Come Dio comanda
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Come Dio comanda

Niccolò Ammaniti

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  1. 560 páginas
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Come Dio comanda

Niccolò Ammaniti

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Rino ha trentasei anni, è ostinato, violento e xenofobo, ma adora suo figlio. Cristiano ha tredici anni, è timido, alto e sottile, e sa che quel padre ubriacone è la sola persona su cui può contare. Vivono in una periferia del Nord-est, tra desolazione e centri commerciali. Soli contro il mondo, hanno per amici due tipi poco raccomandabili, Quattro Formaggi e Danilo. È con questi che Rino programma la rapina che dovrà riscattare le loro vite: scassinare un bancomat con l'aiuto di un trattore. La notte del colpo, però, si scatena un furioso temporale, e una ragazzina bionda apparsa dalle tenebre e dal fango fa deviare i destini di tutti. *** «I barboni sono i piú liberi del mondo e muoiono congelati sulle panchine dei parchi. La libertà è una parola che serve solo a fottere la gente. Sai quanti stronzi sono morti per la libertà e nemmeno sapevano che cos'era? Sai chi sono gli unici ad averla? La gente che ha i soldi. Quelli sí... - rimase in silenzio a rimuginare e poi poggiò la mano sul braccio del figlio. - Vuoi vedere qual è la mia libertà? Cristiano fece sí con la testa. Rino tirò fuori da dietro la schiena una pistola. - Questa signorina qui di cognome fa libertà e di nome fa 44 Magnum».

