La Costituzione di Roma antica
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La Costituzione di Roma antica

Umberto Vincenti

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La Costituzione di Roma antica

Umberto Vincenti

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Nel mondo antico Roma visse come entitĂ  politica indipendente per quasi milletrecento anni, nel corso dei quali le regole attributive del potere pubblico variarono piĂč volte. La progressiva evoluzione fu categorizzata dagli stessi romani, che individuarono una pluralitĂ  di tipi di costituzione: dalla monarchia alla repubblica, dal principato augusteo al dispotismo del dominato dioclezianeo-costantiniano. In seguito, le forme della res publica – e le virtutes dei suoi cittadini – furono utilizzate dal pensiero giuspolitico moderno in funzione della costruzione dello stato di diritto. La res publica romana divenne cosĂŹ un modello a cui si ispireranno le rivoluzioni settecentesche e il costituzionalismo che da queste geminĂČ. Questo modello Ăš tuttora studiato e ammirato: da esso – dalla sua struttura antitirannica – trae oggi ispirazione il miglior pensiero neo-repubblicano, impegnato a contrastare la deriva oligarchica delle democrazie contemporanee.

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Information

Jahr
2017
ISBN
9788858130544

II.
Repubblica

1. Una repubblica di eroi popolari

Una visione rigorosamente formalistica del diritto ha impedito, a chi abbia cercato, nel corso del Novecento, di ricostrui­re la storia costituzionale di Roma antica, di evidenziare e valutare la disposizione etica dei suoi cittadini: un’omissione tanto piĂč ingiustificata se il riferimento sia alla res publica che, vedremo, come modello costituzionale, piĂč di ogni altro vive e prospera solo se sia diffuso, nella cittadinanza, un tasso sufficiente di virtĂč civile. È un’indicazione che Aristotele enuncia e persegue nella sua Politica1; e un’analoga impostazione si trova anche nelle narrazioni relative alle vicende della res publica romana, a cominciare dalla sua fondazione.
Leggiamo in Livio che Ăš necessario che i cittadini amino la repubblica perchĂ© essa Ăš loro: cosĂŹ Ăš la charitas rei publicae2 che anima i discorsi e l’azione di Lucio Giunio Bruto, il primo console, l’eroe che costringe all’esilio l’ultimo re e ne impedisce fieramente il ritorno. Per Livio la repubblica postula nei cittadini una maturitĂ  civile e politica quale non Ăš richiesta nella monarchia3, dove le leggi non sono eguali per tutti e il re Ăš disposto al sopruso per favorire i suoi amici4. Ma nella repubblica vigono la libertĂ  in unione con l’integritĂ  morale. Essere liberi, continua Livio, non puĂČ risolversi nella licenza di curare esclusivamente i propri interessi, personali o di gruppo: ne conseguirebbe l’insorgere della discordia perchĂ© gli interessi particolari degli uni verrebbero a contrapporsi a quelli degli altri. Se ciĂČ accadesse o se un uomo cercasse di impadronirsi della repubblica, allora ogni cittadino avrebbe il dovere di intervenire per conservare la libertĂ , costi quel che costi5. Come fece proprio Bruto che, dopo aver fondato la repubblica, la salvĂČ sventando la congiura volta a riportare sul trono il re esiliato. Quando processa e condanna a morte per tradimento i suoi due figli (che erano tra i congiurati), Bruto offre una nobile e, insieme, terribile prova di indipendenza in nome dell’interesse superiore della res publica: lui, l’uomo piĂč potente e benemerito di Roma, si dimostra cosĂŹ forte da non accondiscendere alle intercessioni di molti cittadini, desiderosi di evitare al console un dolore tanto grave; e il console assiste impassibile all’esecuzione, imponendo che il supplizio avvenga con tutto il rigore stabilito dalla legge6.
Dionigi osserva che una testimonianza cosĂŹ forte della capacitĂ  di far prevalere, sull’interesse privato piĂč importante, l’interesse pubblico apparirebbe ai greci a un tempo crudele e incredibile; e aggiunge, perĂČ, che dell’esempio offerto da Bruto i romani erano, ancora ai tempi suoi, orgogliosissimi7. Tale sarĂ  la cifra etica dei migliori fra i cittadini romani nei secoli d’oro della loro res publica: da tutti, massimamente da un magistrato in carica, ci si attendeva che facessero fino in fondo il loro dovere. Parallelamente, la morale privata esigeva che il padre come il figlio fossero autori in ogni occasione di azioni egregie al fine di illustrare il nome proprio e della propria famiglia.
