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Censura e cultura italiana in età moderna

Giorgio Caravale

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Censura e cultura italiana in età moderna

Giorgio Caravale

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Nell'Italia della Controriforma la censura ha svolto un ruolo fondamentale e dalle enormi conseguenze sulla cultura e l'identità del nostro paese. Tenendo insieme in un unico grande affresco dotti e 'senza lettere', letteratura e arte, scienza e filosofia, politica e teologia, questo libro analizza a tutto tondo le modalità di controllo del pensiero e delle sue espressioni scritte e orali con una ricerca innovativa destinata a rappresentare a lungo un caposaldo della nostra storiografia.

Nei secoli racchiusi tra l'invenzione della stampa e la nascita del diritto d'autore anche gli uomini e le donne più illuminati credevano nella necessità di sorvegliare la circolazione libraria e reprimere le idee considerate dannose per la società. Cosa distinse il sistema di censura romano dai meccanismi di controllo vigenti in altre parti d'Europa? E, soprattutto, in che modo la censura ecclesiastica influì sugli sviluppi della cultura italiana nel corso dell'età moderna? Tenendo insieme in un unico grande affresco dotti e 'senza lettere', letteratura e arte, scienza e filosofia, politica e teologia, questo libro restituisce la voce ai tanti attori che animarono la scena culturale della penisola italiana. Ricostruisce gli strumenti con cui Roma cercò di impedire la diffusione dei libri ritenuti pericolosi e allo stesso tempo gli stratagemmi con cui autori, stampatori e lettori cercarono di aggirare tali controlli. La censura fu eliminazione, soppressione, cancellazione, ma anche sostituzione, restituzione, riscrittura. Il successo della politica religiosa e culturale della Controriforma passò anche per la capacità di restituire ai fedeli una serie di testi atti a sostituire i libri non più disponibili. Il libro scomparve e poi ricomparve sotto forme diverse, lontane ma non del tutto nuove rispetto al loro aspetto originario.

