II.
Repubblica
1. Una repubblica di eroi popolari
Una visione rigorosamente formalistica del diritto ha impedito, a chi abbia cercato, nel corso del Novecento, di ricostruire la storia costituzionale di Roma antica, di evidenziare e valutare la disposizione etica dei suoi cittadini: un’omissione tanto più ingiustificata se il riferimento sia alla res publica che, vedremo, come modello costituzionale, più di ogni altro vive e prospera solo se sia diffuso, nella cittadinanza, un tasso sufficiente di virtù civile. È un’indicazione che Aristotele enuncia e persegue nella sua Politica; e un’analoga impostazione si trova anche nelle narrazioni relative alle vicende della res publica romana, a cominciare dalla sua fondazione.
Leggiamo in Livio che è necessario che i cittadini amino la repubblica perché essa è loro: così è la charitas rei publicae che anima i discorsi e l’azione di Lucio Giunio Bruto, il primo console, l’eroe che costringe all’esilio l’ultimo re e ne impedisce fieramente il ritorno. Per Livio la repubblica postula nei cittadini una maturità civile e politica quale non è richiesta nella monarchia, dove le leggi non sono eguali per tutti e il re è disposto al sopruso per favorire i suoi amici. Ma nella repubblica vigono la libertà in unione con l’integrità morale. Essere liberi, continua Livio, non può risolversi nella licenza di curare esclusivamente i propri interessi, personali o di gruppo: ne conseguirebbe l’insorgere della discordia perché gli interessi particolari degli uni verrebbero a contrapporsi a quelli degli altri. Se ciò accadesse o se un uomo cercasse di impadronirsi della repubblica, allora ogni cittadino avrebbe il dovere di intervenire per conservare la libertà, costi quel che costi. Come fece proprio Bruto che, dopo aver fondato la repubblica, la salvò sventando la congiura volta a riportare sul trono il re esiliato. Quando processa e condanna a morte per tradimento i suoi due figli (che erano tra i congiurati), Bruto offre una nobile e, insieme, terribile prova di indipendenza in nome dell’interesse superiore della res publica: lui, l’uomo più potente e benemerito di Roma, si dimostra così forte da non accondiscendere alle intercessioni di molti cittadini, desiderosi di evitare al console un dolore tanto grave; e il console assiste impassibile all’esecuzione, imponendo che il supplizio avvenga con tutto il rigore stabilito dalla legge.
Dionigi osserva che una testimonianza così forte della capacità di far prevalere, sull’interesse privato più importante, l’interesse pubblico apparirebbe ai greci a un tempo crudele e incredibile; e aggiunge, però, che dell’esempio offerto da Bruto i romani erano, ancora ai tempi suoi, orgogliosissimi. Tale sarà la cifra etica dei migliori fra i cittadini romani nei secoli d’oro della loro res publica: da tutti, massimamente da un magistrato in carica, ci si attendeva che facessero fino in fondo il loro dovere. Parallelamente, la morale privata esigeva che il padre come il figlio fossero autori in ogni occasione di azioni egregie al fine di illustrare il nome proprio e della propria famiglia.
Con queste premesse la vita dell’uomo romano, specie se appartenente alla classe dirigente, era una vita di sacrifici e di sforzi continui per realizzare quei valori comuni e diffusi che gli imponevano di impegnarsi quotidianamente al fine di lasciare ai posteri un ricordo positivo di sé nelle comunità di appartenenza, dalla famiglia alla repubblica: essere celebrato come un buon padre e un buon cittadino, come uno che fosse stato capace di superare la propria individualità e il proprio egoismo, rendendo un servigio agli altri suoi simili, parenti o cittadini che fossero, e, prima di tutti, alla res publica. A questo ideale – destinato, però, a tradursi necessariamente in atto – sospingono gli exempla degli eroi della repubblica che perciò si correda dall’inizio di varie figure divenute rapidamente mitiche alle quali i romani guarderanno sempre con devozione e rispetto: in questo senso eroi popolari in quanto modello per tutti i cittadini e da loro amati perché benefattori pubblici.
