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Odissea
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Odissea di Omero, tradotta da Ippolito Pindemonte
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Informations
Sujet
LiteraturaSous-sujet
Colecciones literarias europeasLibro 1
Musa, quell'uom di multiforme ingegno
Dimmi, che molto errĂČ, poich'ebbe a terra
Gittate d'IlĂŻĂČn le sacre torri;
Che cittĂ vide molte, e delle genti
L'indol conobbe; che sovr'esso il mare
Molti dentro del cor sofferse affanni,
Mentre a guardar la cara vita intende,
E i suoi compagni a ricondur: ma indarno
Ricondur desĂŻava i suoi compagni,
Ché delle colpe lor tutti periro.
Stolti! che osaro vĂŻolare i sacri
Al Sole IperĂŻon candidi buoi
Con empio dente, ed irritĂąro il nume,
Che del ritorno il dĂŹ lor non addusse.
Deh! parte almen di sĂŹ ammirande cose
Narra anco a noi, di Giove figlia e diva.
GiĂ tutti i Greci, che la nera Parca
Rapiti non avea, ne' loro alberghi
Fuor dell'arme sedeano e fuor dell'onde;
Sol dal suo regno e dalla casta donna
Rimanea lungi Ulisse: il ritenea
Nel cavo sen di solitarie grotte
La bella venerabile Calipso,
Che unirsi a lui di maritali nodi
Bramava pur, ninfa quantunque e diva.
E poiché giunse al fin, volvendo gli anni,
La destinata dagli dĂši stagione
Del suo ritorno, in Itaca, novelle
Tra i fidi amici ancor pene durava.
Tutti pietĂ ne risentĂŹan gli eterni,
Salvo Nettuno, in cui l'antico sdegno
Prima non si stancĂČ, che alla sua terra
Venuto fosse il pellegrino illustre.
Ma del mondo ai confini e alla remota
Gente degli EtĂŻĂČpi (in duo divisa,
Ver cui quinci il sorgente ed il cadente
Sole gli obbliqui rai quindi saetta)
Nettun condotto a un ecatombe s'era
Di pingui tori e di montoni; ed ivi
Rallegrava i pensieri, a mensa assiso.
In questo mezzo gli altri dĂši raccolti
Nella gran reggia dell'olimpio Giove
Stavansi. E primo a favellar tra loro
Fu degli uomini il padre e de' celesti,
Che il bello Egisto rimembrava, a cui
Tolto avea di sua man la vita Oreste,
L'inclito figlio del piĂč vecchio Atride.
"Poh!" disse Giove, "incolperĂ l'uom dunque
Sempre gli dĂši? Quando a se stesso i mali
Fabbrica, de' suoi mali a noi dĂ carco,
E la stoltezza sua chiama destino.
CosĂŹ, non tratto dal destino, Egisto
DisposĂł d'Agamennone la donna,
E lui, da Troia ritornato, spense;
Benché conscio dell'ultima ruina
Che l'Argicida esplorator Mercurio,
Da noi mandato, prediceagli: "Astienti
Dal sangue dell'Atride, ed il suo letto
Guà rdati di salir; ché alta vendetta
Ne farĂ Oreste, come il volto adorni
Della prima lanuggine e lo sguardo
Verso il retaggio de' suoi padri volga".
Ma questi di Mercurio utili avvisi
Colui nell'alma non accolse: quindi
PagĂČ il fio d'ogni colpa in un sol punto".
"Di Saturno figliuol, padre de' numi,
Re de' regnanti", cosĂŹ a lui rispose
L'occhiazzurra Minerva: "egli era dritto
Che colui non vivesse: in simil foggia
Pera chĂŻunque in simil foggia vive!
Ma io di doglia per l'egregio Ulisse
Mi struggo, lasso! che, da' suoi lontano,
Giorni conduce di rammarco in quella
Isola, che del mar giace nel cuore,
E di selve nereggia;:isola, dove
Soggiorna entro alle sue celle secrete
L'immortal figlia di quel saggio Atlante,
Che del mar tutto i piĂč riposti fondi
Conosce e regge le colonne immense
Che la volta sopportano del cielo.
