Intervista sull'identità
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Intervista sull'identità

Zygmunt Bauman, Fabio Galimberti

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Intervista sull'identità

Zygmunt Bauman, Fabio Galimberti

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Lidentità è oggi come un vestito che si usa finché serve: sessuale o politica, religiosa o nazionale è precaria come tutto della nostra vita. Un libro scoppiettante di intelligenza e immaginazione di un maestro del pensiero contemporaneo.

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L’identità come problema

D. Nell’immaginario sociologico, l’identità è sempre qualcosa di evasivo e sfuggente, quasi un apriori. In Émile Durkheim, ad esempio, le identità collettive restano sempre sullo sfondo, ma indubbiamente nel suo libro più famoso, La divisione del lavoro sociale, la divisione del lavoro è un fattore contraddittorio. Da un lato mette a rischio i legami sociali, ma al tempo stesso agisce come fattore di stabilizzazione nella transizione che prepara la creazione di un nuovo ordine sociale. Tuttavia, in questo quadro analitico, l’identità è da considerarsi un obiettivo, uno scopo, piuttosto che un fattore predefinito. Qual è la Sua opinione?
R. La stessa Sua. Sì, in effetti, la «identità» ci si rive­la unicamente come qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto; come il traguardo di uno sforzo, un «obiettivo», qualcosa che è ancora necessario costruire da zero o selezionare fra offerte alternative, qualcosa per cui è necessario lottare e che va poi protetto attraverso altre lotte ancora, anche se questo status precario e perennemente incompleto dell’identità è una verità che, se si vuole che la lotta vada a buon fine, dev’essere – e tende a essere – soppressa e laboriosamente occultata.
Oggi questa verità è più difficile da nascondere di quanto non lo fosse al principio dell’età moderna. Le entità più determinate a realizzare tale occultamento hanno perso interesse; hanno abbandonato il campo di battaglia e sono fin troppo felici di lasciare a noi, singoli uomini e donne, la fastidiosa incombenza di trovare e costruire un’identità, e di realizzare questo compito singolarmente o a piccoli gruppi, piuttosto che congiuntamente... La fragilità e lo status di perenne provvisorietà dell’identità non possono più essere celati. Il segreto è di dominio pubblico. Ma questo è uno sviluppo nuovo, abbastanza recente.
Mi domando perciò se sia giusto chiedere ai padri spirituali della sociologia, che si tratti di Weber o di Durkheim, o anche di Simmel (quello, tra tutti loro, che ha saputo vedere più in là, anticipare i tempi futuri), indicazioni su cosa e come pensare riguardo a una questione che è entrata di prepotenza e si è installata stabilmente nella nostra coscienza comune molto tempo dopo la loro morte... Tutti loro erano impegnati a dialogare con i problemi, le preoccupazioni e le inquietudini degli uomini e delle donne della loro epoca (e nella profondità, scrupolosità e dedizione di questo impegno sta la loro autentica grandezza e il loro più importante lascito per la sociologia posteriore): tra queste inquietudini l’identità non figurava. Suppongo che se avessero potuto rivolgere il loro sguardo, così acuto e penetrante su tutte le grandi questioni della loro epoca, sul tipo di società che sarebbe sorto quasi un secolo dopo – la nostra società – avrebbero considerato il subitaneo apparire del «problema dell’identità» nei dibattiti specializzati e nella coscienza comune un rompicapo sociologico tra i più intriganti.
E un rompicapo, nonché una sfida per la sociologia, lo è davvero: basti pensare che ancora pochi decenni fa l’«identità» non era neanche lontanamente al centro dei nostri pensieri, non era altro che un oggetto di meditazione filosofica. Oggi invece l’«identità» è la questione all’ordine del giorno, argomento di scottante attualità nella mente e sulla bocca di tutti. Più che l’identità in sé e per sé, sarebbe stata questa fascinazione repentina per l’identità che avrebbe attirato l’attenzione dei classici, se essi avessero vissuto abbastanza a lungo da confrontarcisi. Avrebbero probabilmente preso spunto dall’affermazione di Martin Heidegger (non erano già più tra noi quando il filosofo tedesco la enunciò): ci si accorge delle cose, ponendole sotto la lente della contemplazione, quando esse svaniscono, vanno in rovina, iniziano a comportarsi stranamente o ti deludono in qualche altro modo...
