Il bambino morto stava allâimpiedi, fermo allâincrocio tra Santa Teresa e il Museo. Guardava i due ragazzi che, seduti a terra, facevano il giro dâItalia con le biglie. Li guardava e ripeteva: Scendo? Posso scendere?
Lâuomo senza cappello sapeva della presenza del bambino morto ancora prima di vederlo: sapeva che il lato sinistro, il primo che i suoi occhi avrebbero incontrato, era intatto; mentre a destra, il cranio era stato cancellato dallâimpatto, la spalla era rientrata nella cassa toracica sfondandola, il bacino era ruotato attorno alla colonna vertebrale spezzata. E sapeva pure che al terzo piano del palazzo dâangolo che in quel primo mattino di mercoledĂ gettava una fascia dâombra fredda sulla strada, un balconcino era serrato; sulla bassa ringhiera restava appeso un drappo nero. Poteva solo immaginare il dolore di una giovane madre che, contrariamente a lui, il figlio non lo avrebbe piĂș rivisto. Meglio per lei, pensĂČ. Tutto questo strazio.
Il bambino morto, per metĂ nascosto dallâombra, alzĂČ lo sguardo al passaggio dellâuomo senza cappello. Scendo? Posso scendere? gli chiese. Un salto di tre piani, un dolore accecante lungo quanto un lampo.
Lâuomo senza cappello chinĂČ la testa e accelerĂČ il passo. SuperĂČ i due ragazzi che, con espressione seria, continuavano il giro dâItalia. Bambini poveri, pensĂČ.
Luigi Alfredo Ricciardi, lâuomo senza cappello, era commissario di pubblica sicurezza presso la squadra mobile della regia questura di Napoli. Aveva trentun anni, quanti erano gli anni di quel secolo. Nove dellâĂšra fascista.
Non era povero il bambino che giocava da solo in un cortile della casa padronale di Fortino, in provincia di Salerno, una mattina di luglio di un quarto di secolo prima. Il piccolo Luigi Alfredo era lâunico figlio del barone Ricciardi di Malomonte; del padre, morto giovanissimo, non avrebbe avuto mai un ricordo. La madre fu sempre malata di nervi e morĂ in una casa di cura quando lui, adolescente, studiava in collegio dai gesuiti; ne avrebbe conservato lâultima immagine, la carnagione bruna, i capelli giĂ bianchi a trentottâanni, gli occhi febbrili. Minuta, in un letto troppo grande.
Ma fu quella mattina di luglio a cambiare definitivamente la sua vita. Aveva trovato un pezzo di legno, che si era trasformato nella scimitarra di Sandokan, la Tigre della Malesia: facevano presto a diventare realtĂ i racconti di Mario, il fattore appassionato di Salgari con cui trascorreva lunghe ore col respiro sospeso. CosĂ armato non temeva belve o nemici feroci, ma aveva bisogno di una giungla. Câera un vigneto accanto al cortile, dove gli era concesso andare: gli piacevano lâombra delle larghe foglie della vite, il fresco inatteso, il ronzio degli insetti. Il piccolo Sandokan, spavaldo con la sua spada di legno, sâinoltrĂČ nellâoscuritĂ , avanzando silenzioso nella sua foresta immaginaria: al posto di cicale e calabroni si figurava pappagalli dai mille colori e quasi sentiva i loro richiami esotici. Una lucertola si slanciĂČ lungo il vialetto solcando la ghiaia, lui la seguĂ, lievemente piegato in avanti, la lingua che spuntava tra le labbra, gli occhi verdi concentrati. La lucertola svoltĂČ, cambiando traiettoria.
Seduto sotto un tralcio, per terra, vide lâuomo: era in una zona di penombra, come a voler trovare ristoro dalla feroce calura di quel terribile luglio nella giungla. La testa reclinata, le braccia abbandonate lungo il busto, le mani che toccavano il suolo. Sembrava addormentato, ma la schiena era rigida e le gambe, allungate sul vialetto, lievemente scomposte. Era vestito allâuso dei braccianti, ma come fosse inverno: il panciotto di lana, un camiciotto di flanella senza collo, pantaloni di tela pesante legati in vita con lo spago. Il piccolo Sandokan, con la sua spada in pugno, registrĂČ quei particolari senza rilevarne lâincongruenza: poi vide il manico del coltellaccio da potatura spuntare dal torace dellâuomo, sul lato sinistro, come un ramo da un tronco. Un liquido scuro macchiava la camicia gocciolando fino a terra, dove si era formata una pozzanghera: adesso la Tigre della Malesia la vedeva bene nonostante lâombra delle viti. Un poâ piĂș in lĂ , la lucertola si era fermata e lo osservava, quasi delusa per lâinterruzione dellâinseguimento.
Lâuomo, che doveva essere morto, alzĂČ lentamente la testa e la girĂČ verso Luigi Alfredo, con un lieve scricchiolio delle vertebre: lo guardĂČ con gli occhi velati e semichiusi. Le cicale smisero di frinire. Il tempo si fermĂČ.