Pensoso, inconsolabile, l'accorta ninfa il ritiene e con soavi e molli
Parolette carezzalo, se mai
Potesse Itaca sua trargli dal petto:
Ma ei non brama che veder dai tetti
Sbalzar della sua dolce Itaca il fumo,
E poi chiuder per sempre al giorno i lumi.
NĂ© commuovere, Olimpio, il cuor ti senti?
Grati d'Ulisse i sagrifici, al greco
Navile appresso, ne' troiani campi,
Non t'eran forse? Onde rancor sĂŹ fiero,
Giove, contra lui dunque in te s'alletta?"
"Figlia, qual ti lasciasti uscir parola
Dalla chiostra de' denti?" allor riprese
L'eterno delle nubi addensatore:
"Io l'uom preclaro disgradir, che in senno
Vince tutti i mortali, e gl'Immortali
Sempre onorĂČ di sacrifici opĂŹmi?
Nettuno, il nume che la terra cinge,
D'infurĂŻar non resta pel divino
Suo Polifemo, a cui lo scaltro Ulisse
Dell'unic'occhio vedovĂČ la fronte,
BenchĂ© possente piĂč d'ogni Ciclope:
Pel divin Polifemo, che ToĂČsa
PartorĂŹ al nume, che pria lei soletta
Di Forco, re degl'infecondi mari,
Nelle cave trovĂČ paterne grotte.
Lo scuotitor della terrena mole
Dalla patria il disvia da quell'istante,
E, lasciandolo in vita, a errar su i neri
Flutti lo sforza. Or via, pensiam del modo
Che l'infelice rieda; e che Nettuno
L'ire deponga. PugnerĂ con tutti
Gli eterni ei solo? Il tenterebbe indarno."
"Di Saturno figliuol, padre de' numi,
De' regi re," replicĂČ a lui la diva
Cui tinge gli occhi un'azzurrina luce,
"Se il ritorno d'Ulisse a tutti aggrada,
Ché non s'invÏa nell'isola d'Ogige
L'ambasciator Mercurio, il qual veloce
Rechi alla ninfa dalle belle trecce,
Com'Ăš fermo voler de' sempiterni
Che Ulisse alfine il natĂŹo suol rivegga?
Scesa in Itaca intanto, animo e forza
Nel figlio io spirerĂČ, perch'ei, chiamati
Gli Achei criniti a parlamento, imbrigli
Que' proci baldi, che nel suo palagio
L'intero gregge sgĂČzzangli, e l'armento
Dai piedi torti e dalle torte corna.
CiĂČ fatto, a Pilo io manderollo e a Sparta,
Acciocché sappia del suo caro padre,
Se udirne gli avvenisse in qualche parte,
Ed anch'ei fama, vĂŻaggiando, acquisti."
Detto cosĂŹ, sotto l'eterne piante
Si strinse i bei talar d'oro, immortali,
Che lei sul mar, lei su l'immensa terra
Col soffio trasportavano del vento.
Poi la grande afferrĂČ lancia pesante,
Forte, massiccia, di appuntato rame
Guernita in cima, onde le intere doma
Falangi degli eroi, con cui si sdegna,
E a cui sentir fa di qual padre Ăš nata.
Dagli alti gioghi del beato Olimpo
Rapidamente in Itaca discese.
Si fermĂČ all'atrio del palagio in faccia,
Del cortil su la soglia, e le sembianze
Vesti di Mente, il condottier de' TafĂź.
La forbita in sua man lancia sfavilla.
Nel regale atrio, e su le fresche pelli
Degli uccisi da lor pingui giovenchi
Sedeano, e trastullavansi tra loro
Con gli schierati combattenti bossi
Della Regina i mal vissuti drudi.
Trascorrean qua e lĂ serventi e araldi
Frattanto: altri mescean nelle capaci
Urne l'umor dell'uva e il fresco fonte.
Altri le mense con forata e ingorda
Spugna tergeano, e le metteano innanzi,
E le molte partĂŹan fumanti carni.
Simile a un dio nella beltĂ , ma lieto
Non giĂ dentro del sen, sedea tra i proci
Telemaco: mirava entro il suo spirto
L'inclito genitor, qual s'ei, d'alcuna
Parte spuntando, a sbaragliar si desse
Per l'ampia sala gli ...
