano il giro d’Italia. Bambini poveri, pensò.
Luigi Alfredo Ricciardi, l’uomo senza cappello, era commissario di pubblica sicurezza presso la squadra mobile della regia questura di Napoli. Aveva trentun anni, quanti erano gli anni di quel secolo. Nove dell’èra fascista.
Non era povero il bambino che giocava da solo in un cortile della casa padronale di Fortino, in provincia di Salerno, una mattina di luglio di un quarto di secolo prima. Il piccolo Luigi Alfredo era l’unico figlio del barone Ricciardi di Malomonte; del padre, morto giovanissimo, non avrebbe avuto mai un ricordo. La madre fu sempre malata di nervi e morí in una casa di cura quando lui, adolescente, studiava in collegio dai gesuiti; ne avrebbe conservato l’ultima immagine, la carnagione bruna, i capelli già bianchi a trentott’anni, gli occhi febbrili. Minuta, in un letto troppo grande.
Ma fu quella mattina di luglio a cambiare definitivamente la sua vita. Aveva trovato un pezzo di legno, che si era trasformato nella scimitarra di Sandokan, la Tigre della Malesia: facevano presto a diventare realtà i racconti di Mario, il fattore appassionato di Salgari con cui trascorreva lunghe ore col respiro sospeso. Cosí armato non temeva belve o nemici feroci, ma aveva bisogno di una giungla. C’era un vigneto accanto al cortile, dove gli era concesso andare: gli piacevano l’ombra delle larghe foglie della vite, il fresco inatteso, il ronzio degli insetti. Il piccolo Sandokan, spavaldo con la sua spada di legno, s’inoltrò nell’oscurità, avanzando silenzioso nella sua foresta immaginaria: al posto di cicale e calabroni si figurava pappagalli dai mille colori e quasi sentiva i loro richiami esotici. Una lucertola si slanciò lungo il vialetto solcando la ghiaia, lui la seguí, lievemente piegato in avanti, la lingua che spuntava tra le labbra, gli occhi verdi concentrati. La lucertola svoltò, cambiando traiettoria.
Seduto sotto un tralcio, per terra, vide l’uomo: era in una zona di penombra, come a voler trovare ristoro dalla feroce calura di quel terribile luglio nella giungla. La testa reclinata, le braccia abbandonate lungo il busto, le mani che toccavano il suolo. Sembrava addormentato, ma la schiena era rigida e le gambe, allungate sul vialetto, lievemente scomposte. Era vestito all’uso dei braccianti, ma come fosse inverno: il panciotto di lana, un camiciotto di flanella senza collo, pantaloni di tela pesante legati in vita con lo spago. Il piccolo Sandokan, con la sua spada in pugno, registrò quei particolari senza rilevarne l’incongruenza: poi vide il manico del coltellaccio da potatura spuntare dal torace dell’uomo, sul lato sinistro, come un ramo da un tronco. Un liquido scuro macchiava la camicia gocciolando fino a terra, dove si era formata una pozzanghera: adesso la Tigre della Malesia la vedeva bene nonostante l’ombra delle viti. Un po’ piú in là, la lucertola si era fermata e lo osservava, quasi delusa per l’interruzione dell’inseguimento.
L’uomo, che doveva essere morto, alzò lentamente la testa e la girò verso Luigi Alfredo, con un lieve scricchiolio delle vertebre: lo guardò con gli occhi velati e semichiusi. Le cicale smisero di frinire. Il tempo si fermò.
Perdio, non l’ho nemmeno toccata la tua donna.
Non fu per l’incontro inatteso, né per il manico del coltellaccio o per tutto quel sangue. Luigi Alfredo scappò urlando per lasciarsi alle spalle tutto il dolore che il cadavere del bracciante gli aveva buttato addosso. Nessuno gli disse mai che il delitto avvenuto nel vigneto cinque mesi prima era frutto della gelosia di un altro bracciante, fuggito dopo aver ucciso anche la giovane moglie; si diceva si fosse aggregato a un gruppo di briganti in Lucania. Attribuirono lo spavento e il terrore del bambino alla sua fantasia spiccata, al carattere solitario e alle chiacchiere delle comari che, la sera, cucivano sotto la finestra della sua stanza cercando un po’ di fresco nel cortile. Ne parlavano come del «Fatto».
