Proprio quella notte
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Proprio quella notte

Tobias Wolff, Laura Noulian

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  1. 240 páginas
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Proprio quella notte

Tobias Wolff, Laura Noulian

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Citas

Información del libro

Il lettore di buona memoria, voltata l'ultima pagina di questo libro, avrà voglia di sedersi e rilassarsi, ma dovrà immediatamente cambiare programma: si troverà inseguito da una piccola folla di ricordi davvero formidabili, e per molti giorni non avrà pace.
Comincerà dall'ultimo racconto, in cui un astioso intellettuale viene ucciso durante una rapina in banca, ma poco prima che la pallottola penetri nel cervello sfaldando il reticolo delle sinapsi, l'azione si ferma e s'immerge in un altro tempo, dilatato e lontanissimo, intinto nei colori dell'infanzia più profonda: poi la pallottola fa il suo dovere e tutto sparisce per sempre. Seguirà Catena, una delle punte dell'intera raccolta, che si apre con un padre intento a salvare la sua bambina dalla furia omicidia di un cane rabbioso, e si sviluppa disegnando una spirale thrilling inaspettata e violenta. Poi arriveranno tutte le altre storie, i paesaggi verde livido della guerra del Vietnam, quelli rosso scintillante dell'America dei tardi anni Cinquanta, le tinte enigmatiche e irrisolte in cui è virata la nostra contemporaneità.
Tobias Wolff incide i suoi racconti come se fossero piccoli poemi narrativi, e mette le parole in fila con l'aspra neutralità di un capitano coraggioso, e calmo, e lucidissimo. Il risultato è una collezione esemplare: quei rari casi in cui la cornice conquista lo sfondo, lo sfondo conquista i primi piani, e i primi piani conquistano - ferocemente - lo sguardo dei lettori.

