Le origini del teatro moderno
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Le origini del teatro moderno

Da Jarry a Brecht

Franco Perrelli

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Le origini del teatro moderno

Da Jarry a Brecht

Franco Perrelli

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I primi decenni del Novecento rappresentano per la storia del teatro un'epoca rivoluzionaria e scandalosa. Protagonisti di questa stagione straordinaria sono figure come Jarry, Strindberg, Craig, Appia, Stanislavskij, Marinetti, Mejerchol'd, Brecht e Artaud, per citarne solo alcuni.Il libro ricostruisce le teorie drammaturgiche elaborate in quegli anni, ne rievoca in dettaglio gli spettacoli più importanti e soprattutto mette in evidenza lo strettissimo legame tra regia e scenografia, aspetto quest'ultimo che spiega molti tratti anche del teatro contemporaneo.

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Información

1.
Con Cyrano e Ubu, verso il XX secolo
(1896-1900)

1. Invasione da Nord-Est

Alla fine del XIX secolo, Parigi continuava a essere ciò che era stata almeno dalla metà del Seicento: la capitale mondiale del teatro.
Il 28 dicembre 1897, in uno dei suoi circa cinquanta luoghi di spettacolo1, il popolare Théâtre de la Porte-Saint-Martin, specializzato in melodrammi e pièces a sfondo storico, andò in scena Cyrano de Bergerac del ventinovenne Edmond Rostand, un giovane autore marsigliese che si era da poco messo in mostra grazie alle interpretazioni della celebre attrice Sarah Bernhardt, la quale aveva dato qualche lustro ad alcuni suoi copioni. Questa volta, però, era l’attore e capocomico, transfuga dalla Comédie Française, Coquelin ainé, la forza trainante della «commedia eroica in cinque atti», il cui protagonista – abile spadaccino, poeta satirico e pensatore libertino – spuntava, pittoresco, dalla storia francese del XVII secolo, per scaricare sul palcoscenico eleganti duelli, un’impossibile passione per la cugina, la bella orfana Roxane, insidiata dal solito nobile vizioso, ma incline al belloccio quanto opaco cadetto Christian.
Rostand donava al suo pubblico versi rimasti famosi:
Un baiser, mais à tout prendre, qu’est-ce?
Un serment fait d’un peu plus près, une promesse
Plus précise, un aveu qui veut se confirmer,
Un point rose qu’on met sur l’i du verbe aimer...2.
Questa è forse la più proverbiale battuta di Cyrano, il quale, dotato dalla natura di un enorme naso, con intima pena, occulta il proprio genio e il proprio amore per Roxane, facendosi scudo dell’avvenenza di Christian. Nel gioco della sostituzione o travaso d’anima («Uniamo i benefici, / e facciamo un eroe da romanzo! / [...] Vogliamo farne insiem la conquista? / [...] tu la bellezza mia, il tuo cuore io sarò»)3, Christian riuscirà a guadagnare i favori della fanciulla. Solo dopo l’uccisione in battaglia del giovane e da un Cyrano ormai in punto di morte, Roxane, che nel frattempo si è ritirata in convento, apprenderà di avere amato lo spirito e la poesia di un uomo nelle armoniose fattezze di un altro: «Un essere solo amavo, e l’ho perduto / due volte!»4.
«La messinscena è stupenda – riportano le cronache dello spettacolo alla Porte-Saint-Martin. – Le scenografie e i costumi sono opulenti quasi quanto i versi, e non è poco»; Coquelin «non è mai stato più strabiliante che in questo ruolo magistrale di Cyrano, uno dei più sbalorditivi che esistano. [...] Dizione, gestualità, tutto è stato perfetto, trascinante, commovente, prodigiosamente lirico»5. Cyrano de Bergerac sollecitò un entusiasmo travolgente e oltre quattrocento repliche. Emile Faguet parlò del «più bel poema drammatico apparso negli ultimi cinquant’anni» e della degna inaugurazione dell’imminente XX secolo6.