Luigi Alfredo si abituò a pensare alla cosa che gli era capitata proprio con quel nome: il Fatto. Da quando gli era successo il Fatto, come aveva capito dal Fatto. Il Fatto che gli aveva orientato l’esistenza. Nemmeno Rosa, la tata che gli aveva dedicato la vita e viveva ancora con lui, gli aveva creduto, allora; in viso le era affiorata la tristezza e poi un lampo di paura, come per il presagio che anche il piccolo fosse destinato a soffrire il male della madre. E Luigi Alfredo aveva compreso che non avrebbe mai piú potuto parlarne con nessuno, che quel marchio sull’anima ce l’aveva solo lui: una condanna, una dannazione.
Negli anni che seguirono, Luigi Alfredo andò definendo i confini del Fatto. Vedeva i morti. Non tutti e non a lungo: solo quelli morti violentemente, e per un periodo che rifletteva l’estrema emozione, l’energia improvvisa dell’ultimo pensiero. Li vedeva come in una fotografia che fissava il momento in cui si era conclusa la loro esistenza, con i contorni che andavano man mano sbiadendo fino a scomparire: anzi, come in una pellicola, di quelle che aveva visto qualche volta al cinematografo, che però replicava sempre la stessa scena. L’immagine del morto con i segni delle ferite e l’espressione dell’ultimo attimo prima della fine; e le ultime parole, ripetute incessantemente, come a voler finire un lavoro cominciato dall’anima prima di essere strappata via.
Sentiva l’emozione, piú di tutto: coglieva di volta in volta il dolore, la sorpresa, la rabbia, la malinconia. Persino l’amore: ricordava spesso, nelle notti in cui la pioggia batteva alla sua finestra e lui non riusciva a prendere sonno, la scena di un delitto in cui l’immagine di un bambino, seduto nel catino in cui era morto affogato, allungava la mano verso il punto in cui si trovava la madre, a cercare aiuto dalla sua stessa assassina. Ne aveva percepito tutto l’amore incondizionato ed esclusivo. Un’altra volta si era trovato davanti al cadavere di un uomo pugnalato dall’amante pazza di gelosia nel momento dell’orgasmo: ne aveva colto l’intensità del piacere ed era dovuto uscire in tutta fretta dalla stanza, il fazzoletto premuto sulla bocca.
Cosí era il Fatto, la sua condanna: gli arrivava addosso come il fantasma di un cavallo in corsa, senza dargli il tempo di evitarlo; nessun avvertimento lo precedeva, nessuna sensazione fisica lo seguiva se non il ricordo.
Ancora una cicatrice sulla sua anima.

II.

Luigi Alfredo Ricciardi era di statura media, magro. Scuro di carnagione, gli occhi verdi che spiccavano sul viso; i capelli neri, pettinati all’indietro e lisciati con la brillantina, liberavano talvolta un ciuffo che gli attraversava la fronte e che lui, distrattamente, metteva a posto con un gesto secco. Il naso era diritto e sottile, come le labbra. Le mani piccole, quasi femminili: nervose, sempre in movimento. Le teneva in tasca, consapevole del fatto che tradivano la sua emozione, la tensione.
Avrebbe potuto fare a meno di lavorare, grazie alle rendite di famiglia, alle quali non si interessava piú di tanto. E avrebbe dovuto – come qualche parente gli ricordava nei rarissimi incontri al paese, d’estate – frequentare una società piú consona al nome che portava. Ma lui teneva nascosti sia le rendite sia il titolo, per passare il piú possibile inosservato e seguire la vita che si era scelto; o meglio, che lo aveva scelto. Provate voi, avrebbe detto se avesse potuto, a sentirlo, tutto quel dolore: costante, perenne; in ogni forma. Da sempre, tutti i giorni, a chiedere pace, a reclamare giustizia. Aveva deciso di studiare Giurisprudenza, la tesi in Diritto penale, poi era entrato in polizia: l’unico modo per raccogliere l’istanza, per alleggerire quel peso. Nel mondo dei vivi, per seppellire i morti.
Non aveva amici, non frequentava nessuno, non usciva la sera, non aveva una donna. La sua famiglia si esauriva con la tata Rosa, ormai settantenne, che lo assisteva con assoluta devozione, amandolo teneramente senza però mai provare a comprenderne gli sguardi e i pensieri.