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Información

Editorial
EINAUDI
Año
2013
ISBN
9788858409480

La vita del corpo

Una sera Wiley si sentí solo e prese l’auto per andare fino a un bar di North Beach il cui proprietario, anni prima, era stato un suo collega di scuola. Guardò la partita di pallacanestro in tivú, poi attaccò discorso con la tipa seduta accanto a lui. Era una veterinaria. Si chiamava Kathleen. Quando Wiley ne ripeté il nome calcando l’accento irlandese, lei gli sorrise. Aveva le lentiggini e gli occhi erano verdissimi, «come i campi d’Irlanda», le disse lui, e lei rise, gettando indietro la testa e decidendo – lui se ne accorse, lo vide accadere – di lasciare che le cose facessero il loro corso. Kathleen era un po’ brilla. Parlando lo toccava, gli toccava il polso, la mano, una volta persino la coscia, per sottolineare ciò che andava dicendo e convincerlo delle sue ragioni. Wiley era sempre d’accordo, ma non sentiva ciò che lei gli stava dicendo. Nelle orecchie aveva un rombo impetuoso.
L’uomo con cui era venuta Kathleen, un tipo basso, col viso rosso, la barba, e un giubbotto da safari, la ascoltava tenendosi in mano gli occhiali, meditabondo. Di tanto in tanto le lanciava un’occhiata, studiandole la schiena. Poi tornava a fissare i propri occhiali. Wiley ci teneva a conservare tutto su un piano amichevole, cosí si protese e guardò il tipo finché i loro occhi non si incontrarono, e a quel punto alzò il bicchiere accennando un saluto. L’uomo restò a bocca aperta come un pesce. Infilzò Wiley con un dito e gridò qualcosa di incomprensibile. Kathleen si girò e lo prese per un braccio. A quel punto arrivò il barista. Si stava asciugando le mani con un canovaccio. Si allungò oltre il banco e si mise a parlottare con Kathleen e il bassetto, mentre Wiley li osservava con aria d’incoraggiamento.
– Che problema c’è? – disse Wiley. – Va tutto bene.
Il bassetto scrollò il braccio per liberarsi della stretta di Kathleen. Kathleen si girò a guardare Wiley e disse: – Zitto, tu.
Il barista annuí. – Per favore, stia calmo, – disse.
– Ehi, aspetti un minuto, – disse Wiley.
Il barista lo ignorò e riprese a parlottare con gli altri due. Wiley non riuscí a capire tutto, ma lo sentí comunque dire che lui, Wiley, aveva bevuto forte per tutta la sera e che era meglio non dargli peso.
– Perbacco! – esclamò Wiley. – Aspetti un attimo. Io son qui che converso tranquillamente con la mia vicina e tutto a un tratto quel Napoleone mi dichiara guerra. E pretendete pure di dire che è colpa mia!
– Signore, l’ho pregata di fare silenzio.
– Dovreste buttarlo fuori, – disse il bassetto.
– È quello che stavo per fare.
– Non posso credere alle mie orecchie, – disse Wiley. – Volete cacciarmi? Non sapete che sono un vecchio caro amico di Bob?
– Il signor Lundgran stasera non c’è.
– Questo lo vedo. Gli occhi ce l’ho. Ma il punto è che se Bob fosse qui... – Wiley si interruppe. I tre lo stavano guardando come se fosse un perfetto imbecille, il piccoletto poi faceva cosí il superiore che non era nemmeno piú seccato. Wiley dovette ammettere fra sé e sé che in effetti stava facendo proprio la figura dell’imbecille – cosa gli era venuto i mente di tirare fuori il nome del proprietario? Dio Santo! Un ex professore di algebra. – Sapete, ho molti amici importanti, – disse, cercando di buttare tutto sullo scherzo. Loro invece pensarono che dicesse sul serio. – Su, via, rilassatevi, – disse Wiley.
– Sono sicuro che il signor Lundgran sarà felice di provvedere personalmente al suo conto, – disse il barista. – Se poi intende protestare, lo troverà qui domani pomeriggio.
– Non dirà mica sul serio? Davvero vuole buttarmi fuori?
Il barista considerò la domanda. Poi disse: – Al momento, siamo ancora allo stadio di una formale richiesta.
– Ma è ridicolo!
– La invito cortesemente a lasciare il locale di sua spontanea volontà, signore. Gliene sarei davvero molto grato.
– Ma è assurdo! – disse Wiley, rivolto piú a se stesso che al barista, dietro la cui studiata gentilezza Wiley non poté fare a meno di intuire la possibilità di un competente passaggio alle vie di fatto. Ma che fosse dannato se si lasciava mettere fretta! Finí il suo whisky e posò il bicchiere sul banco. Scivolò giú dallo sgabello, piegò la testa verso Kathleen, la ringraziò con tono grave per il piacere della sua compagnia. Attraversò la stanza con molta dignità e uscí, badando di non sbattere la porta.