Poco prima dello scoppio dell’ultima guerra mondiale, nel mio paese natale, la Polonia, venne condotto un censimento della popolazione. La Polonia era allora una società multietnica. Alcune zone del paese erano popolate da un insolito amalgama di gruppi etnici, fedi religiose, lingue e costumi. L’obiettivo di riplasmare questo amalgama con conversioni e assimilazioni forzate allo scopo di ottenere una nazione omogenea o quasi, sulla falsariga, diciamo, del modello francese, era forse perseguito con forza da una parte della élite politica, ma era ben lontano dall’essere universalmente accettato e dall’essere ricercato in maniera coerente, un progetto lontanissimo dal compimento.
Come normale in uno Stato moderno, gli addetti al censimento erano stati tuttavia addestrati a pensare che ad ogni uomo o donna censiti dovesse corrispondere una nazione di appartenenza. Furono date loro istruzioni di chiedere a ogni suddito dello Stato polacco di dichiarare la propria appartenenza nazionale (oggi si direbbe: la propria «identità etnica o nazionale»). In circa un milione di casi i rilevatori del censimento non riuscirono a ottenere risposta su questo punto: la gente da loro interrogata semplicemente non riusciva ad afferrare il significato di parole come «nazione» e «avere una nazionalità». Nonostante la pressione esercitata (le minacce e uno sforzo davvero titanico per spiegare il significato di «nazionalità») i cittadini censiti continuavano ostinatamente a dare le sole risposte che per loro avevano un senso: «siamo locali», «siamo di questo posto», «siamo di qui», «questa è la nostra terra». Alla fine i responsabili del censimento dovettero arrendersi e aggiungere la voce «locali» alla lista ufficiale delle nazionalità...
La Polonia non era certo un caso unico, né sarebbe stato l’ultimo caso del genere. Non molti anni dopo, un ricercatore francese dimostrò che, dopo due secoli di accanito nation-building, per molti francesi della campagna le pays aveva un diametro che non superava i venti chilometri, cinque più cinque meno... Come ha sottolineato recentemente Philippe Robert2, «per la maggior parte della storia delle società umane, le relazioni sociali sono rimaste saldamente rinchiuse nell’ambito della prossimità». Ricordiamo che, per andare da Parigi a Marsiglia, nel XVIII secolo si impiegava lo stesso tempo che durante l’Impero Romano. Per la maggior parte delle persone, la «società» in quanto «totalità» suprema della coabitazione umana (sempre che pensassero in questi termini), coincideva con il proprio immediato circondario. «Si potrebbe parlare di una società di conoscenza reciproca», suggerisce Robert. All’interno di questa rete di familiarità dalla culla alla bara, il posto occupato da ciascuno era troppo evidente per essere valutato, tantomeno negoziato. Qualsiasi situazione di incertezza al riguardo (come nel caso dei relativamente pochi «senza padrone» che vagavano per le strade, anch’esse senza padrone, non avendo trovato di che vivere nella loro comunità natale) non era che un fenomeno marginale e un problema minore, facilmente affrontato e risolto con misure ad hoc come la maréchaussée, la prima forza di polizia della storia occidentale. Ci son volute la lenta disintegrazione e l’affievolirsi della tenuta delle comunità locali, sommati alla rivoluzione dei trasporti, per spianare il terreno alla nascita dell’identità: come problema e, principalmente, come compito. I margini si sono rapidamente allargati, fino a invadere le aree che rappresentano il cuore della coabitazione umana. D’improvviso si poneva la necessità di porre la questione dell’identità, perché non c’era nessuna risposta ovvia a disposizione.