Giustiziando i figli Bruto fece, osserva Livio, quanto gli imponeva la sua funzione di console. Ma allo stesso modo agì da comandante supremo dell’esercito romano dando inizio alla battaglia contro i seguaci dell’ultimo re e assumendosi così personalmente il rischio del primo urto: secondo la tradizione riferitaci da Livio, Bruto morirà trafiggendo con la lancia (e venendone a sua volta trafitto) Tarquinio Arrunte, figlio del Superbo, che aveva mosso guerra a Roma per riconquistare il regno perduto.
Morto Bruto, l’epopea repubblicana propone in sequenza immediata un altro eroe, Publio Valerio, il collega di Bruto nel consolato e anch’egli tra i fondatori della repubblica. Valerio viene ingiustamente sospettato di aspirare al regno perché non aveva subito convocato i comizi per l’elezione di un nuovo console in sostituzione di Bruto. In più gli si imputava di aver cominciato a costruirsi la casa in cima alla Velia, una collina da cui si dominava la città tanto che qualcuno aveva pensato che Valerio volesse in realtà edificare una fortezza quasi inespugnabile. Allora Valerio convoca i comizi e parla all’assemblea rinunciando però ad esibire le insegne del potere consolare (i fasci con le scuri) per rendere manifesto che la sovranità apparteneva esclusivamente al popolo.
Successivamente Valerio avrebbe fatto approvare – almeno secondo la tradizione liviana ritenuta, da taluni, non attendibile – delle leggi a tutela della sovranità popolare e per contenere il potere dei consoli: nessuno avrebbe potuto arrogarsi la qualità di magistrato se non eletto dall’assemblea e nessun magistrato avrebbe potuto mettere a morte, fustigare o multare un cittadino se questi si fosse appellato al giudizio popolare (provocatio ad populum), al quale sarebbe dovuto essere obbligatoriamente rimesso per la sentenza definitiva. Per il rispetto dimostrato verso il popolo Publio Valerio fu soprannominato Publicola, cioè amico, devoto, benefattore del popolo e fu rieletto console per altre tre volte. Dionigi osserva che Publicola aveva avuto tante occasioni per arricchirsi e non ne aveva mai approfittato: egli dimostrò che è ricco non chi abbia molte ricchezze, ma chi abbia pochi bisogni. Morì poverissimo e il senato si assunse gli oneri del funerale.
Dionigi ci presenta appropriatamente anche il terzo eroe dell’epopea dell’esordio repubblicano: Lucio Quinzio Cincinnato – forse l’eroe più noto –, che i comizi elessero al consolato nel 460 a.C. mentre egli era intento ad arare il suo campicello. Cincinnato risponde alla chiamata perché avverte il profilo di doverosità verso la res publica: per lui la titolarità della suprema carica resta un officium, un servizio, e non è – non può essere – un vanto perché la vanagloria non è di chi gerisca una magistratura pubblica, cioè del popolo e per il popolo. Occorre, invece, resistere alle lusinghe del potere. Per questo egli rimprovera davanti al popolo quei magistrati che brigano per prolungare il loro mandato o per farsi rieleggere più e più volte: lui, per parte sua, lascerà il consolato nel giorno stabilito e poi, nel 458, la dittatura addirittura prima della sua scadenza perché riteneva (a ragione) di aver esaurito il compito affidatogli, quello di sbaragliare gli Equi. Così Cincinnato dimostra perfetta coerenza con quanto aveva predicato: rifiuta ogni ricompensa e torna a casa povero com’era partito.
Sia Livio che Dionigi sottolineano, con parole simili, la prova di virtù romana offerta da Cincinnato e la sua valenza emulativa per qualunque cittadino della giovane res publica: l’esercizio della magistratura come un dovere da adempiere con la massima dedizione e senza ambizioni di carriera, di fama o di arricchimento personale; la moderazione e l’equidistanza nella pratica del potere; la frugalità e la morigeratezza di vita prima, durante e dopo la titolarità della carica pubblica.
Questi eroi della res publica – siano vere, parzialmente vere o, invece, leggendarie le loro gesta – riuscirono a trasmettere alle generazioni future, particolarmente alle classi dirigenti, un codice etico di condotta pro re publica: finché questo codice fu osservato e onorato la repubblica poté conservarsi integra dalla corruzione, che alla fine la travolgerà proprio perché si diffonderanno i vizi dell’ambitio, dell’avaritia, della luxuria, della licentia. I giovani di quella nobilitas che, nei secoli ...