Cadeva una pioggerellina fredda e leggera. Wiley restò sotto la tenda del bar e invano aspettò che spiovesse. C’era un altro locale dal lato opposto della strada, da lí uscí una rumorosa risata di donna; gli vennero in mente dei denti sporchi di rossetto, una lingua rosa che leccava i baffi color crema lasciati da una birra White Russian. Si piegò in quella direzione, spingendo in avanti la testa come faceva quando coglieva certi odori nell’aria: curry, caffè bollente, pane fresco. Poi alzò il bavero della giacca e si avviò su per la strada in salita, verso il garage dove aveva lasciato l’auto. Quando arrivò all’angolo, si fermò. Non poteva andare a casa adesso, non cosí. Doveva impedire che nella mente di Kathleen restasse un’immagine cosí assurda di lui. Era importante che lei sapesse la verità, che non lo prendesse per un ubriacone, un chiacchierone qualunque, di quelli che vengono cacciati dai bar. Perché lui non lo era. Era la prima volta che gli capitava una cosa del genere.
Attraversò la strada e tornò indietro, scendendo verso l’altro bar. Due donne erano sedute in un angolo insieme a tre uomini. Quella che Wiley aveva sentito ridere continuava a sganasciarsi. Appena qualcuno diceva qualcosa, lei giú altre risate. Erano tutti e cinque sulla cinquantina, dei turisti, a giudicare dall’aspetto, gli unici clienti del locale. Wiley ordinò un whisky e andò a sedersi a un tavolo vicino alla vetrina dove poteva tenere d’occhio il bar da cui poco prima era stato invitato a uscire.
Non gli era mai capitato niente di questo genere. Wiley insegnava inglese presso un liceo privato. Viveva da solo. Non frequentava molto i bar e quasi mai beveva whisky. Gli piaceva il buon vino, se ne intendeva un po’, ma stava ben attento a non intendersene troppo. La sera, dopo avere preparato le sue lezioni, beveva un paio di bicchieri e leggeva romanzi dell’Ottocento. Non gli piaceva la narrativa moderna, col suo narcisismo, la sua titubanza morale, il suo silenzio davanti alle grandi ingiustizie. Wiley aveva cominciato a insegnare per mantenersi intanto che scriveva la tesi di laurea, e poi aveva perso interesse per lo studio a mano a mano che cominciava a percepire il potere implicito nella sua posizione d’insegnante. I suoi studenti erano ancora tanto giovani da non essere stati sedotti dalle bugie di cui si ammantava il mondo; avrebbe potuto cambiare il loro modo di guardare la realtà.
Wiley si immergeva nei suoi romanzoni fino a tarda notte e spesso dormiva solo poche ore, ma in nove anni non aveva mai perso un giorno di lavoro; quand’era mattino, si buttava giú dal letto proprio all’ultimo minuto e guidava fino a scuola armeggiando coi bottoni, a stomaco vuoto, col caffè che sciabordava nella tazza che stringeva fra le ginocchia.
A Wiley non piaceva vivere solo. Avrebbe voluto sposarsi, ed era stato sempre convinto che a questo punto della sua vita lo sarebbe stato, ma non aveva avuto fortuna con le donne. L’ultima lo aveva scaricato dopo quattro mesi. Si chiamava Monique. Era una francese venuta a insegnare nel loro liceo nel quadro di certi scambi culturali, una parigina alta e spigliata che umiliava i ragazzi scimmiottando il loro stupido accento, e le ragazze eclissandole con la sua femminilità. Portava gli occhiali da sole persino quando andava al cinema. Le labbra di un rosso pieno erano abitualmente increspate. Wiley imparò che quell’increspatura delle labbra denotava una prontezza non alla passione ma al disprezzo, almeno per quanto riguardava lui. Dopo che Monique ebbe letto Il giovane Holden la sua insoddisfazione si insediò nella parola «fasullo». Wiley non capiva perché Monique stesse con lui. A volte pensava che fosse per via della sua parlantina; a Wiley piaceva parlare, e parlava bene, e Monique era negli Stati Uniti per migliorare il suo inglese. Ma le ragioni di lei restavano misteriose. Lo lasciò di punto in bianco, senza averle mai chiarite.
Wiley si era già scolato due whisky e ne aveva appena ordinato un terzo quando Kathleen e il bassetto uscirono dal bar. Si fermarono sulla soglia a guardare la pioggia, che adesso cadeva piú forte. Erano là in piedi, a una certa distanza l’uno dall’altro, non parlavano e guardavano la pioggia gocciolare dalla tenda del bar. Poi lei si frugò nella borsetta e disse qualcosa al suo compagno. Lui si tastò le tasche della giacca. Lei frugò di nuovo nella borsetta, infine entrambi incassarono la testa fra le spalle e si avviarono su per la salita. Wiley si alzò di botto, rovesciando la sedia. La rialzò e uscí dal bar.
Doveva galoppare ma non era facile. I piedi continuavano a farlo andare a zig zag. Si piegò in avanti, obbligandoli a seguirlo. Arrivò all’angolo e gridò: – Kathleen!