Il nascente Stato moderno, messo di fronte all’esigenza di creare un ordine che non veniva più automaticamente rigenerato all’interno delle ben radicate e strettamente intrecciate «società di familiarità reciproca», ha posto tale questione a fondamento delle sue nuove e inusuali rivendicazioni di legittimità.
Sembrava naturale supporre che la migliore risposta alla rapida espansione del «problema dell’identità» dovesse essere un’analoga espansione delle attività di controllo dell’ordine come quelle messe in atto e collaudate dalla maréchaussée. Lo Stato-nazione, come ha osservato Giorgio Agamben, era uno Stato che faceva della «natività della nascita» il «fondamento della propria sovranità». «La finzione qui implicita», evidenzia Agamben, «è che la ‘nascita’ diventi immediatamente ‘nazione’, in modo che non possa esserci alcuno scarto fra i due momenti»3. Gli sventurati individui oggetto del censimento polacco semplicemente non erano riusciti ad assorbire questa finzione come una lampante «realtà di fatto». Rimanevano esterrefatti a sentire che si doveva avere un’«identità nazionale» e si poteva essere interrogati su quale fosse questa nazionalità.
Non è che fossero persone particolarmente ottuse e prive di immaginazione... Dopo tutto, chiedere «chi sei tu» ha senso solo se tu sai di poter essere qualcosa di diverso da ciò che sei; ha senso solo se hai una scelta, e se cosa scegliere dipende da te; ha senso, cioè, solo se tu devi fare qualcosa per consolidare e rendere «reale» la scelta. Ma è precisamente ciò che non succede ai residenti dei villaggi più isolati e degli insediamenti nelle foreste, che non hanno mai avuto neanche occasione di pensare di trasferirsi in altri luoghi, tantomeno di cercare, scoprire o inventare una cosa così nebulosa (anzi, così im-pensabile) come «un’altra identità». Il loro modo di essere nel mondo spogliava la questione dell’«identità» del significato che altri modi di vita (che le nostre usanze linguistiche ci spingono a chiamare «moderni») rendevano evidente.
Jorge Luis Borges avrebbe descritto la situazione dei «locali» molestati come un caso di persone cui viene imposto un compito «che non è vietato agli altri», ma a loro soltanto, come accadde ad Averroè quando si sforzava di tradurre Aristotele in arabo. «Chiuso nell’ambito dell’islam», e cercando di «immaginare che cos’è un dramma senza sapere che cos’è un teatro», Averroè «non poté mai sapere il significato di tragedia e commedia»4.
L’idea di «identità», e di «identità nazionale» in particolare, non è un parto «naturale» dell’esperienza umana, non emerge da questa esperienza come un lapalissiano «fatto concreto». È un’idea introdotta a forza nella Lebenswelt degli uomini e delle donne moderni, e arrivata come una finzione. Si è congelata in un «fatto», un «elemento dato», proprio perché era stata una finzione e perché si è allargato un divario, dolorosamente percepito, tra ciò che quell’idea implicava, insinuava, suggeriva, e lo status quo ante (lo stato delle cose precedente, non contaminato dall’intervento umano). L’idea di «identità» è nata dalla crisi dell’appartenenza e dallo sforzo che essa ha innescato per colmare il divario tra «ciò che dovrebbe essere» e «ciò che è», ed elevare la realtà ai parametri fissati dall’idea, per rifare la realtà a somiglianza dell’idea.
L’identità può entrare nella Lebenswelt solo come compito, come un compito ancora non realizzato, non compiuto, come un appello, come un dovere e un incitamento ad agire: e il nascente Stato moderno ha fatto tutto il necessario per rendere obbligatorio tale compito nell’ambito della sua sovranità territoriale. L’identità nata come finzione aveva bisogno di un gran dispiegamento di coercizione e convincimento per irrobustirsi e coagularsi in una realtà (più correttamente: nella sola realtà pensabile); e nella storia della nascita e maturazione dello Stato moderno questi due elementi abbondano.