Perdio, non lâho nemmeno toccata la tua donna.
Non fu per lâincontro inatteso, nĂ© per il manico del coltellaccio o per tutto quel sangue. Luigi Alfredo scappĂČ urlando per lasciarsi alle spalle tutto il dolore che il cadavere del bracciante gli aveva buttato addosso. Nessuno gli disse mai che il delitto avvenuto nel vigneto cinque mesi prima era frutto della gelosia di un altro bracciante, fuggito dopo aver ucciso anche la giovane moglie; si diceva si fosse aggregato a un gruppo di briganti in Lucania. Attribuirono lo spavento e il terrore del bambino alla sua fantasia spiccata, al carattere solitario e alle chiacchiere delle comari che, la sera, cucivano sotto la finestra della sua stanza cercando un poâ di fresco nel cortile. Ne parlavano come del «Fatto».
Luigi Alfredo si abituĂČ a pensare alla cosa che gli era capitata proprio con quel nome: il Fatto. Da quando gli era successo il Fatto, come aveva capito dal Fatto. Il Fatto che gli aveva orientato lâesistenza. Nemmeno Rosa, la tata che gli aveva dedicato la vita e viveva ancora con lui, gli aveva creduto, allora; in viso le era affiorata la tristezza e poi un lampo di paura, come per il presagio che anche il piccolo fosse destinato a soffrire il male della madre. E Luigi Alfredo aveva compreso che non avrebbe mai piĂș potuto parlarne con nessuno, che quel marchio sullâanima ce lâaveva solo lui: una condanna, una dannazione.
Negli anni che seguirono, Luigi Alfredo andĂČ definendo i confini del Fatto. Vedeva i morti. Non tutti e non a lungo: solo quelli morti violentemente, e per un periodo che rifletteva lâestrema emozione, lâenergia improvvisa dellâultimo pensiero. Li vedeva come in una fotografia che fissava il momento in cui si era conclusa la loro esistenza, con i contorni che andavano man mano sbiadendo fino a scomparire: anzi, come in una pellicola, di quelle che aveva visto qualche volta al cinematografo, che perĂČ replicava sempre la stessa scena. Lâimmagine del morto con i segni delle ferite e lâespressione dellâultimo attimo prima della fine; e le ultime parole, ripetute incessantemente, come a voler finire un lavoro cominciato dallâanima prima di essere strappata via.
Sentiva lâemozione, piĂș di tutto: coglieva di volta in volta il dolore, la sorpresa, la rabbia, la malinconia. Persino lâamore: ricordava spesso, nelle notti in cui la pioggia batteva alla sua finestra e lui non riusciva a prendere sonno, la scena di un delitto in cui lâimmagine di un bambino, seduto nel catino in cui era morto affogato, allungava la mano verso il punto in cui si trovava la madre, a cercare aiuto dalla sua stessa assassina. Ne aveva percepito tutto lâamore incondizionato ed esclusivo. Unâaltra volta si era trovato davanti al cadavere di un uomo pugnalato dallâamante pazza di gelosia nel momento dellâorgasmo: ne aveva colto lâintensitĂ del piacere ed era dovuto uscire in tutta fretta dalla stanza, il fazzoletto premuto sulla bocca.
CosĂ era il Fatto, la sua condanna: gli arrivava addosso come il fantasma di un cavallo in corsa, senza dargli il tempo di evitarlo; nessun avvertimento lo precedeva, nessuna sensazione fisica lo seguiva se non il ricordo.
Ancora una cicatrice sulla sua anima.
Luigi Alfredo Ricciardi era di statura media, magro. Scuro di carnagione, gli occhi verdi che spiccavano sul viso; i capelli neri, pettinati allâindietro e lisciati con la brillantina, liberavano talvolta un ciuffo che gli attraversava la fronte e che lui, distrattamente, metteva a posto con un gesto secco. Il naso era diritto e sottile, come le labbra. Le mani piccole, quasi femminili: nervose, sempre in movimento. Le teneva in tasca, consapevole del fatto che tradivano la sua emozione, la tensione.
Avrebbe potuto fare a meno di lavorare, grazie alle rendite di famiglia, alle quali non si interessava piĂș di tanto. E avrebbe dovuto â come qualche parente gli ricordava nei rarissimi incontri al paese, dâestate â frequentare una societĂ piĂș consona al nome che portava. Ma lui teneva nascosti sia le rendite sia il titolo, per passare il piĂș possibile inosservato e seguire la vita che si era scelto; o meglio, che lo aveva scelto. Provate voi, avrebbe detto se avesse potuto, a sentirlo, tutto quel dolore: costante, perenne; in ogni forma. Da sempre, tutti i giorni, a chiedere pace, a reclamare giustizia. Aveva deciso di studiare Giurisprudenza, la tesi in Diritto penale, poi era entrato in polizia: lâunico modo per raccogliere lâistanza, per alleggerire quel peso. Nel mondo dei vivi, per seppellire i morti.
