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Per un'ecologia delle relazioni sociali

Tim Ingold

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Per un'ecologia delle relazioni sociali

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"Che cosa succede quando le persone o le cose si aggrappano le une alle altre? Le loro linee si intrecciano, e si devono legare fra loro in modo tale che la tensione che punterebbe a separarle le unisca in realtà più saldamente. Nulla può resistere, a meno che non si produca una linea, e a meno che quella linea non si intrecci con altre."

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Información

Editorial
Treccani
Año
2020
ISBN
9788812008209
Categoría
Scienze sociali
Categoría
Teoria sociale

TERZA PARTE

UMANARE

22

SIAMO VERBI

Andiamo al luglio 1885, sul Monte McGregor, nello Stato di New York, dove il diciottesimo presidente degli Stati Uniti, Ulysses S. Grant, si era ritirato per scrivere le sue memorie. Sul letto di morte, impossibilitato a parlare a causa del cancro alla gola che lo stava uccidendo, Grant scrisse questo appunto al suo medico, John H. Douglas: «Il fatto è che penso di essere un verbo invece che un pronome personale. Un verbo è tutto ciò che significa essere, fare o soffrire. Io esprimo tutte e tre le cose».1 Non c’è modo di sapere esattamente che cosa passasse per la mente di Grant mentre scriveva questo aforisma, perché morì pochi giorni dopo. Il mio scopo nella terza e ultima parte di questo libro, tuttavia, è quello di proporre alcune riflessioni su ciò che forse voleva dire, perché credo che le sue parole racchiudano una soluzione profonda a quello che ritengo essere il problema antropologico più antico e fondamentale: che cosa significa, appunto, pensare di noi stessi che siamo umani?
Più di cinquecento anni prima, sull’isola di Maiorca, lo stesso problema occupava la mente dello scrittore, filosofo e mistico Raimondo Lullo.2 Nato nel 1232 da una famiglia aristocratica, secondo quanto egli stesso racconta, condusse la vita dissoluta del trovatore finché un giorno, mentre componeva una canzone per l’amante del momento, ebbe una visione di Cristo sulla croce. Nei giorni successivi la visione continuò a ripetersi, suscitando in lui un tale allarme che alla fine decise di abbandonare i suoi costumi licenziosi per dedicare il resto della vita all’insegnamento e alla dottrina cristiana. A quel tempo, Maiorca era un centro di commercio nel mondo mediterraneo e un crogiuolo di idee provenienti dall’islam, dell’ebraismo e del cristianesimo. Rendendosi conto che convincere musulmani ed ebrei della verità del cristianesimo significava avvicinarsi all’argomento con spirito ecumenico, Lullo intraprende nove anni di intensi studi, durante i quali, fra l’altro, impara l’arabo da uno schiavo musulmano che aveva comprato, ma con il quale successivamente romperà i rapporti: incarcerato per blasfemia, questi si impicca in prigione, salvando Lullo dalla terribile responsabilità di dover decidere del suo destino (Figura 22.1). Questo studio ha gettato le basi per una vita straordinariamente lunga e prolifica, durante la quale Lullo scrisse circa 280 libri in latino, arabo e catalano, la sua lingua madre. Uno degli ultimi fu la Logica nova, redatta a Genova nel 1303, nel suo settantunesimo anno di vita.
Fortemente ispirato dalla cultura e dalla scienza islamica, Lullo ci presenta in quest’opera un cosmo dinamico in cui tutto ciò che c’è – ogni entità o sostanza – è quello che è grazie all’attività che gli è propria. Per Lullo, le cose sono ciò che fanno. Per esempio, è essenziale che il fuoco bruci. Ciò che alimenta il fuoco, o che viene riscaldato per mezzo di esso, è una questione accidentale o contingente. Si può ardere la legna per riscaldare l’acqua, ma né la legna né l’acqua sono necessarie perché ci sia il fuoco. Ciò che è necessario è che vi sia combustione. Allo stesso modo, il pallore può sbiancare questo o quel corpo, ma c’è solo il pallore quando si impallidisce.3 Che l’esistenza di una cosa o di una sostanza sia indistinguibile dalla sua attività non è, tuttavia, facilmente esprimibile in latino né in lingue che normalmente inglobano il verbo nel predicato, e che quindi separano categoricamente le persone e le cose, in quanto agenti causali, dagli effetti che producono. Per raggiungere quest’obiettivo, Lullo dovette escogitare nuove parole, modellate sulle forme dei verbi arabi che conosceva. Uno di questi neologismi appare quando affronta il problema di definire l’umano. Se ciò che vale per tutto il resto vale anche per gli esseri umani, allora anche questi ultimi devono essere definiti dall’attività che è loro propria. Dove ci sono esseri umani, ci dev’essere in corso qualcosa. Ma che cosa?
FIGURA 22.1. LA STORIA DI RAIMONDO LULLO E IL SARACENO.
FIGURA 22.1. LA STORIA DI RAIMONDO LULLO E IL SARACENO.
I PANNELLI DI QUESTO TRITTICO RAFFIGURANO LULLO CHE PRENDE LEZIONE DAL SUO SCHIAVO (A SINISTRA), È COINVOLTO IN UN ALTERCO SULLA PRESUNTA BLASFEMIA DI QUEST’ULTIMO (AL CENTRO) E LO TROVA IMPICCATO A UN CAPPIO IN CARCERE (A DESTRA). RIPRODOTTO DAL BREVICULUM EX ARTIBUS RAIMUNDI LULLI ELECTUM, ST PETER PERG. 92, FOLIO 3 V, PER GENTILE CONCESSIONE DELLA BADISCHE LANDESBIBLIOTHEK, KARLSRUHE.