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Información

Editorial
EINAUDI
Año
2015
ISBN
9788858418512
Categoría
Literature

La notte

Improvvisamente stava facendosi così buio che Alice pensò si stesse avvicinando un temporale. – Che nube densa e nera! – disse. – E com’è veloce! Diamine, sembra che abbia le ali!
LEWIS CARROLL, Al di là dello specchio.
60.
La danza del terrore cominciò alle ventidue e trentasei, quando un fronte temporalesco, incagliato da giorni tra le cime delle montagne, fu liberato da una corrente siberiana che lo spinse verso meridione.
La mezza luna che pendeva al centro di un cielo terso e ricamato di stelle in meno di dieci minuti fu imbavagliata da una coltre di nuvole scure e basse.
Il buio calò di colpo sulla pianura.
Alle ventidue e quarantotto fragori di tuoni, saette e sbuffi di vento aprirono i balli di una lunga notte di tempesta.
Poi cominciò a piovere e non smise piú.
Sarebbero bastati un paio di gradi in meno e avrebbe nevicato e forse il resto di questa storia sarebbe andato diversamente.
Le strade si svuotarono. Le imposte si serrarono. I termostati si regolarono. I camini si accesero. Le parabole, sui tetti, presero a scricchiolare e il derby Milan-Inter cominciò a scomporsi in quadratoni e la gente imbestialita si attaccò ai telefoni.
61.
Mentre il temporale infuriava sulla villetta della famiglia Guerra, Fabiana Ponticelli era stesa sul letto di Esmeralda in mutande e reggipetto e si osservava i piedi poggiati sul muro.
Forse era colpa dell’erba, ma da quella posizione erano identici a due filetti di platessa.
Cosí bianchi, sottili e lunghi. E vogliamo parlare delle dita? Scheletriche, cosí distanziate una dall’altra…
Tali e quali a quelli di suo padre.
Da quando era piccola aveva sempre sperato di essere la figlia segreta di un riccone americano che un bel giorno l’avrebbe portata a vivere a Beverly Hills, ma quei piedi valevano piú di mille prove del Dna.
L’estate precedente i Ponticelli erano andati al villaggio Valtur di Capo Rizzuto e un ragazzo di Firenze, assai carino e parecchio stronzo, sulla spiaggia, le aveva fatto notare che aveva i piedi uguali a suo padre.
La consolazione di Fabiana era che quella era l’unica somiglianza fisica col padre e poteva essere nascosta nelle scarpe.
Forse ci posso mettere lo smalto.
Esmeralda, in bagno, ne aveva una collezione di tutti i colori.
Ma solo all’idea di tirarsi su, alzarsi, mettersi a cercare quello giusto le passò la voglia.
Intanto, alla radio, Bob Dylan attaccò a cantare Knockin’ on Heaven’s Door.
– Mi piace questa canzone… – sbadigliò Fabiana.
– È un capolavoro, – disse Esmeralda Guerra, seduta a gambe incrociate sulla scrivania. Anche lei era in reggipetto e mutande. Con la brace della canna faceva dei buchi sulla testa di una vecchia bambola, producendo un fumo nero e tossico che si mescolava a quello delle sigarette e dell’incenso che bruciava sul comodino tra cataste di riviste di moda.
– Chi la canta? – Fabiana girò lentamente la testa e vide che sul televisore muto c’era un film di una rapina che aveva già visto, con quell’attore famoso…
Al…? Al…? Al qualcosa.
– Uno famoso. Degli anni Ottanta… Mia madre ha il disco.
– Ma che significano le parole?
Èven significa paradiso. Dor, porta. La porta del paradiso.
– E nòcchin?
L’amica lanciò la bambola nel cestino e ci pensò un po’ troppo.
Non lo sa, si disse Fabiana.
Esmeralda raccontava di essere mezza inglese perché da piccola era stata in California, ma quando le chiedevi il significato di una parola un po’ piú complicata di window non c’era verso che la sapesse.
Sentiamo che stronzata spara… – Allora? Che vuol dire?
– Vuol dire conoscendo… conoscendo la porta del paradiso.
– E dopo?
Esmeralda ascoltò a occhi chiusi la canzone e poi fece, seria: – Dice che conoscendo la porta del paradiso è facile trovarla. E quando la trovi ci puoi portare anche tua madre anche se è molto buio… Una roba cosí, insomma.
Fabiana prese un cuscino e se lo mise sotto la testa. – Certo, però, che canzone idiota.
Se lei avesse aperto una porta e ci avesse trovato il paradiso compreso di nuvolette e angeli svolazzanti probabilmente non ci sarebbe andata. E di sicuro non con sua madre.
Forse devo mettere la testa sotto al rubinetto. Si sentiva gli occhi gonfi come chicchi d’uva e il cranio pesante come se fosse pieno di ghiaia. Tutta colpa di quel limoncello giallo e dell’erba di un certo Manish Esposito, un amico della madre di Esmeralda che viveva in una comunità di arancioni vicino a Santa Maria di Leuca.
Esmeralda sbadigliò un: – Ci facciamo un bagno?
– Cosa?
– Un bagno. Ho un bagnoschiuma buonissimo al mughetto.