Dimmi, che molto errĂČ, poich'ebbe a terra
Gittate d'IlĂŻĂČn le sacre torri;
Che cittĂ vide molte, e delle genti
L'indol conobbe; che sovr'esso il mare
Molti dentro del cor sofferse affanni,
Mentre a guardar la cara vita intende,
E i suoi compagni a ricondur: ma indarno
Ricondur desĂŻava i suoi compagni,
Ché delle colpe lor tutti periro.
Stolti! che osaro vĂŻolare i sacri
Al Sole IperĂŻon candidi buoi
Con empio dente, ed irritĂąro il nume,
Che del ritorno il dĂŹ lor non addusse.
Deh! parte almen di sĂŹ ammirande cose
Narra anco a noi, di Giove figlia e diva.
GiĂ tutti i Greci, che la nera Parca
Rapiti non avea, ne' loro alberghi
Fuor dell'arme sedeano e fuor dell'onde;
Sol dal suo regno e dalla casta donna
Rimanea lungi Ulisse: il ritenea
Nel cavo sen di solitarie grotte
La bella venerabile Calipso,
Che unirsi a lui di maritali nodi
Bramava pur, ninfa quantunque e diva.
E poiché giunse al fin, volvendo gli anni,
La destinata dagli dĂši stagione
Del suo ritorno, in Itaca, novelle
Tra i fidi amici ancor pene durava.
Tutti pietĂ ne risentĂŹan gli eterni,
Salvo Nettuno, in cui l'antico sdegno
Prima non si stancĂČ, che alla sua terra
Venuto fosse il pellegrino illustre.
Ma del mondo ai confini e alla remota
Gente degli EtĂŻĂČpi (in duo divisa,
Ver cui quinci il sorgente ed il cadente
Sole gli obbliqui rai quindi saetta)
Nettun condotto a un ecatombe s'era
Di pingui tori e di montoni; ed ivi
Rallegrava i pensieri, a mensa assiso.
In questo mezzo gli altri dĂši raccolti
Nella gran reggia dell'olimpio Giove
Stavansi. E primo a favellar tra loro
Fu degli uomini il padre e de' celesti,
Che il bello Egisto rimembrava, a cui
Tolto avea di sua man la vita Oreste,
L'inclito figlio del piĂč vecchio Atride.
"Poh!" disse Giove, "incolperĂ l'uom dunque
Sempre gli dĂši? Quando a se stesso i mali
Fabbrica, de' suoi mali a noi dĂ carco,
E la stoltezza sua chiama destino.
CosĂŹ, non tratto dal destino, Egisto
DisposĂł d'Agamennone la donna,
E lui, da Troia ritornato, spense;
Benché conscio dell'ultima ruina
Che l'Argicida esplorator Mercurio,
Da noi mandato, prediceagli: "Astienti
Dal sangue dell'Atride, ed il suo letto
Guà rdati di salir; ché alta vendetta
Ne farĂ Oreste, come il volto adorni
Della prima lanuggine e lo sguardo
Verso il retaggio de' suoi padri volga".
Ma questi di Mercurio utili avvisi
Colui nell'alma non accolse: quindi
PagĂČ il fio d'ogni colpa in un sol punto".
"Di Saturno figliuol, padre de' numi,
Re de' regnanti", cosĂŹ a lui rispose
L'occhiazzurra Minerva: "egli era dritto
Che colui non vivesse: in simil foggia
Pera chĂŻunque in simil foggia vive!
Ma io di doglia per l'egregio Ulisse
Mi struggo, lasso! che, da' suoi lontano,
Giorni conduce di rammarco in quella
Isola, che del mar giace nel cuore,
E di selve nereggia;:isola, dove
Soggiorna entro alle sue celle secrete
L'immortal figlia di quel saggio Atlante,
Che del mar tutto i piĂč riposti fondi
Conosce e regge le colonne immense
Che la volta sopportano del cielo.