Con queste premesse la vita dell’uomo romano, specie se appartenente alla classe dirigente, era una vita di sacrifici e di sforzi continui per realizzare quei valori comuni e diffusi che gli imponevano di impegnarsi quotidianamente al fine di lasciare ai posteri un ricordo positivo di sĂ© nelle comunitĂ  di appartenenza, dalla famiglia alla repubblica: essere celebrato come un buon padre e un buon cittadino, come uno che fosse stato capace di superare la propria individualitĂ  e il proprio egoismo, rendendo un servigio agli altri suoi simili, parenti o cittadini che fossero, e, prima di tutti, alla res publica. A questo ideale – destinato, perĂČ, a tradursi necessariamente in atto – sospingono gli exempla degli eroi della repubblica che perciĂČ si correda dall’inizio di varie figure divenute rapidamente mitiche alle quali i romani guarderanno sempre con devozione e rispetto: in questo senso eroi popolari in quanto modello per tutti i cittadini e da loro amati perchĂ© benefattori pubblici.
Giustiziando i figli Bruto fece, osserva Livio, quanto gli imponeva la sua funzione di console8. Ma allo stesso modo agì da comandante supremo dell’esercito romano dando inizio alla battaglia contro i seguaci dell’ultimo re e assumendosi così personalmente il rischio del primo urto: secondo la tradizione riferitaci da Livio, Bruto morirà trafiggendo con la lancia (e venendone a sua volta trafitto) Tarquinio Arrunte, figlio del Superbo, che aveva mosso guerra a Roma per riconquistare il regno perduto9.
Morto Bruto, l’epopea repubblicana propone in sequenza immediata un altro eroe, Publio Valerio, il collega di Bruto nel consolato e anch’egli tra i fondatori della repubblica. Valerio viene ingiustamente sospettato di aspirare al regno perchĂ© non aveva subito convocato i comizi per l’elezione di un nuovo console in sostituzione di Bruto. In piĂč gli si imputava di aver cominciato a costruirsi la casa in cima alla Velia, una collina da cui si dominava la cittĂ  tanto che qualcuno aveva pensato che Valerio volesse in realtĂ  edificare una fortezza quasi inespugnabile. Allora Valerio convoca i comizi e parla all’assemblea rinunciando perĂČ ad esibire le insegne del potere consolare (i fasci con le scuri) per rendere manifesto che la sovranitĂ  apparteneva esclusivamente al popolo10.
Successivamente Valerio avrebbe fatto approvare – almeno secondo la tradizione liviana ritenuta, da taluni, non attendibile – delle leggi a tutela della sovranitĂ  popolare e per contenere il potere dei consoli: nessuno avrebbe potuto arrogarsi la qualitĂ  di magistrato se non eletto dall’assemblea e nessun magistrato avrebbe potuto mettere a morte, fustigare o multare un cittadino se questi si fosse appellato al giudizio popolare (provocatio ad populum), al quale sarebbe dovuto essere obbligatoriamente rimesso per la sentenza definitiva11. Per il rispetto dimostrato verso il popolo Publio Valerio fu soprannominato Publicola, cioĂš amico, devoto, benefattore del popolo e fu rieletto console per altre tre volte. Dionigi osserva che Publicola aveva avuto tante occasioni per arricchirsi e non ne aveva mai approfittato: egli dimostrĂČ che Ăš ricco non chi abbia molte ricchezze, ma chi abbia pochi bisogni. MorĂŹ poverissimo e il senato si assunse gli oneri del funerale12.
Dionigi ci presenta appropriatamente anche il terzo eroe dell’epopea dell’esordio repubblicano: Lucio Quinzio Cincinnato – forse l’eroe piĂč noto –, che i comizi elessero al consolato nel 460 a.C. mentre egli era intento ad arare il suo campicello13. Cincinnato risponde alla chiamata perchĂ© avverte il profilo di doverositĂ  verso la res publica: per lui la titolaritĂ  della suprema carica resta un officium, un servizio, e non Ăš – non puĂČ essere – un vanto perchĂ© la vanagloria non Ăš di chi gerisca una magistratura pubblica, cioĂš del popolo e per il popolo. Occorre, invece, resistere alle lusinghe del potere. Per questo egli rimprovera davanti al popolo quei magistrati che brigano per prolungare il loro mandato o per farsi rieleggere piĂč e piĂč volte14: lui, per parte sua, lascerĂ  il consolato nel giorno stabilito e poi, nel 458, la dittatura addirittura prima della sua scadenza perchĂ© riteneva (a ragione) di aver esaurito il compito affidatogli, quello di sbaragliare gli Equi15. CosĂŹ Cincinnato dimostra perfetta coerenza con quanto aveva predicato: rifiuta ogni ricompensa e torna a casa povero com’era partito.
Sia Livio che Dionigi sottolineano, con parole simili, la prova di virtĂč romana offerta da Cincinnato e la sua valenza emulativa per qualunque cittadino della giovane res publica: l’esercizio della magistratura come un dovere da adempiere con la massima dedizione e senza ambizioni di carriera, di fama o di arricchimento personale; la moderazione e l’equidistanza nella pratica del potere; la frugalitĂ  e la morigeratezza di vita prima, durante e dopo la titolaritĂ  della carica pubblica16.
Questi eroi della res publica – siano vere, parzialmente vere o, invece, leggendarie le loro gesta – riuscirono a trasmettere alle generazioni future, particolarmente alle classi dirigenti, un codice etico di condotta pro re publica: finchĂ© questo codice fu osservato e onorato la repubblica potĂ© conservarsi integra dalla corruzione, che alla fine la travolgerĂ  proprio perchĂ© si diffonderanno i vizi dell’ambitio, dell’avaritia, della luxuria, della licentia. I giovani di quella nobilitas che, nei secoli ...

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