Lavorava fino a tardi, isolato dal gruppo dei colleghi che lo evitavano con cura. I superiori ne temevano il valore, la straordinaria capacità di risolvere casi indecifrabili, la dedizione totale al lavoro: fattori che facevano pensare a un’ambizione sfrenata, a una determinazione a emergere, a scalare, a rimpiazzare. I sottoposti non ne comprendevano la cupezza, i silenzi: mai un sorriso, un commento superfluo. Seguiva percorsi stravaganti, non si atteneva alle procedure, ma alla fine aveva sempre ragione. I piú superstiziosi, e in quella città non erano pochi, intuivano qualcosa di innaturale nelle soluzioni di Ricciardi: come se le sue indagini fossero all’inverso, come se risalisse a ritroso il corso degli eventi. Era difficile che le guardie, chiamate a collaborare direttamente col commissario, non reagissero con una smorfia di fastidio. Inoltre le sue indagini non avevano requie: una volta cominciate, finivano solo con la soluzione del caso. Né notte, né giorno, e neppure domeniche, fino a quando il colpevole non era in galera. Come se, ogni volta, la vittima fosse un suo parente; come se l’avesse conosciuta personalmente.
Qualcuno apprezzava che Ricciardi rinunciasse sistematicamente ai premi speciali in denaro, conferiti per le indagini piú importanti, in favore della squadra; e poi era sempre presente, cedeva i giorni di licenza, copriva con la propria persona gli errori dei sottoposti, salvo poi affrontare a muso duro il responsabile e richiamarlo a una maggiore attenzione.
Tuttavia, soltanto uno dei suoi collaboratori gli era veramente legato: il brigadiere Raffaele Maione.
Da poco doppiato il capo dei cinquant’anni, Maione era molto contento di essere ancora vivo e in forze. La sera, a tavola, amava ripetere alla moglie e ai cinque figli: «Ringraziate il Padreterno perché mangiate. E la fortuna, perché papà non si è fatto ancora ammazzare». E subito gli spuntavano le lacrime al pensiero di Luca, il figlio maggiore entrato come lui in polizia, ma non altrettanto fortunato: in servizio da un anno, era stato accoltellato a morte nel quartiere Sanità durante una perquisizione. Il dolore era ancora fresco, anche se erano passati tre anni; la moglie non ne aveva piú parlato, come se quel figlio bello e forte, che rideva sempre e la prendeva in braccio e la faceva volare e la chiamava «la fidanzata mia», non fosse esistito. E invece c’era, seduto in mezzo alla sua anima, a togliere il posto ai fratelli e alle sorelle, ad accompagnarla per tutta la giornata.
Maione si era legato a Ricciardi proprio in occasione della morte del figlio. L’allora delegato di polizia era stato fra i primi ad arrivare sul posto. Con gentilezza aveva chiesto a Maione di allontanarsi dalla cantina dove era stato trovato il corpo del ragazzo, riverso in una pozza di sangue, il coltello che sporgeva dalla schiena. Era rimasto solo per alcuni minuti: quando era uscito dal buio gli occhi verdi sembravano illuminati da una luce interna, come quelli di un gatto, ma erano pieni di lacrime. Si era avvicinato a Maione. Nel silenzio dei presenti, imbarazzati di fronte allo strazio del padre, Ricciardi aveva allungato una mano e gli aveva stretto il braccio. Maione ricordava ancora l’insospettata forza che aveva sentito, il calore di quella mano attraverso la stoffa della divisa.
«Ti voleva bene, Maione. Ti voleva bene da morire. Ti ha chiamato, come ultimo pensiero. Ti sarà vicino sempre, a te e a sua mamma».
Pur nella nebbia dell’immenso dolore, Maione aveva sentito un brivido lungo la schiena e dietro la nuca. Non aveva chiesto, né allora né dopo, durante gli anni di appostamenti o nelle lunghe trasferte imposte dalle varie indagini, come Ricciardi sapesse, perché era stato proprio lui a recapitargli l’estremo messaggio del figlio amatissimo. Ma sapeva che era andata proprio cosí, che il delegato aveva detto quello che aveva visto e sentito, che non erano le solite parole di conforto che lui stesso aveva tante volte ripetuto ai parenti dei morti.
Si era legato allora, Maione a Ricciardi. Nei giorni terribili che seguirono, senza riposo né perdono, notti e mattine e pomeriggi e sere senza mangiare, senza bere, senza tornare a casa; a erodere il muro consolidato dell’omertà del quartiere, a scambiare informazi...

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