Jules Lemaître, sulla «Revue des Deux Mondes» del 1° febbraio 1898, osservava più freddamente che, in fondo, l’«enormità» di tanto successo non era affatto «sovrannaturale». L’opera aveva i suoi meriti e capitalizzava con originalità spunti di almeno tre secoli di teatro francese, ma senza dubbio veniva incontro a una certa «stanchezza del pubblico e alla sua sazietà dopo tanti studi psicologici, storielle d’adulterio parigine, pièces femministe, socialiste, scandinave», dotate di un loro indubitabile valore morale e intellettuale, non inferiore a quello della «squisita romanzesca commedia» di Rostand, ma «di sicuro meno piacevoli e dalle quali, negli ultimi tempi, ci si sentiva un tantino sopraffatti»7.
Il sistema teatrale parigino era stato a lungo autosufficiente e per niente propenso ad aprirsi all’importazione di copioni stranieri8. Per di più, dopo la guerra franco-prussiana del 1870-71 e il trauma della Comune, il nazionalismo (rinfocolato dal caso Dreyfus) si era spesso affacciato anche sugli spalti della critica teatrale, tanto che – ricorda sempre Lemaître – ci si era perfino compiaciuti che Cyrano «fosse esploso come la fanfara» dell’esercito francese, dimostrando che, nel successo della commedia di Rostand, erano in gioco «sentimenti e istinti piuttosto estranei all’arte»9.
Chi erano allora i nemici della Francia? Chi mai i pericolosi invasori?
Già Lemaître lo fa intuire benissimo, ma chi li addita, con gagliarda indignazione, è il critico conservatore Francisque Sarcey, che su «Le Temps» del 3 gennaio 1898 inneggia a Cyrano: «Che gioia! che gioia! Finalmente ci sbarazzeremo delle nebbie scandinave, degli studi psicologici troppo minuziosi e delle deliberate brutalità del dramma realista. Ecco il lieto sole dell’antica Gallia che, dopo una lunga notte, rispunta all’orizzonte. Fa davvero piacere e fa buon sangue!»10.
Insomma, il nemico era costituito dai teatrini sperimentali naturalisti e poi simbolisti, che avevano aperto le porte di Parigi ai drammaturghi dell’Est e soprattutto del Nord Europa, avviando una contrastata moda culturale. I nemici del buon teatro francese di tradizione (che estendeva ancora capillarmente il proprio dominio commerciale su tutto il continente) erano stati, in larga parte, quei Révoltés Scandinaves – «anime complesse che si muovono nella luce speciale dei paesi del Nord» e che prendono tutto sul serio (persino l’emancipazione della donna) – cui Maurice Bigeon, nel 1894, aveva dedicato uno spesso volume11. A Parigi, a Henrik Ibsen («névrosé moral» animato da una creatività sorprendente), e, in seconda battuta, ad August Strindberg («genio che confinava con la follia», oscillando «fra misticismo e rivolta»)12 veniva altresì attribuita graziosamente l’etichetta di barbari, che «minacciavano di rivoluzionare le sane tradizioni francesi»13.
Il fenomeno della loro penetrazione – tutt’altro che una marcia trionfale – fra le élites culturali parigine (perché il sistema teatrale commerciale, nel suo complesso, ne risultò, nell’immediato, giusto tarlato, ma non certo messo in ginocchio e doveva se mai fare i conti con ben altri barbari indigeni come i music-halls in prepotente espansione)14 era stato significativamente pressoché simultaneo alla diffusione di certa filosofia tedesca (Schopenhauer, Nietzsche, Stirner) e della letteratura russa. I barbari avevano trovato una cassa di risonanza prima nel Théâtre Libre, fondato nel 1887 dall’autodidatta André Antoine e, successivamente, nel Théâtre de l’Œuvre, sorto nel 1893, per impulso di un suo collaboratore, Aurélien Lugné-Poe.

2. Nasce il laboratorio teatrale

Era stato senza dubbio André Antoine a smuovere, per primo e con vigore, l’autarchico repertorio nazionale, contestando la stagnante autoreferenzialità del teatro parigino, e, su quest’onda, aveva avviato il movimento delle cosiddette scene libere, che si sarebbe sviluppato presto in tutta Europa15.
Antoine avrebbe allestito, sin dal febbraio del 1888, La potenza delle tenebre di Lev Tolstoj con «un meraviglioso lotto di costumi autentici» e «veri oggetti russi»16. Sulla «Revue des Deux Mondes», si notò che, «per la prima volta, su una scena francese, s’erano visti una scenografia e dei costumi tratti dagli usi quotidiani della vita russa, senza abbellimenti da opéra-comique, senza quel gusto dell’ammiccante e del f...

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