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Información

Año
2022
ISBN
9788858148686
Categoría
Storia
Categoría
Storia moderna

XVI.
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1. Negoziazioni cinquecentesche

La riscrittura di un testo è spesso frutto di un dialogo, più o meno aspro, più o meno franco, tra l’autore e i detentori del potere. In alcuni casi l’impulso alla negoziazione origina dagli scrupoli dell’autore, in altri dallo zelo dei tutori dell’ortodossia. Il 9 luglio 1753, con la costituzione Sollicita ac provida, Benedetto XIV stabilì che gli autori cattolici dovevano essere messi in condizione di difendersi dalle accuse mossegli da parte degli organi censori romani1. Secondo papa Lambertini, prima di vedere il loro nome inserito nell’indice dei libri proibiti, gli autori di provata fede cattolica dovevano poter esercitare il diritto di dimostrare la bontà delle proprie idee ovvero, se questo non era il caso, di correggere e riscrivere i loro testi secondo le indicazioni delle due congregazioni (Indice e Inquisizione) preposte al controllo della circolazione libraria. A queste spettava dunque, secondo la costituzione pontificia, il compito di favorire un confronto ravvicinato con lo scrittore indiziato: l’intenzione di condannare un’opera doveva essere notificata al suo autore contestualmente all’opportunità di redenzione offertagli da Roma. Fino alla metà del Settecento, fino a che Benedetto XIV non sovvertì l’onere della prova, furono gli autori a cercare un contatto con le congregazioni romane, per porre rimedio a una condanna appena formulata, solitamente una proibizione donec corrigatur, o per prevenire un’imminente decisione a loro sfavorevole. Spesso l’autore si metteva in contatto con i censori, direttamente o tramite interlocutori affidabili, al fine di conoscere gli errori da questi individuati e ottenere l’autorizzazione ad eseguire personalmente la correzione suggerita. Una volta valutata la serietà della richiesta, Roma accordava l’eventuale permesso, trasmettendo all’autore un riassunto delle relazioni di censura presentate dai consultori dell’Indice oppure, più direttamente, un elenco dettagliato dei luoghi da emendare. Una volta corretto il testo secondo le indicazioni della Congregazione, l’autore lo sottoponeva ai censori romani per ottenere l’approvazione finale. L’esito positivo della contrattazione non era per nulla scontato. Le variabili che intervenivano nel corso di un lungo e articolato procedimento erano molte e in larga parte imprevedibili. Il successo dell’operazione dipendeva dallo status sociale dell’autore, dall’autorevolezza dei suoi protettori, dalla fama dell’opera sotto osservazione, dalla reputazione del suo autore, dagli orientamenti e dagli equilibri interni della Congregazione, dalla buona (o cattiva) predisposizione degli interlocutori incaricati di gestire il dialogo con l’autore. Molto era legato anche alla disponibilità di quest’ultimo a ritrattare le proprie affermazioni assecondando la volontà degli organi censori romani. A volte, poi, neppure la totale abnegazione dell’autore risultava sufficiente per evitare la proibizione dell’opera. La disponibilità al dialogo mostrata inizialmente da uno o più membri della Congregazione poteva infatti essere smentita nel corso della trattativa da più rigide posizioni assunte dagli altri componenti: gli equilibri politici in seno alla Congregazione e fuori di essa potevano mutare velocemente, favorendo o ostacolando il buon andamento della trattativa.
Il numero di queste negoziazioni informali aumentò con il passare dei decenni raggiungendo il suo picco nel corso del Seicento. L’alto tasso di eretici conclamati – da Lutero a Calvino, da Zwingli a Butzer, da Melantone a Gesner – e di autori da tempo defunti – da Petrarca a Machiavelli, da Boccaccio a Dante – presente nei primi indici dei libri proibiti fece sì che, almeno in una prima fase, il numero di autori viventi in condizione di interloquire, per reputazione e per rete di rapporti, con i vertici romani, avviando una negoziazione sul destino delle loro opere, rimanesse esiguo. Con il passare dei decenni quel rapporto numerico all’interno degli indici dei libri proibiti si invertì: dopo anni di sequestri e roghi il numero di testi ereticali circolanti nei confini della penisola italiana diminuì progressivamente, consentendo agli organi censori di riformulare la lista delle priorità: l’obiettivo principale dell’Indice non fu più quello di difendersi da una minaccia esterna, bensì quello di rafforzare e meglio definire i confini dell’ortodossia dottrinale e della morale cattolica. La censura diventò sempre più materia di scontri interni tra ordini religiosi e poteri istituzionali confliggenti e gli indici dei libri proibiti si riempirono di titoli cattolici il cui destino rimase legato ai mutevoli rapporti di forza interni alla Curia romana. Le occasioni di contrattazione tra autori e censori aumentarono, anche se la percentuale di esiti positivi rimase bassa: a prevalere, tranne casi eccezionali, fu la volontà delle due congregazioni di imporre la propria autorità su autori spesso riluttanti ad accogliere in toto le loro indicazioni.
Uno dei primi tentativi cinquecenteschi di negoziazione fu quello che vide protagonista il letterato fiorentino Giovan Battista Gelli, i cui Capricci del bottaio furono messi all’indice nel 1558. Il primo indice ufficiale romano non prevedeva, diversamente dagli indici successivi, la clausola donec corrigatur: tutti i libri contenuti nella lista risultavano automaticamente condannati omnino («del tutto»), senza alcuna apparente possibilità di redenzione2. L’accademico fiorentino, però, non si diede per vinto: si rivolse al vicario del luogo, Nicolò da Casteldurante, con il quale aveva «qualche familiarità», chiedendogli di intercedere per lui segnalando ai censori romani il suo dispiacere «di essere caduto inavertentemente in tal colpa di haver dato scandalo al mondo» e la sua pronta disposizione a «emendarsi». A Roma, secondo quanto gli riferì Nicolò da Casteldurante, il suo gesto di «humiliatione» fu apprezzato: non avendo però a disposizione alcuna censura o correzione da suggerire, le autorità censorie si riservarono di «porre mente» alla questione e di «dar[gliene] avviso». Impegnati a mettere a punto una macchina ancora poco efficiente, i censori romani non diedero seguito a quella promessa3. Solo quando la commissione tridentina incaricata di rivedere l’indice paolino e prepararne una meno severa versione si occupò nuovamente dei Capricci del bottaio prevedendo la possibilità di espurgarne il testo4, Gelli fu contattato da Ludovico Beccadelli, autorevole membro di quella commissione, che gli fece notificare la disponibilità dei «giudici benigni e amorevoli» a «liberarlo da questa nota» qualora egli si fosse mostrato a sua volta pronto a «correggere o scusare alcune delle cose che li sono in detto libro opposte come troppo licenziose contro le cerimonie della Chiesa»5. La risposta di Gelli fu entusiasta: si dichiarò pienamente disposto a «fare in quel modo che mi sarà imposto [...] senza [...] resistenza alcuna»6. Dopo aver ricevuto le censure proposte dalla commissione, Gelli si mise al lavoro sul testo promettendo di non risparmiarsi: «Andrò chiarendolo et correggendolo tutto secondo dette censure, et di più levando via se ei vi sarà parola alcuna che potessi dare scandolo a persona»7. I passi incriminati erano, come prevedibile, quelli in cui l’autore sottolineava difetti e manchevolezze del clero, esprimeva una concezione negativa, sempre peccaminosa, della natura umana, si accaniva contro la teologia scolastica e la sua pretesa di spiegare la fede attraverso la filosofia, oppure si lasciava andare a giudizi lusinghieri nei confronti dei protestanti, meritevoli a suo dire di aver costretto i cattolici ad abbandonare sterili disquisizioni teologiche tornando alla lettera dei testi sacri: di molti di questi passaggi i censori raccomandarono la soppressione8. Gelli raccontò di essersi concentrato su «quelle cose che io havevo parlato del purgatorio et delle indulgentie»; disse di aver levato «via al tutto», perfettamente consapevole che molte cose da lui scritte erano «tanto impie et contro a le determinationi et riti et cerimonie della Chiesa»9. Fece mostra di un profondo pentimento sottolineando tra l...

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