Ancora una volta, Lullo deve inventare un verbo: homificare. L’uomo, secondo l’enigmatica definizione di Lullo, è un animale “omificante”: Homo est animal homificans. Quello che gli esseri umani fanno, o come lo fanno, è secondario. Tuttavia, ovunque e ogniqualvolta esistano, vi è omificazione. Gli esseri umani omificano sé stessi, si omificano l’un l’altro, omificano i regni animale e vegetale, e di fatto l’intero universo.4 A Raimondo Lullo, prossimo alla fine della sua lunga vita, come del resto a Ulysses Grant più di cinque secoli dopo, sembrava quindi che la forma grammaticale dell’umano non fosse quella del soggetto, nominale o pronominale, ma quella del verbo. Per gli esseri umani omificare, nel senso che intendeva Lullo, non significa umanizzare il mondo. Cioè, non è – come vorrebbe un’ontologia più consona alla tradizione occidentale – sovrapporre un proprio ordine preconcetto a un substrato di natura dato. Si tratta piuttosto di forgiare la loro esistenza dentro il crogiuolo di un mondo della vita comune. La loro condizione di umani non è data dall’inizio, come condizione a priori, bensì emerge come una conquista produttiva alla quale devono continuamente lavorare per tutta la vita, senza mai raggiungere una conclusione finale.
Questa visione trova un’eco negli scritti del filosofo spagnolo del Novecento José Ortega y Gasset. In un celebre saggio intitolato La storia come sistema, scritto nel 1935 appena prima dello scoppio della guerra civile spagnola, sostiene che la forma grammaticale della vita umana è quella del gerundio, in continuo divenire, «un faciendum e non un factum».5 Per questo motivo, egli pensa, gli appelli alla natura umana o, in alternativa, allo spirito umano sono errati. Parlare del corpo umano o dell’anima, o della psiche o spirito, significa supporre che una cosa del genere si sia già cristallizzata, in forma fissa e definitiva, dai processi che l’hanno generata. Significa porre, all’origine, una conclusione che non viene mai effettivamente raggiunta. Perché in verità, dove c’è vita umana non c’è nulla se non il fatto che accade sempre qualcosa: «l’unica cosa che ci è data e che c’è quando c’è vita umana è il doversela fare, ognuno la sua. […] La vita è darsi daffare». La vita, quindi, non è; va avanti. Infatti, come osserva Ortega, il nostro modo abituale di riferirci a noi stessi come esseri umani è piuttosto assurdo. Come si può continuare a essere? È come chiedere a noi stessi di andare avanti e di rimanere al contempo nello stesso posto.6
Forse, allora, dovremmo sostituire a “essere” la parola “divenire”. Come esemplificazioni del vivere-creando, non dovremmo piuttosto definirci dei divenire umani? In un’interessante digressione, Ortega esclude tale alternativa, con riferimento critico a un autore filosofico con il quale, per il resto, si sente in grande sintonia. Quell’autore era Henri Bergson. Anche per Bergson, tutto succedeva. Tutto era movimento, crescita, divenire: le forme apparentemente fisse delle cose altro non erano se non gli involucri di processi vitali. L’essere, dice Bergson, sta nel farsi: l’être en se faisant. Tuttavia, nel lessico di Bergson se faire, farsi, è un semplice sinonimo di devenir, divenire. Ortega insiste, al contrario, sul fatto che il compito umano del farsi sia più del semplice divenire e che il costruire la vita sia più del semplice vivere. Gli esseri umani sono letteralmente artefici di loro stessi, si auto-fabbricano.7 A differenza di altri animali che semplicemente diventano qualunque cosa sia nella loro natura, l’uomo – sostiene Ortega – deve per forza stabilire che cosa voglia diventare. La realizzazione dell’essere umano, dice Ortega, è sempre differita, sempre un “non ancora”, in una parola, un’“aspirazione”. E proprio perché aspirano alle cose, gli esseri umani incontrano anche difficoltà nella loro realizzazione.8 La vita non è difficile per l’animale, perché non ambisce a ciò che non è immediatamente raggiungibile, ma non per questo è facile. La differenza tra facile e difficile non preoccupa l’animale. Ma per gli esseri umani, presi come sono fra il raggiungimento dell’aspirazione e la conquista dell’apprensione o apprendimento, è una preoccupazione senza fine.
In altre parole, rispetto all’animale, nel cui orizzonte non c’è passato né futuro, ma solo un qui e ora in continua evoluzione, il movimento della vita umana si estende temporalmente. Davanti c’è il “non ancora” dell’aspirazione, dietro c’è il “già” dell’apprensione. Al tempo stesso “già” e “non ancora”, gli esseri umani – potremmo dire – sono costituzionalmente più avanti di loro stessi. Mentre altre creature devono essere ciò che sono per fare quello che fanno, per gli esseri umani è il contrario. Devono fare ciò che fanno per essere quello che sono. Non è il volo a rendere tale un uccello, ma è il parlare a renderci umani. Non che gli esseri umani diventino anziché essere; piuttosto, il loro divenire va di continuo oltre il loro essere. Questo, a mio avviso, è ciò che Lullo aveva in mente quando parlava dell’uomo come animale omificante. Inoltre, penso che a livello semiconsapevole lo proviamo tut...

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