Pensoso, inconsolabile, l'accorta ninfa il ritiene e con soavi e molli
Parolette carezzalo, se mai
Potesse Itaca sua trargli dal petto:
Ma ei non brama che veder dai tetti
Sbalzar della sua dolce Itaca il fumo,
E poi chiuder per sempre al giorno i lumi.
NĂ© commuovere, Olimpio, il cuor ti senti?
Grati d'Ulisse i sagrifici, al greco
Navile appresso, ne' troiani campi,
Non t'eran forse? Onde rancor sĂŹ fiero,
Giove, contra lui dunque in te s'alletta?"
"Figlia, qual ti lasciasti uscir parola
Dalla chiostra de' denti?" allor riprese
L'eterno delle nubi addensatore:
"Io l'uom preclaro disgradir, che in senno
Vince tutti i mortali, e gl'Immortali
Sempre onorĂČ di sacrifici opĂŹmi?
Nettuno, il nume che la terra cinge,
D'infurĂŻar non resta pel divino
Suo Polifemo, a cui lo scaltro Ulisse
Dell'unic'occhio vedovĂČ la fronte,
BenchĂ© possente piĂč d'ogni Ciclope:
Pel divin Polifemo, che ToĂČsa
PartorĂŹ al nume, che pria lei soletta
Di Forco, re degl'infecondi mari,
Nelle cave trovĂČ paterne grotte.
Lo scuotitor della terrena mole
Dalla patria il disvia da quell'istante,
E, lasciandolo in vita, a errar su i neri
Flutti lo sforza. Or via, pensiam del modo
Che l'infelice rieda; e che Nettuno
L'ire deponga. PugnerĂ con tutti
Gli eterni ei solo? Il tenterebbe indarno."
"Di Saturno figliuol, padre de' numi,
De' regi re," replicĂČ a lui la diva
Cui tinge gli occhi un'azzurrina luce,
"Se il ritorno d'Ulisse a tutti aggrada,
Ché non s'invÏa nell'isola d'Ogige
L'ambasciator Mercurio, il qual veloce
Rechi alla ninfa dalle belle trecce,
Com'Ăš fermo voler de' sempiterni
Che Ulisse alfine il natĂŹo suol rivegga?
Scesa in Itaca intanto, animo e forza
Nel figlio io spirerĂČ, perch'ei, chiamati
Gli Achei criniti a parlamento, imbrigli
Que' proci baldi, che nel suo palagio
L'intero gregge sgĂČzzangli, e l'armento
Dai piedi torti e dalle torte corna.
CiĂČ fatto, a Pilo io manderollo e a Sparta,
Acciocché sappia del suo caro padre,
Se udirne gli avvenisse in qualche parte,
Ed anch'ei fama, vĂŻaggiando, acquisti."
Detto cosĂŹ, sotto l'eterne piante
Si strinse i bei talar d'oro, immortali,
Che lei sul mar, lei su l'immensa terra
Col soffio trasportavano del vento.
Poi la grande afferrĂČ lancia pesante,
Forte, massiccia, di appuntato rame
Guernita in cima, onde le intere doma
Falangi degli eroi, con cui si sdegna,
E a cui sentir fa di qual padre Ăš nata.
Dagli alti gioghi del beato Olimpo
Rapidamente in Itaca discese.
Si fermĂČ all'atrio del palagio in faccia,
Del cortil su la soglia, e le sembianze
Vesti di Mente, il condottier de' TafĂź.
La forbita in sua man lancia sfavilla.
Nel regale atrio, e su le fresche pelli
Degli uccisi da lor pingui giovenchi
Sedeano, e trastullavansi tra loro
Con gli schierati combattenti bossi
Della Regina i mal vissuti drudi.
Trascorrean qua e lĂ serventi e araldi
Frattanto: altri mescean nelle capaci
Urne l'umor dell'uva e il fresco fonte.
Altri le mense con forata e ingorda
Spugna tergeano, e le metteano innanzi,
E le molte partĂŹan fumanti carni.
Simile a un dio nella beltĂ , ma lieto
Non giĂ dentro del sen, sedea tra i proci
Telemaco: mirava entro il suo spirto
L'inclito genitor, qual s'ei, d'alcuna
Parte spuntando, a sbaragliar si desse
Per l'ampia sala gli ...