Non era una cattiva idea. Ma che ore erano? Fabiana guardò il grosso orologio a forma di bottiglia di Coca-Cola appeso sopra la testata del letto.
Le dieci e tre quarti.
Erano chiuse in quella stanza da almeno otto ore.
Ci stiamo seppellendo vive.
All’inizio le era sembrato un progetto interessante.
La Gran Chiusa.
Cosí l’avevano chiamata.
Rimanere barricate in camera a vedere Dvd, farsi canne, bere e mangiare tutta la domenica.
Meglio sole che con quella banda di morti che vegetavano dentro un centro commerciale e si risvegliavano solo per menare le mani. L’avevano deciso dopo che quel deficiente di Tekken per poco non aveva gettato Zena giú dal ponte.
Chissà che diavolo gli era passato per la testa a quello lí di sfregiare la moto di Tekken… Ma cosa voleva fare? Se non fossero intervenute lei ed Esmeralda quelli lo avrebbero buttato di sotto.
Certo che aveva coraggio, Zena. Ma aveva anche un caratteraccio. Si offendeva subito. Non gli potevi dire niente.
Da un po’ ci pensava troppo, a Cristiano Zena.
– Allora?
Fabiana si girò verso l’amica. – Cosa?
– Ce lo facciamo questo bagno?
– Non posso, devo tornare a casa.
Aveva giurato al Merda, alias suo padre, che alle dieci e mezzo in punto sarebbe stata a casa.
La mattina dopo, alle otto e mezzo, saltando la prima ora di scuola aveva un appuntamento dal dentista per la solita visita di controllo.
Fabiana calcolò che anche se si muoveva in quel momento sarebbe stata comunque in ritardo. Ci metteva venti minuti buoni fino a casa. A quel punto tanto valeva prendersela comoda.
Fortuna che aveva spento il cellulare.
Il Merda doveva essere appena tornato da…
Dove era andato?
… e non vedendola a casa sicuramente le aveva intasato la segreteria telefonica.
62.
Rino aveva spento la televisione, fissava l’acquazzone che picchiava contro le finestre del soggiorno e cercava di capire che cosa lo avesse spinto a vedere quel film. Lo conosceva a memoria, lo aveva visto almeno un paio di volte, eppure non era riuscito a scollarsi dallo schermo.
Quel pomeriggio di un giorno da cani. Con Al Pacino. Il suo attore preferito insieme a Robert De Niro. Se un giorno avesse incontrato quei due per strada si sarebbe inchinato e avrebbe detto: «Siete due grandi e avrete sempre il rispetto di Rino Zena».
Riuscivano a raccontare la vita di merda della gente comune come nessun altro.
Ma quella sera non avrebbe dovuto vedere quel film. Al Pacino entrava in una banca per fare una rapina e la cosa si trasformava in una strage.
Aveva capito che il colpo al bancomat era una cazzata. Una cazzata gravissima che avrebbe pagato per il resto dei suoi giorni.
E anche se la ragione gli suggeriva che quel diluvio era una botta di culo (in giro non ci sarebbe stata un’anima), lo stomaco gli diceva che quel film trasmesso da Rete 4 esattamente due ore prima del colpo era un segno mandato dal Signore per dirgli di lasciar perdere.
Ora continuava a pensare al piano e la mente gli s’impantanava in immagini di sangue e morte. Erano proprio i colpi cosí, all’apparenza sicuri e modesti, che si trasformavano d’improvviso in massacri.
Ma che, sei matto…?
Quante ne aveva lette sui giornali di rapine agli autogrill, di furti d’auto che erano finiti in stragi. Ci scommetteva il culo che arrivavano là con il trattore belli belli e da ogni pizzo sbucavano poliziotti.
Ma come ho fatto a lasciarmi mettere in mezzo da Danilo? Le certezze di Danilo valgono meno di una scorreggia.
Se le cose andavano storte c’era la galera. E pure pesante. Minimo minimo un paio d’anni.
E se lo sbattevano dentro Cristiano finiva in un istituto o in affido fino alla maggiore età.
E poi quanti cazzo di euro ci potevano essere mai in un bancomat? Senza contare che andavano anche divisi per tre…
Spiccioli.
Doveva solo farsi coraggio e chiamare Danilo e dirgli che mollava.
Non la prenderà bene.
Quando, tornando a casa dalle Frecce Tricolori, gli avevano detto che era deciso per quella sera, per poco dalla gioia non si era messo a piangere.
Ma che me ne frega!
Era un piano troppo idiota e lui era stato a sentire Danilo solo perché non aveva niente da fare dalla mattina alla sera. E se Danilo ci teneva veramente poteva sempre farlo con Quattro Formaggi. Anzi no, neanche con Quattro Formaggi.
Si trovasse qualcun altro.
Fortuna che era ancora in tempo per tirarsi fuori.
E se invece quel presentimento non fosse stato nient’altro che paura? E se non avessi piú i coglioni?
Si girò a guardare Cristiano che dormiva rannicchiato sul divano.
Può essere. E allora?
Fece per prendere il telefono e chiamare Danilo...

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