Kathleen era sull’angolo opposto. Il bassetto la precedeva di alcuni passi, curvo sotto la pioggia. Si fermarono entrambi e si girarono a guardare Wiley. Lui attraversò la strada e li raggiunse. Disse: – Io ti amo, Kathleen –. Restò sorpreso sentendosi dichiarare questo, e poi proseguire, mentre saliva sul marciapiede, dicendo: – Vieni a casa con me –. Kathleen era diversa da come se la ricordava. Anzi, quasi non la riconosceva. Lei si mise una mano sulla bocca. Wiley non riuscí a capire se fosse scioccata o spaventata o cosa. Forse stava ridendo. Lui sorrise con aria stupida, confuso perché era qui e per quello che aveva detto, incerto su cosa altro dire. Poi il bassetto la superò di scatto e Wiley sentí un colpo sulla guancia e la testa gli schizzò indietro, e subito dopo l’aria gli uscí tutta dai polmoni con un sibilo e lui si piegò in due, stringendosi lo stomaco, incapace di respirare o di parlare. Ricevette un altro colpo dietro le ginocchia e cadde in avanti, contro lo spigolo del marciapiede. Vide una scarpa venire verso la sua faccia e cercò di allontanare la testa ma egualmente non riuscí a evitare un nuovo colpo appena sopra l’occhio. Sentí Kathleen urlare e poi la scarpa lo colpí sulla bocca. Rotolò via e si coprí la faccia con le mani. Kathleen continuava a urlare: – No Mike No Mike No Mike No! – Wiley sentí altri colpi sulle spalle e sulla schiena. Un dolore sordo, lontano, che durò un po’, poi cessò.
Restò sdraiato dov’era, non fidandosi del silenzio, temendo che se si muoveva tutto sarebbe ricominciato daccapo. Ma alla fine si tirò su, e restò carponi sul marciapiede. C’era un paio di occhiali rotti in mezzo alla strada, luccicavano sull’asfalto bagnato, e vederli esattamente da questa angolatura, cosí vicini, cosí famigliari, cosí perfettamente parte di tutto quello che gli era accaduto, gli diede il senso di un completo annichilimento; e sapeva che mai avrebbe potuto dimenticare questa scena, lui lí bocconi, e i frammenti dei suoi occhiali tutt’intorno. La pioggia cadeva senza rumore. Si accorse di stare piangendo, e smise; erano dei singhiozzi teatrali, fasulli. Il labbro inferiore gli pulsava. Se lo leccò. Era gonfio, e sapeva di sale e di cuoio.
Wiley si alzò in piedi, appoggiandosi al muro del palazzo. Due uomini stavano venendo verso di lui e parlavano fra loro, tutti eccitati. Ebbe paura che si fermassero ad aiutarlo, facendogli mille domande. E se chiamavano la polizia? Non aveva alcuna giustificazione per il suo stato, nessuna spiegazione. Wiley stornò il viso. I due uomini gli passarono davanti come se lui non fosse lí, o come se appartenesse a quel luogo e piantato lí contro il muro rientrasse perfettamente fra i comuni arredi stradali.
Casa. Doveva andare a casa. Wiley si staccò dal muro e cominciò a camminare. Fu sorpreso di riuscire a camminare straordinariamente bene. La testa era limpida, i piedi saldi. Si sentiva pieno di vita, persino giubilante, come qualcuno che ha rischiato forte ed è riuscito a farla franca. Leggero e tranquillo. Questa sensazione durò per quasi tutto il tempo del ritorno a casa, in auto, ma poi si dileguò; quando Wiley raggiunse il suo appartamento, si sentiva debole e infreddolito, e prostrato dai brividi della febbre.
Andò dritto in bagno e accese le luci. Il labbro inferiore era tagliato e sanguinava, aveva preso un colore viola acceso, ed era gonfio come una salsiccia. Wiley aveva un altro taglio sopra il sopracciglio sinistro, e la pelle era sbucciata fino all’attaccatura dei capelli. Il mento era sporco di sangue e chiazzato di sporcizia. Sullo zigomo stava comparendo un gran livido. Mio Dio, pensò, guardandosi allo specchio. E sentí una grande tenerezza per l’essere dietro quella lurida maschera, come se non fosse la sua faccia ma quella di un bambino maltrattato. Si toccò i punti dove era ferito. La pelle sbucciata gli restò appiccicata alla punta delle dita.
Wiley fece un lungo bagno e cercò di dormire, ma ogni volta che chiudeva gli occhi avvertiva come una presenza maligna nella camera. Nonostante il bagno, continuava a sentire freddo fin nelle ossa. Si alzò e andò di nuovo a guardarsi allo specchio, sperando di trovare qualche miglioramento. Si ispezionò il volto, poi si preparò un bricco di caffè e passò il resto della nottata al tavolo della cucina, contemplando con sguardo vacuo un libro. Alla fine si addormentò lí, sulla sedia, tutto storto da un lato, il mento sul petto.
Quando suonò la sveglia, Wiley si svegliò e si preparò per andare a scuola. Non gli venne in mente nessuna ragione plausibile per non andare salvo l’imbarazzo; e siccome altri insegnanti avrebbero dovuto sostituirlo nelle loro ore libere, quella non sembrava una ragione sufficiente per non andare. Non pensò minimamente all’effetto che il suo aspetto poteva provocare. Quando i primi studenti lo videro nel corridoio di scuola e cominciarono a interrogarlo, Wiley si accorse di non avere preparato alcuna risposta. Un ragazzo gli domandò se l’avevano assalito dei teppisti.
Wiley annuí, pensando che in fondo era vero.
– Dovevano essere almeno dieci quei balordi, eh?
– No, non erano cosí tanti, – disse Wiley, e se ne andò. Si infilò subito nella sua aula anziché fermarsi in sala professori, ma era seduto dietro la cattedra nemme...

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