LâidentitĂ come problema
D. Nellâimmaginario sociologico, lâidentitĂ Ăš sempre qualcosa di evasivo e sfuggente, quasi un apriori. In Ămile Durkheim, ad esempio, le identitĂ collettive restano sempre sullo sfondo, ma indubbiamente nel suo libro piĂč famoso, La divisione del lavoro sociale, la divisione del lavoro Ăš un fattore contraddittorio. Da un lato mette a rischio i legami sociali, ma al tempo stesso agisce come fattore di stabilizzazione nella transizione che prepara la creazione di un nuovo ordine sociale. Tuttavia, in questo quadro analitico, lâidentitĂ Ăš da considerarsi un obiettivo, uno scopo, piuttosto che un fattore predefinito. Qual Ăš la Sua opinione?
R. La stessa Sua. SĂŹ, in effetti, la «identità » ci si riveÂla unicamente come qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto; come il traguardo di uno sforzo, un «obiettivo», qualcosa che Ăš ancora necessario costruire da zero o selezionare fra offerte alternative, qualcosa per cui Ăš necessario lottare e che va poi protetto attraverso altre lotte ancora, anche se questo status precario e perennemente incompleto dellâidentitĂ Ăš una veritĂ che, se si vuole che la lotta vada a buon fine, devâessere â e tende a essere â soppressa e laboriosamente occultata.
Oggi questa veritĂ Ăš piĂč difficile da nascondere di quanto non lo fosse al principio dellâetĂ moderna. Le entitĂ piĂč determinate a realizzare tale occultamento hanno perso interesse; hanno abbandonato il campo di battaglia e sono fin troppo felici di lasciare a noi, singoli uomini e donne, la fastidiosa incombenza di trovare e costruire unâidentitĂ , e di realizzare questo compito singolarmente o a piccoli gruppi, piuttosto che congiuntamente... La fragilitĂ e lo status di perenne provvisorietĂ dellâidentitĂ non possono piĂč essere celati. Il segreto Ăš di dominio pubblico. Ma questo Ăš uno sviluppo nuovo, abbastanza recente.
Mi domando perciĂČ se sia giusto chiedere ai padri spirituali della sociologia, che si tratti di Weber o di Durkheim, o anche di Simmel (quello, tra tutti loro, che ha saputo vedere piĂč in lĂ , anticipare i tempi futuri), indicazioni su cosa e come pensare riguardo a una questione che Ăš entrata di prepotenza e si Ăš installata stabilmente nella nostra coscienza comune molto tempo dopo la loro morte... Tutti loro erano impegnati a dialogare con i problemi, le preoccupazioni e le inquietudini degli uomini e delle donne della loro epoca (e nella profonditĂ , scrupolositĂ e dedizione di questo impegno sta la loro autentica grandezza e il loro piĂč importante lascito per la sociologia posteriore): tra queste inquietudini lâidentitĂ non figurava. Suppongo che se avessero potuto rivolgere il loro sguardo, cosĂŹ acuto e penetrante su tutte le grandi questioni della loro epoca, sul tipo di societĂ che sarebbe sorto quasi un secolo dopo â la nostra societĂ â avrebbero considerato il subitaneo apparire del «problema dellâidentità » nei dibattiti specializzati e nella coscienza comune un rompicapo sociologico tra i piĂč intriganti.
E un rompicapo, nonchĂ© una sfida per la sociologia, lo Ăš davvero: basti pensare che ancora pochi decenni fa lâ«identità » non era neanche lontanamente al centro dei nostri pensieri, non era altro che un oggetto di meditazione filosofica. Oggi invece lâ«identità » Ăš la questione allâordine del giorno, argomento di scottante attualitĂ nella mente e sulla bocca di tutti. PiĂč che lâidentitĂ in sĂ© e per sĂ©, sarebbe stata questa fascinazione repentina per lâidentitĂ che avrebbe attirato lâattenzione dei classici, se essi avessero vissuto abbastanza a lungo da confrontarcisi. Avrebbero probabilmente preso spunto dallâaffermazione di Martin Heidegger (non erano giĂ piĂč tra noi quando il filosofo tedesco la enunciĂČ): ci si accorge delle cose, ponendole sotto la lente della contemplazione, quando esse svaniscono, vanno in rovina, iniziano a comportarsi stranamente o ti deludono in qualche altro modo...