La finzione della «natività della nascita» ha svolto il ruolo di protagonista tra le formule messe in campo dal nascente Stato moderno per legittimare la propria richiesta di subordinazione incondizionata dei suoi sudditi (aspetto in certo qual modo, e curiosamente, trascurato da Max Weber nella sua tipologia delle legittimazioni). Stato e nazione avevano bisogno l’uno dell’altra, il loro matrimonio, si è tentati di dire, era stato contratto in paradiso... Lo Stato cercava l’ubbidienza dei suoi sudditi rappresentandosi come il compimento del destino della nazione e una garanzia della sua continuazione. Dall’altro lato, una nazione senza uno Stato sarebbe stata destinata a essere dubbiosa del suo passato, insicura nel suo presente e incerta del suo futuro, e perciò fatalmente condannata a un’esistenza precaria. Non fosse stato per il potere dello Stato di definire, classificare, segregare, separare e selezionare, difficilmente l’aggregato di tradizioni locali, dialetti, leggi consuetudinarie e modi di vita, si sarebbe spontaneamente riforgiato in qualcosa di simile alla necessaria unità e coesione, che è il presupposto di una comunità nazionale. Se lo Stato era il compimento del destino della nazione, era anche una condizione necessaria per l’esistenza di una nazione che rivendicava – con clamore, baldanza ed efficacia – un destino comune. La regola cuius regio, eius natio funzionava in doppia direzione...
L’«identità nazionale» fu fin dal principio, ed è rimasta per lungo tempo, un concetto agonistico e un grido di battaglia. La sovrapposizione della comunità nazionale coesa con l’aggregato di sudditi dello Stato era destinata a rimanere non soltanto eternamente incompiuta, ma anche perennemente precaria; un progetto, che richiedeva una vigilanza continua, uno sforzo gigantesco e l’impiego di una grande forza per far sì che tale richiesta fosse ascoltata e messa in atto (Ernest Renan chiamava la nazione «un plebiscito quotidiano», nonostante parlasse dell’esperienza dello Stato francese, famoso almeno fin dall’epoca napoleonica per le sue ambizioni tipicamente centralistiche). Nessuna di queste condizioni si sarebbe potuta soddisfare in mancanza della coincidenza tra il territorio di residenza e l’indivisa sovranità dello Stato, che consiste anzitutto, come suggerisce Agamben rifacendosi a Carl Schmitt, nel potere di esenzione. La sua ragion d’essere stava nel tracciare, irrigidire e sorvegliare il confine tra «noi» e «loro». L’«appartenenza» avrebbe perso il suo smalto e il suo potere seduttivo insieme con la sua funzione di integrazione/disciplina, se non fosse stata fortemente selettiva e non fosse stata costantemente rimpolpata e rinvigorita dalla minaccia e dalla pratica dell’esclusione.
L’identità nazionale non è mai stata come le altre identità. Diversamente da altre identità che non richiedono una devozione senza riserve e una fedeltà esclusiva, l’identità nazionale non riconosce concorrenza, e meno che mai opposizione. L’identità nazionale accuratamente costruita dallo Stato e dalle sue agenzie (o da «governi ombra» o «governi in esilio» nel caso di aspiranti nazioni, «nazioni in spe» che si limitano a invocare a gran voce uno Stato proprio) mirava al diritto monopolistico di tracciare i confini tra «noi» e «loro». Se non riuscivano a ottenere questo monopolio, gli Stati cercavano di conquistare l’inattaccabile posizione di un tribunale supremo incaricato di pronunciare sentenze vincolanti e senza possibilità di appello sui ricorsi di identità in conflitto.
