Fascismo
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Fascismo

Storia e interpretazione

Emilio Gentile

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Storia e interpretazione

Emilio Gentile

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Gentile è uno dei più importanti e innovativi storici del fascismo al mondo. Robert Gordon, Cambridge UniversityGentile è, in campo internazionale, lo storico del fascismo più raffinato sia sul piano del metodo che della teoria. Roger Griffin, Oxford Brookes UniversityTra gli studiosi odierni del fascismo, Gentile si distingue per la sua abilità di combinare ricerche molto serie con l'elaborazione di nuovi schemi concettuali. Adrian Lyttelton, "L'Indice"

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Información

Año
2013
ISBN
9788858109168
Categoría
Storia

Capitolo ottavo.
Il partito nel laboratorio totalitario fascista

Il Partito fascista dominò la politica italiana per un ventennio. Nel 1942, l’anno prima della fine del fascismo, 27.375.696 italiani, il 61 per cento della popolazione, uomini, donne e bambini dall’età di sei anni erano inquadrati nel Pnf e nelle organizzazioni dipendenti. Dal 1922 al 1943 l’Italia fu trasformata in un «vasto campo sperimentale umano»1, dove il Partito fascista cercò di attuare un progetto di società gerarchica militarizzata, per integrare gli individui e le classi in uno Stato nuovo totalitario con fini di potenza e di espansione. L’esperimento totalitario fascista incontrò ostacoli che non riuscì a superare e si concluse con un fallimento, ma la sua importanza, per l’analisi storica dell’autoritarismo moderno e del fenomeno del partito unico, è ancora attuale. La constatazione dei limiti e del fallimen­to finale non esclude l’utilità di studiare i risultati effettivi che pure furono conseguiti dal partito nell’imporre sulla collettività una nuova forma di dominio, di mobilitazione e di integrazione delle masse nello Stato, che fu presa a modello da altri movimenti contemporanei. La definizione del ruolo e della funzione del partito nel regime fascista ha suscitato giudizi contrastanti fra gli studiosi. La maggior parte di essi ritiene tuttora che dopo il 1926, divenuto partito unico, con il consolidamento della monocrazia di Mussolini, il Pnf fu politicamente liquidato e non svolse un ruolo attivo e decisivo nella vita del regime2. La tesi di un fallimento che si protrae per l’arco di un ventennio si basa su una lettura a ritroso della storia e falsa la prospettiva entro la quale si collocano i vari aspetti dell’azione del Partito fascista durante gli anni del regime, mentre la riduzione del regime fascista a una monocrazia mussoliniana contrasta con la complessa articolazione delle nuove strutture organizzative, attraverso le quali il fascismo cercò di attuare il suo esperimento totalitario. Questo capitolo si propone di indicare, attraverso l’esame di alcuni aspetti del ruolo del Pnf nel regime fascista, una diversa prospettiva di interpretazione, che consideriamo più adatta a far comprendere il fenomeno concreto nelle sue effettive proporzioni3.