Poco prima dello scoppio dellâultima guerra mondiale, nel mio paese natale, la Polonia, venne condotto un censimento della popolazione. La Polonia era allora una societĂ multietnica. Alcune zone del paese erano popolate da un insolito amalgama di gruppi etnici, fedi religiose, lingue e costumi. Lâobiettivo di riplasmare questo amalgama con conversioni e assimilazioni forzate allo scopo di ottenere una nazione omogenea o quasi, sulla falsariga, diciamo, del modello francese, era forse perseguito con forza da una parte della Ă©lite politica, ma era ben lontano dallâessere universalmente accettato e dallâessere ricercato in maniera coerente, un progetto lontanissimo dal compimento.
Come normale in uno Stato moderno, gli addetti al censimento erano stati tuttavia addestrati a pensare che ad ogni uomo o donna censiti dovesse corrispondere una nazione di appartenenza. Furono date loro istruzioni di chiedere a ogni suddito dello Stato polacco di dichiarare la propria appartenenza nazionale (oggi si direbbe: la propria «identità etnica o nazionale»). In circa un milione di casi i rilevatori del censimento non riuscirono a ottenere risposta su questo punto: la gente da loro interrogata semplicemente non riusciva ad afferrare il significato di parole come «nazione» e «avere una nazionalità ». Nonostante la pressione esercitata (le minacce e uno sforzo davvero titanico per spiegare il significato di «nazionalità ») i cittadini censiti continuavano ostinatamente a dare le sole risposte che per loro avevano un senso: «siamo locali», «siamo di questo posto», «siamo di qui», «questa Ú la nostra terra». Alla fine i responsabili del censimento dovettero arrendersi e aggiungere la voce «locali» alla lista ufficiale delle nazionalità ...
La Polonia non era certo un caso unico, nĂ© sarebbe stato lâultimo caso del genere. Non molti anni dopo, un ricercatore francese dimostrĂČ che, dopo due secoli di accanito nation-building, per molti francesi della campagna le pays aveva un diametro che non superava i venti chilometri, cinque piĂč cinque meno... Come ha sottolineato recentemente Philippe Robert2, «per la maggior parte della storia delle societĂ umane, le relazioni sociali sono rimaste saldamente rinchiuse nellâambito della prossimità ». Ricordiamo che, per andare da Parigi a Marsiglia, nel XVIII secolo si impiegava lo stesso tempo che durante lâImpero Romano. Per la maggior parte delle persone, la «società » in quanto «totalità » suprema della coabitazione umana (sempre che pensassero in questi termini), coincideva con il proprio immediato circondario. «Si potrebbe parlare di una societĂ di conoscenza reciproca», suggerisce Robert. Allâinterno di questa rete di familiaritĂ dalla culla alla bara, il posto occupato da ciascuno era troppo evidente per essere valutato, tantomeno negoziato. Qualsiasi situazione di incertezza al riguardo (come nel caso dei relativamente pochi «senza padrone» che vagavano per le strade, anchâesse senza padrone, non avendo trovato di che vivere nella loro comunitĂ natale) non era che un fenomeno marginale e un problema minore, facilmente affrontato e risolto con misure ad hoc come la marĂ©chaussĂ©e, la prima forza di polizia della storia occidentale. Ci son volute la lenta disintegrazione e lâaffievolirsi della tenuta delle comunitĂ locali, sommati alla rivoluzione dei trasporti, per spianare il terreno alla nascita dellâidentitĂ : come problema e, principalmente, come compito. I margini si sono rapidamente allargati, fino a invadere le aree che rappresentano il cuore della coabitazione umana. Dâimprovviso si poneva la necessitĂ di porre la questione dellâidentitĂ , perchĂ© non câera nessuna risposta ovvia a disposizione.
