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Odissea di Omero, tradotta da Ippolito Pindemonte

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Informations

Éditeur
Omero
Année
2016
ISBN
9786050474176

Libro 1

Musa, quell'uom di multiforme ingegno

Dimmi, che molto errĂČ, poich'ebbe a terra

Gittate d'IlĂŻĂČn le sacre torri;

Che cittĂ  vide molte, e delle genti

L'indol conobbe; che sovr'esso il mare

Molti dentro del cor sofferse affanni,

Mentre a guardar la cara vita intende,

E i suoi compagni a ricondur: ma indarno

Ricondur desĂŻava i suoi compagni,

Ché delle colpe lor tutti periro.

Stolti! che osaro vĂŻolare i sacri

Al Sole IperĂŻon candidi buoi

Con empio dente, ed irritĂąro il nume,

Che del ritorno il dĂŹ lor non addusse.

Deh! parte almen di sĂŹ ammirande cose

Narra anco a noi, di Giove figlia e diva.

GiĂ  tutti i Greci, che la nera Parca

Rapiti non avea, ne' loro alberghi

Fuor dell'arme sedeano e fuor dell'onde;

Sol dal suo regno e dalla casta donna

Rimanea lungi Ulisse: il ritenea

Nel cavo sen di solitarie grotte

La bella venerabile Calipso,

Che unirsi a lui di maritali nodi

Bramava pur, ninfa quantunque e diva.

E poiché giunse al fin, volvendo gli anni,

La destinata dagli dĂši stagione

Del suo ritorno, in Itaca, novelle

Tra i fidi amici ancor pene durava.

Tutti pietĂ  ne risentĂŹan gli eterni,

Salvo Nettuno, in cui l'antico sdegno

Prima non si stancĂČ, che alla sua terra

Venuto fosse il pellegrino illustre.

Ma del mondo ai confini e alla remota

Gente degli EtĂŻĂČpi (in duo divisa,

Ver cui quinci il sorgente ed il cadente

Sole gli obbliqui rai quindi saetta)

Nettun condotto a un ecatombe s'era

Di pingui tori e di montoni; ed ivi

Rallegrava i pensieri, a mensa assiso.

In questo mezzo gli altri dĂši raccolti

Nella gran reggia dell'olimpio Giove

Stavansi. E primo a favellar tra loro

Fu degli uomini il padre e de' celesti,

Che il bello Egisto rimembrava, a cui

Tolto avea di sua man la vita Oreste,

L'inclito figlio del piĂč vecchio Atride.

"Poh!" disse Giove, "incolperĂ  l'uom dunque

Sempre gli dĂši? Quando a se stesso i mali

Fabbrica, de' suoi mali a noi dĂ  carco,

E la stoltezza sua chiama destino.

CosĂŹ, non tratto dal destino, Egisto

DisposĂł d'Agamennone la donna,

E lui, da Troia ritornato, spense;

Benché conscio dell'ultima ruina

Che l'Argicida esplorator Mercurio,

Da noi mandato, prediceagli: "Astienti

Dal sangue dell'Atride, ed il suo letto

Guàrdati di salir; ché alta vendetta

Ne farĂ  Oreste, come il volto adorni

Della prima lanuggine e lo sguardo

Verso il retaggio de' suoi padri volga".

Ma questi di Mercurio utili avvisi

Colui nell'alma non accolse: quindi

PagĂČ il fio d'ogni colpa in un sol punto".

"Di Saturno figliuol, padre de' numi,

Re de' regnanti", cosĂŹ a lui rispose

L'occhiazzurra Minerva: "egli era dritto

Che colui non vivesse: in simil foggia

Pera chĂŻunque in simil foggia vive!

Ma io di doglia per l'egregio Ulisse

Mi struggo, lasso! che, da' suoi lontano,

Giorni conduce di rammarco in quella

Isola, che del mar giace nel cuore,

E di selve nereggia;:isola, dove

Soggiorna entro alle sue celle secrete

L'immortal figlia di quel saggio Atlante,

Che del mar tutto i piĂč riposti fondi

Conosce e regge le colonne immense

Che la volta sopportano del cielo.