Così come le leggi dello Stato hanno prevalso sopra tutte le altre forme consuetudinarie di giustizia e le hanno rese nulle in caso di contrasto, l’identità nazionale consente o tollera l’esistenza di simili altre identità solo fintanto che queste non suscitino il sospetto di essere in contrasto (in linea di principio o in situazioni concrete) con l’incondizionata priorità della lealtà nazionale. L’unico attributo confermato dall’autorità sulle carte d’identità e sui passaporti era quello di suddito di uno Stato. Altre identità «minori» venivano incoraggiate e/o obbligate a ricercare il riconoscimento e la conseguente protezione da parte di uffici statali autorizzati – e a confermare così indirettamente la superiorità dell’«identità nazionale» – attraverso statuti professionali reali o nazionali, diplomi di Stato e certificati sanzionati dallo Stato. Chiunque tu fossi o aspirassi a diventare, erano le «istituzioni competenti» dello Stato ad avere l’ultima parola. Un’identità non certificata era una frode, e chi la indossava era un simulatore, un millantatore.
La severità delle richieste era un riflesso dell’endemica e incurabile precarietà dell’opera di costruzione e tutela della nazione. Mi si consenta di ribadirlo: la «naturalezza» del presupposto che «l’appartenenza per effetto della nascita» significasse, automaticamente e inequivocabilmente, appartenenza a una nazione, fu una convenzione laboriosamente costruita; l’apparenza della «naturalezza» tutto poteva essere fuorché «naturale». A differenza delle «minisocietà di familiarità reciproca», quei luoghi dove la maggior parte degli uomini e delle donne delle epoche premoderne e pre-mobilità passavano l’intera loro vita dalla culla alla tomba, la «nazione» era un’entità immaginata, che poté entrare nella Lebenswelt solo attraverso la mediazione dell’artificio di un concetto. L’apparenza di naturalezza, e pertanto anche la credibilità dell’asserita appartenenza, poté essere solo il prodotto finale di lunghe battaglie passate; e la sua perpetuazione non sarebbe stata possibile se non attraverso le battaglie future.
In Italia dovreste saperlo fin troppo bene... A un secolo e mezzo dalla vittoria del Risorgimento, l’Italia a malapena può dirsi un paese con una lingua unica e una piena integrazione degli interessi locali. Di frequente si levano voci che invocano la preminenza di esigenze locali sui vincoli nazionali (accusati di essere artificiali). La priorità dell’identità nazionale è ancora, com’era prima dell’unificazione, una questione aperta e che suscita vivi contrasti. Come ha affermato giustamente Jonathan Matthew Schwartz, più che dire che la totalità è maggiore della somma delle sue parti (come insisteva Durkheim, confidando nel potere dello Stato di realizzare le proprie ambizioni), bisognerebbe dire che «l’insieme immaginato è in realtà più fittizio della somma delle sue componenti»5.
D. Nel saggio di Georg Simmel sulle forme di vita nelle metropoli e sul conflitto nella società moderna, l’identità è menzionata precisamente come un’espressione di istituzioni quali la Famiglia, lo Stato, la Chiesa, che costituiscono, secondo il sociologo tedesco, gli apriori della vita sociale. In questo caso, gli elementi dell’identità sono disintegrati dalla moderna società di massa. Da qui, l’interesse di Simmel per le forme di vita emerse dalla dissoluzione degli ordini costituiti. Ma anche in questo caso, come è per Durkheim, l’identità è un elemento minore nell’analisi della realtà. Non è d’accordo?
R. Ripeto quanto osservato prima: ci sono ragioni serie per non cercare risposte ai nostri «problemi di identità» nelle opere dei padri fondatori. Nemmeno nell’opera di Georg Simmel, che per via delle peculiarità della sua biografia ha potuto intravedere e assaporare quel genere di condizione esistenziale che solo molto più tardi sarebbe diventato il destino – croce o delizia – di tutti.
La principale ragione per cui i fondatori della sociologia moderna non sono in grado di rispondere alle questioni poste dalla nostra situaz...

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