Il nascente Stato moderno, messo di fronte allâesigenza di creare un ordine che non veniva piĂč automaticamente rigenerato allâinterno delle ben radicate e strettamente intrecciate «societĂ di familiaritĂ reciproca», ha posto tale questione a fondamento delle sue nuove e inusuali rivendicazioni di legittimitĂ .
Sembrava naturale supporre che la migliore risposta alla rapida espansione del «problema dellâidentità » dovesse essere unâanaloga espansione delle attivitĂ di controllo dellâordine come quelle messe in atto e collaudate dalla marĂ©chaussĂ©e. Lo Stato-nazione, come ha osservato Giorgio Agamben, era uno Stato che faceva della «nativitĂ della nascita» il «fondamento della propria sovranità ». «La finzione qui implicita», evidenzia Agamben, «Ú che la ânascitaâ diventi immediatamente ânazioneâ, in modo che non possa esserci alcuno scarto fra i due momenti»3. Gli sventurati individui oggetto del censimento polacco semplicemente non erano riusciti ad assorbire questa finzione come una lampante «realtĂ di fatto». Rimanevano esterrefatti a sentire che si doveva avere unâ«identitĂ nazionale» e si poteva essere interrogati su quale fosse questa nazionalitĂ .
Non Ăš che fossero persone particolarmente ottuse e prive di immaginazione... Dopo tutto, chiedere «chi sei tu» ha senso solo se tu sai di poter essere qualcosa di diverso da ciĂČ che sei; ha senso solo se hai una scelta, e se cosa scegliere dipende da te; ha senso, cioĂš, solo se tu devi fare qualcosa per consolidare e rendere «reale» la scelta. Ma Ăš precisamente ciĂČ che non succede ai residenti dei villaggi piĂč isolati e degli insediamenti nelle foreste, che non hanno mai avuto neanche occasione di pensare di trasferirsi in altri luoghi, tantomeno di cercare, scoprire o inventare una cosa cosĂŹ nebulosa (anzi, cosĂŹ im-pensabile) come «unâaltra identità ». Il loro modo di essere nel mondo spogliava la questione dellâ«identità » del significato che altri modi di vita (che le nostre usanze linguistiche ci spingono a chiamare «moderni») rendevano evidente.
Jorge Luis Borges avrebbe descritto la situazione dei «locali» molestati come un caso di persone cui viene imposto un compito «che non Ăš vietato agli altri», ma a loro soltanto, come accadde ad AverroĂš quando si sforzava di tradurre Aristotele in arabo. «Chiuso nellâambito dellâislam», e cercando di «immaginare che cosâĂš un dramma senza sapere che cosâĂš un teatro», AverroĂš «non potĂ© mai sapere il significato di tragedia e commedia»4.
Lâidea di «identità », e di «identitĂ nazionale» in particolare, non Ăš un parto «naturale» dellâesperienza umana, non emerge da questa esperienza come un lapalissiano «fatto concreto». Ă unâidea introdotta a forza nella Lebenswelt degli uomini e delle donne moderni, e arrivata come una finzione. Si Ăš congelata in un «fatto», un «elemento dato», proprio perchĂ© era stata una finzione e perchĂ© si Ăš allargato un divario, dolorosamente percepito, tra ciĂČ che quellâidea implicava, insinuava, suggeriva, e lo status quo ante (lo stato delle cose precedente, non contaminato dallâintervento umano). Lâidea di «identità » Ăš nata dalla crisi dellâappartenenza e dallo sforzo che essa ha innescato per colmare il divario tra «ciĂČ che dovrebbe essere» e «ciĂČ che Ú», ed elevare la realtĂ ai parametri fissati dallâidea, per rifare la realtĂ a somiglianza dellâidea.
LâidentitĂ puĂČ entrare nella Lebenswelt solo come compito, come un compito ancora non realizzato, non compiuto, come un appello, come un dovere e un incitamento ad agire: e il nascente Stato moderno ha fatto tutto il necessario per rendere obbligatorio tale compito nellâambito della sua sovranitĂ territoriale. LâidentitĂ nata come finzione aveva bisogno di un gran dispiegamento di coercizione e convincimento per irrobustirsi e coagularsi in una realtĂ (piĂč correttamente: nella sola realtĂ pensabile); e nella storia della nascita e maturazione dello Stato moderno questi due elementi abbondano.