Pensoso, inconsolabile, l'accorta ninfa il ritiene e con soavi e molli

Parolette carezzalo, se mai

Potesse Itaca sua trargli dal petto:

Ma ei non brama che veder dai tetti

Sbalzar della sua dolce Itaca il fumo,

E poi chiuder per sempre al giorno i lumi.

NĂ© commuovere, Olimpio, il cuor ti senti?

Grati d'Ulisse i sagrifici, al greco

Navile appresso, ne' troiani campi,

Non t'eran forse? Onde rancor sĂŹ fiero,

Giove, contra lui dunque in te s'alletta?"

"Figlia, qual ti lasciasti uscir parola

Dalla chiostra de' denti?" allor riprese

L'eterno delle nubi addensatore:

"Io l'uom preclaro disgradir, che in senno

Vince tutti i mortali, e gl'Immortali

Sempre onorĂČ di sacrifici opĂŹmi?

Nettuno, il nume che la terra cinge,

D'infurĂŻar non resta pel divino

Suo Polifemo, a cui lo scaltro Ulisse

Dell'unic'occhio vedovĂČ la fronte,

BenchĂ© possente piĂč d'ogni Ciclope:

Pel divin Polifemo, che ToĂČsa

PartorĂŹ al nume, che pria lei soletta

Di Forco, re degl'infecondi mari,

Nelle cave trovĂČ paterne grotte.

Lo scuotitor della terrena mole

Dalla patria il disvia da quell'istante,

E, lasciandolo in vita, a errar su i neri

Flutti lo sforza. Or via, pensiam del modo

Che l'infelice rieda; e che Nettuno

L'ire deponga. PugnerĂ  con tutti

Gli eterni ei solo? Il tenterebbe indarno."

"Di Saturno figliuol, padre de' numi,

De' regi re," replicĂČ a lui la diva

Cui tinge gli occhi un'azzurrina luce,

"Se il ritorno d'Ulisse a tutti aggrada,

Ché non s'invÏa nell'isola d'Ogige

L'ambasciator Mercurio, il qual veloce

Rechi alla ninfa dalle belle trecce,

Com'Ăš fermo voler de' sempiterni

Che Ulisse alfine il natĂŹo suol rivegga?

Scesa in Itaca intanto, animo e forza

Nel figlio io spirerĂČ, perch'ei, chiamati

Gli Achei criniti a parlamento, imbrigli

Que' proci baldi, che nel suo palagio

L'intero gregge sgĂČzzangli, e l'armento

Dai piedi torti e dalle torte corna.

CiĂČ fatto, a Pilo io manderollo e a Sparta,

Acciocché sappia del suo caro padre,

Se udirne gli avvenisse in qualche parte,

Ed anch'ei fama, vĂŻaggiando, acquisti."

Detto cosĂŹ, sotto l'eterne piante

Si strinse i bei talar d'oro, immortali,

Che lei sul mar, lei su l'immensa terra

Col soffio trasportavano del vento.

Poi la grande afferrĂČ lancia pesante,

Forte, massiccia, di appuntato rame

Guernita in cima, onde le intere doma

Falangi degli eroi, con cui si sdegna,

E a cui sentir fa di qual padre Ăš nata.

Dagli alti gioghi del beato Olimpo

Rapidamente in Itaca discese.

Si fermĂČ all'atrio del palagio in faccia,

Del cortil su la soglia, e le sembianze

Vesti di Mente, il condottier de' TafĂź.

La forbita in sua man lancia sfavilla.

Nel regale atrio, e su le fresche pelli

Degli uccisi da lor pingui giovenchi

Sedeano, e trastullavansi tra loro

Con gli schierati combattenti bossi

Della Regina i mal vissuti drudi.

Trascorrean qua e lĂ  serventi e araldi

Frattanto: altri mescean nelle capaci

Urne l'umor dell'uva e il fresco fonte.

Altri le mense con forata e ingorda

Spugna tergeano, e le metteano innanzi,

E le molte partĂŹan fumanti carni.

Simile a un dio nella beltĂ , ma lieto

Non giĂ  dentro del sen, sedea tra i proci

Telemaco: mirava entro il suo spirto

L'inclito genitor, qual s'ei, d'alcuna

Parte spuntando, a sbaragliar si desse

Per l'ampia sala gli ...

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