Non aveva amici, non frequentava nessuno, non usciva la sera, non aveva una donna. La sua famiglia si esauriva con la tata Rosa, ormai settantenne, che lo assisteva con assoluta devozione, amandolo teneramente senza perĂČ mai provare a comprenderne gli sguardi e i pensieri.
Lavorava fino a tardi, isolato dal gruppo dei colleghi che lo evitavano con cura. I superiori ne temevano il valore, la straordinaria capacitĂ di risolvere casi indecifrabili, la dedizione totale al lavoro: fattori che facevano pensare a unâambizione sfrenata, a una determinazione a emergere, a scalare, a rimpiazzare. I sottoposti non ne comprendevano la cupezza, i silenzi: mai un sorriso, un commento superfluo. Seguiva percorsi stravaganti, non si atteneva alle procedure, ma alla fine aveva sempre ragione. I piĂș superstiziosi, e in quella cittĂ non erano pochi, intuivano qualcosa di innaturale nelle soluzioni di Ricciardi: come se le sue indagini fossero allâinverso, come se risalisse a ritroso il corso degli eventi. Era difficile che le guardie, chiamate a collaborare direttamente col commissario, non reagissero con una smorfia di fastidio. Inoltre le sue indagini non avevano requie: una volta cominciate, finivano solo con la soluzione del caso. NĂ© notte, nĂ© giorno, e neppure domeniche, fino a quando il colpevole non era in galera. Come se, ogni volta, la vittima fosse un suo parente; come se lâavesse conosciuta personalmente.
Qualcuno apprezzava che Ricciardi rinunciasse sistematicamente ai premi speciali in denaro, conferiti per le indagini piĂș importanti, in favore della squadra; e poi era sempre presente, cedeva i giorni di licenza, copriva con la propria persona gli errori dei sottoposti, salvo poi affrontare a muso duro il responsabile e richiamarlo a una maggiore attenzione.
Tuttavia, soltanto uno dei suoi collaboratori gli era veramente legato: il brigadiere Raffaele Maione.
Da poco doppiato il capo dei cinquantâanni, Maione era molto contento di essere ancora vivo e in forze. La sera, a tavola, amava ripetere alla moglie e ai cinque figli: «Ringraziate il Padreterno perchĂ© mangiate. E la fortuna, perchĂ© papĂ non si Ăš fatto ancora ammazzare». E subito gli spuntavano le lacrime al pensiero di Luca, il figlio maggiore entrato come lui in polizia, ma non altrettanto fortunato: in servizio da un anno, era stato accoltellato a morte nel quartiere SanitĂ durante una perquisizione. Il dolore era ancora fresco, anche se erano passati tre anni; la moglie non ne aveva piĂș parlato, come se quel figlio bello e forte, che rideva sempre e la prendeva in braccio e la faceva volare e la chiamava «la fidanzata mia», non fosse esistito. E invece câera, seduto in mezzo alla sua anima, a togliere il posto ai fratelli e alle sorelle, ad accompagnarla per tutta la giornata.
Maione si era legato a Ricciardi proprio in occasione della morte del figlio. Lâallora delegato di polizia era stato fra i primi ad arrivare sul posto. Con gentilezza aveva chiesto a Maione di allontanarsi dalla cantina dove era stato trovato il corpo del ragazzo, riverso in una pozza di sangue, il coltello che sporgeva dalla schiena. Era rimasto solo per alcuni minuti: quando era uscito dal buio gli occhi verdi sembravano illuminati da una luce interna, come quelli di un gatto, ma erano pieni di lacrime. Si era avvicinato a Maione. Nel silenzio dei presenti, imbarazzati di fronte allo strazio del padre, Ricciardi aveva allungato una mano e gli aveva stretto il braccio. Maione ricordava ancora lâinsospettata forza che aveva sentito, il calore di quella mano attraverso la stoffa della divisa.
«Ti voleva bene, Maione. Ti voleva bene da morire. Ti ha chiamato, come ultimo pensiero. Ti sarà vicino sempre, a te e a sua mamma».
Pur nella nebbia dellâimmenso dolore, Maione aveva sentito un brivido lungo la schiena e dietro la nuca. Non aveva chiesto, nĂ© allora nĂ© dopo, durante gli anni di appostamenti o nelle lunghe trasferte imposte dalle varie indagini, come Ricciardi sapesse, perchĂ© era stato proprio lui a recapitargli lâestremo messaggio del figlio amatissimo. Ma sapeva che era andata proprio cosĂ, che il delegato aveva detto quello che aveva visto e sentito, che non erano le solite parole di conforto che lui stesso aveva tante volte ripetuto ai parenti dei morti.
Si era legato allora, Maione a Ricciardi. Nei giorni terribili che seguirono, senza riposo nĂ© perdono, notti e mattine e pomeriggi e sere senza mangiare, senza bere, senza tornare a casa; a erodere il muro consolidato dellâomertĂ del quartiere, a scambiare informazi...