La finzione della «nativitĂ della nascita» ha svolto il ruolo di protagonista tra le formule messe in campo dal nascente Stato moderno per legittimare la propria richiesta di subordinazione incondizionata dei suoi sudditi (aspetto in certo qual modo, e curiosamente, trascurato da Max Weber nella sua tipologia delle legittimazioni). Stato e nazione avevano bisogno lâuno dellâaltra, il loro matrimonio, si Ăš tentati di dire, era stato contratto in paradiso... Lo Stato cercava lâubbidienza dei suoi sudditi rappresentandosi come il compimento del destino della nazione e una garanzia della sua continuazione. Dallâaltro lato, una nazione senza uno Stato sarebbe stata destinata a essere dubbiosa del suo passato, insicura nel suo presente e incerta del suo futuro, e perciĂČ fatalmente condannata a unâesistenza precaria. Non fosse stato per il potere dello Stato di definire, classificare, segregare, separare e selezionare, difficilmente lâaggregato di tradizioni locali, dialetti, leggi consuetudinarie e modi di vita, si sarebbe spontaneamente riforgiato in qualcosa di simile alla necessaria unitĂ e coesione, che Ăš il presupposto di una comunitĂ nazionale. Se lo Stato era il compimento del destino della nazione, era anche una condizione necessaria per lâesistenza di una nazione che rivendicava â con clamore, baldanza ed efficacia â un destino comune. La regola cuius regio, eius natio funzionava in doppia direzione...
Lâ«identitĂ nazionale» fu fin dal principio, ed Ăš rimasta per lungo tempo, un concetto agonistico e un grido di battaglia. La sovrapposizione della comunitĂ nazionale coesa con lâaggregato di sudditi dello Stato era destinata a rimanere non soltanto eternamente incompiuta, ma anche perennemente precaria; un progetto, che richiedeva una vigilanza continua, uno sforzo gigantesco e lâimpiego di una grande forza per far sĂŹ che tale richiesta fosse ascoltata e messa in atto (Ernest Renan chiamava la nazione «un plebiscito quotidiano», nonostante parlasse dellâesperienza dello Stato francese, famoso almeno fin dallâepoca napoleonica per le sue ambizioni tipicamente centralistiche). Nessuna di queste condizioni si sarebbe potuta soddisfare in mancanza della coincidenza tra il territorio di residenza e lâindivisa sovranitĂ dello Stato, che consiste anzitutto, come suggerisce Agamben rifacendosi a Carl Schmitt, nel potere di esenzione. La sua ragion dâessere stava nel tracciare, irrigidire e sorvegliare il confine tra «noi» e «loro». Lâ«appartenenza» avrebbe perso il suo smalto e il suo potere seduttivo insieme con la sua funzione di integrazione/disciplina, se non fosse stata fortemente selettiva e non fosse stata costantemente rimpolpata e rinvigorita dalla minaccia e dalla pratica dellâesclusione.
LâidentitĂ nazionale non Ăš mai stata come le altre identitĂ . Diversamente da altre identitĂ che non richiedono una devozione senza riserve e una fedeltĂ esclusiva, lâidentitĂ nazionale non riconosce concorrenza, e meno che mai opposizione. LâidentitĂ nazionale accuratamente costruita dallo Stato e dalle sue agenzie (o da «governi ombra» o «governi in esilio» nel caso di aspiranti nazioni, «nazioni in spe» che si limitano a invocare a gran voce uno Stato proprio) mirava al diritto monopolistico di tracciare i confini tra «noi» e «loro». Se non riuscivano a ottenere questo monopolio, gli Stati cercavano di conquistare lâinattaccabile posizione di un tribunale supremo incaricato di pronunciare sentenze vincolanti e senza possibilitĂ di appello sui ricorsi di identitĂ in conflitto.