Simbiosi fra partito e Stato

Il Partito fascista divenne partito unico dopo il regio decreto del 6 novembre 1926, n. 1848, che diede ai prefetti la facoltà di sciogliere le associazioni ritenute contrarie all’ordine nazionale dello Stato – cioè, come spiegava la relazione, all’ordine instaurato dal Partito fascista – e dopo la legge del 25 novembre 1926, n. 2008, che considerava reato la ricostituzione delle associazioni e dei partiti sciolti. La costruzione del regime fascista fu un lavoro graduale e avvenne attraverso un processo simbiotico di «fascistizzazione dello Stato e statizzazione del partito fascista»4. Generalmente si tende a considerare soltanto il secondo aspetto del processo ma, in questo modo, si separano i due fenomeni, che furono invece fra di loro simultanei e complementari, sottovalutando l’aspetto della «fascistizzazione dello Stato», altrettanto importante per comprendere la reale posizione del partito nello Stato, che non fu affatto risolto con la formale «subordinazione del partito allo Stato». Per avere una corretta prospettiva di giudizio sul rapporto fra il partito e lo Stato, è necessario aver presente che la costruzione del regime fascista avvenne principalmente attraverso «un processo di creazioni e di successive trasfusioni in seno allo Stato di organi, entità collaterali, principi e norme del Partito, che imprimono saldamente allo Stato il carattere fascista»5.
Questo processo iniziò subito dopo la marcia su Roma anche se, in principio, non seguì un disegno organico come quello elaborato da Alfredo Rocco, l’architetto dello Stato fascista, dopo il 19256. Le prime tappe furono, nel 1923, la creazione del Gran Consiglio, organo di partito per il collegamento fra partito e governo, che fu la sede principale dove furono elaborate le leggi per la trasformazione dello Stato, e la istituzione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, che mise la forza armata del partito alle dirette dipendenze del capo del governo, con l’esplicito compito di «proteggere gli inevitabili ed inesorabili sviluppi della rivoluzione d’ottobre»7.
L’atto simbolico della nascita del regime fascista, attraverso la fascistizzazione dello Stato, può essere considerato il regio decreto del 12 dicembre 1926, n. 2061, che dichiarò l’emblema del Partito fasci­sta, il fascio littorio, emblema dello Stato a tutti gli effetti. Il ruolo del Pnf nel regime fu definito dal Gran Consiglio il 3 gennaio 1926: il Pnf era «l’organizzazione delle forze politiche ed amministrative del Regime»; i fascisti dovevano essere «soldati pronti in ogni istante, entro le frontiere ed oltre, singolarmente o in massa, a ­confessare la propria fede col sangue, senza discutere gli ordini che scendono dalle gerarchie necessarie»8. Un nuovo statuto, approvato dal Gran Consiglio l’8 ottobre 1926, dichiarò che «la funzione del Partito è fondamentalmente indispensabile per la vitalità del Regime». Nello stesso tempo però, il nuovo statuto abolì l’elettività delle cariche e stabilì che «gli ordinamenti e le gerarchie, senza le quali non può esservi disciplina di sforzi ed educazione di popolo, ricevono [...] luce e norma dall’alto, dove è la visione completa degli attributi e dei compiti, delle funzioni e dei meriti». Il Pnf nel regime avrebbe svolto la sua azione «sotto la guida suprema del Duce del Fascismo e secondo le direttive stabilite dal Gran Consiglio Fascista»9.
La fine della democrazia interna e la perdita di autonomia non furono una metamorfosi radicale del Partito fascista ma la conclusio­ne di un processo di riforma dall’alto iniziato subito dopo la ­“marcia su Roma” e favorito dalla natura stessa del Pnf come partito milizia. Lo statuto del 1921 aveva stabilito che l’organo dirigente del partito, il Comitato centrale, doveva essere eletto dal congresso nazionale «quale espressione diretta della volontà degli organizzati, i quali eleggendolo, delegano ad esso tutti i poteri nell’ambito delle direttive e degli scopi determinati dalle deliberazioni del Congresso». In realtà, le scelte decisive nella politica del partito furono sempre prese dall’alto senza consultare gli iscritti. Dopo il 1921, il congresso del partito non fu più riunito fino al 1925, e fu per l’ultima volta.
Il Pnf era sorto direttamente, senza soluzione di continuità, dallo squadrismo, come un partito armato con orientamento totalitario, basato, come precisava già lo statuto del 1921, sui principi di ordine, disciplina e gerarchia10. Il principio della gerarchia, concepito in termini militareschi, prese subito il sopravvento sulla democrazia interna e definì i rapporti fra i capi e i gregari. Mussolini, per parte sua, considerò sempre il Pnf un «esercito» che doveva obbedire ed eseguire senza discutere gli ordini dei capi e, prima di tutto, del duce11.
La natura del Partito fascista, più che dallo statuto democratico del 1921, era indicata dal regolamento di disciplina per la milizia fascista, pubblicato dal «Popolo d’Italia» il 3 ottobre 1922. In queste norme, anche se era confermato il criterio elettivo, concepito tuttavia in termini di delega carismatica, erano fissati rigidamente i principi dell’«etica fascista»: «Il Milite fascista conosce soltanto doveri. Ha il solo diritto di compiere il dovere e di gioirne. Comandante o gregario deve obbedire in umiltà e comandare in forza. L’ubbidienza di questa milizia volontaria deve essere cieca, assoluta, rispettosa, fino al culmine delle gerarchie, al Capo Supremo ed alla Direzione del Partito»12. In nome di questi principi, dopo la “marcia su Roma” il Pnf fu subito privato di autonomia e sottoposto alle direttive di un nuovo organo, il Gran Consiglio, creato e presieduto da Mussolini che esautorò di fatto il potere sovrano degli iscritti e riformò dall’alto gli ordinamenti del partito, per renderlo un organo esecutivo della volontà del duce. Lo statuto del 1926 fu la logica conclusione di queste premesse, e conferì al Pnf, con il nuovo ordinamento, una funzione del tutto coerente con la sua natura di partito milizia e conforme al tipo di regime che il fascismo aveva cominciato a costruire, sulla base di una progressiva simbiosi fra partito e Stato.
Il primo atto della simbiosi istituzionale fra partito e Stato fu compiuto con la legge del 9 dicembre 1928, n. 2693, sull’ordinamen­to e le attribuzioni del Gran Consiglio, che divenne organo costituzionale dello Stato ma rimase, contemporaneamente, organo supremo del partito. Oltre a deliberare su fondamentali questioni costituzionali – come, per esempio, la successione al trono e le attribuzioni e le prerogative della Corona – il Gran Consiglio deliberava sugli statuti, gli ordinamenti e le direttive politiche del Pnf, sulla nomina e la revoca del segretario, dei vicesegretari, del segretario amministrativo e degli altri membri del direttorio del partito. Un anno dopo, il 14 settembre, nel corso di una grande assemblea del Pnf, Mussolini fissò in termini chiari la posizione e la funzione del partito nello Stato fascista:
il Partito non è che una forza civile e volontaria agli ordini dello Stato, così come la Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale è una forza armata agli ordini dello Stato [...] Se nel fascismo tutto è nello Stato, anche il Partito non può sfuggire a tale inesorabile necess...

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