CosĂŹ come le leggi dello Stato hanno prevalso sopra tutte le altre forme consuetudinarie di giustizia e le hanno rese nulle in caso di contrasto, lâidentitĂ nazionale consente o tollera lâesistenza di simili altre identitĂ solo fintanto che queste non suscitino il sospetto di essere in contrasto (in linea di principio o in situazioni concrete) con lâincondizionata prioritĂ della lealtĂ nazionale. Lâunico attributo confermato dallâautoritĂ sulle carte dâidentitĂ e sui passaporti era quello di suddito di uno Stato. Altre identità «minori» venivano incoraggiate e/o obbligate a ricercare il riconoscimento e la conseguente protezione da parte di uffici statali autorizzati â e a confermare cosĂŹ indirettamente la superioritĂ dellâ«identitĂ nazionale» â attraverso statuti professionali reali o nazionali, diplomi di Stato e certificati sanzionati dallo Stato. Chiunque tu fossi o aspirassi a diventare, erano le «istituzioni competenti» dello Stato ad avere lâultima parola. UnâidentitĂ non certificata era una frode, e chi la indossava era un simulatore, un millantatore.
La severitĂ delle richieste era un riflesso dellâendemica e incurabile precarietĂ dellâopera di costruzione e tutela della nazione. Mi si consenta di ribadirlo: la «naturalezza» del presupposto che «lâappartenenza per effetto della nascita» significasse, automaticamente e inequivocabilmente, appartenenza a una nazione, fu una convenzione laboriosamente costruita; lâapparenza della «naturalezza» tutto poteva essere fuorchĂ© «naturale». A differenza delle «minisocietĂ di familiaritĂ reciproca», quei luoghi dove la maggior parte degli uomini e delle donne delle epoche premoderne e pre-mobilitĂ passavano lâintera loro vita dalla culla alla tomba, la «nazione» era unâentitĂ immaginata, che potĂ© entrare nella Lebenswelt solo attraverso la mediazione dellâartificio di un concetto. Lâapparenza di naturalezza, e pertanto anche la credibilitĂ dellâasserita appartenenza, potĂ© essere solo il prodotto finale di lunghe battaglie passate; e la sua perpetuazione non sarebbe stata possibile se non attraverso le battaglie future.
In Italia dovreste saperlo fin troppo bene... A un secolo e mezzo dalla vittoria del Risorgimento, lâItalia a malapena puĂČ dirsi un paese con una lingua unica e una piena integrazione degli interessi locali. Di frequente si levano voci che invocano la preminenza di esigenze locali sui vincoli nazionali (accusati di essere artificiali). La prioritĂ dellâidentitĂ nazionale Ăš ancora, comâera prima dellâunificazione, una questione aperta e che suscita vivi contrasti. Come ha affermato giustamente Jonathan Matthew Schwartz, piĂč che dire che la totalitĂ Ăš maggiore della somma delle sue parti (come insisteva Durkheim, confidando nel potere dello Stato di realizzare le proprie ambizioni), bisognerebbe dire che «lâinsieme immaginato Ăš in realtĂ piĂč fittizio della somma delle sue componenti»5.
D. Nel saggio di Georg Simmel sulle forme di vita nelle metropoli e sul conflitto nella societĂ moderna, lâidentitĂ Ăš menzionata precisamente come unâespressione di istituzioni quali la Famiglia, lo Stato, la Chiesa, che costituiscono, secondo il sociologo tedesco, gli apriori della vita sociale. In questo caso, gli elementi dellâidentitĂ sono disintegrati dalla moderna societĂ di massa. Da qui, lâinteresse di Simmel per le forme di vita emerse dalla dissoluzione degli ordini costituiti. Ma anche in questo caso, come Ăš per Durkheim, lâidentitĂ Ăš un elemento minore nellâanalisi della realtĂ . Non Ăš dâaccordo?
R. Ripeto quanto osservato prima: ci sono ragioni serie per non cercare risposte ai nostri «problemi di identità » nelle opere dei padri fondatori. Nemmeno nellâopera di Georg Simmel, che per via delle peculiaritĂ della sua biografia ha potuto intravedere e assaporare quel genere di condizione esistenziale che solo molto piĂč tardi sarebbe diventato il destino â croce o delizia â di tutti.
La principale ragione per cui i fondatori della sociologia moderna non sono in grado di rispondere alle questioni poste dalla nostra situaz...