La Speciale normalità
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La Speciale normalità

Dario Ianes

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La Speciale normalità

Dario Ianes

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Per realizzare una buona qualità dell'integrazione scolastica degli alunni con disabilità e un'efficace azione inclusiva per i molti più alunni con Bisogni Educativi Speciali abbiamo la necessità di rendere sempre più "speciale" la "normalità" del far scuola tutti i giorni. La normalità della didattica e delle attività educative e formative va decisamente arricchita di strategie efficaci e aspetti tecnici che provengono dalla pedagogia speciale (special education) e dalla psicologia dell'educazione. In questo modo, per l'alunno disabile o con Bisogni Educativi Speciali, la normalità del relazionarsi e dell'imparare con tutti gli altri alunni, che gli dà identità, appartenenza, sicurezza, autostima, ecc. (e che è un diritto ben espresso nella nostra legislazione) riesce anche ad essere efficace a produrre apprendimenti e nell'aiuto concreto rispetto alle sue specifiche problematiche, anche complesse. L'alunno con disabilità/Bisogni Educativi Speciali ha infatti sia il diritto all'integrazione che il diritto a risposte specifiche e efficaci. Le due cose non sono affatto in contraddizione, come non lo sono la normalità e la specialità, se le combiniamo nella «speciale normalità». Visita il sito dell'autore: www.darioianes.it

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Informations

Année
2013
ISBN
9788859003557

1. Il doppio valore della normalità

«Io voglio fare come gli altri.
Io vorrei andare nei laboratori di chimica e fisica.»
(Dall’intervista a un alunno disabile
di scuola superiore, in CDH di Bologna e Modena
Bambini imparate a fare le cose difficili
Erickson, 2003, p. 61)
Io voglio fare come gli altri. Ci voleva proprio la splendida sintesi di un alunno disabile per racchiudere, come in un cristallo, i molteplici sensi della «normalità». Voglio fare come gli altri, prima di tutto perché valgo come gli altri (ho gli stessi diritti); voglio fare come gli altri anche perché è un mio bisogno profondo. Fare come gli altri è un valore in sé, ma vale anche come strumento di sviluppo, e voglio fare come gli altri anche per voi, per gli altri stessi, per la coesione e la crescita del nostro gruppo.
Normalità dunque come uguaglianza di valore. Alla normalità si deve dare un primo significato (e valore) come identità dei diritti: normalità come pari valore di ognuno, uguaglianza dei diritti, a prescindere dalle condizioni personali, sociali, ecc. Il pari valore intrinseco di ogni persona è alla base dell’intero corpus di leggi e norme del nostro Paese, partendo dalla Costituzione. Nella nostra legislazione si affermano infatti i pari diritti e le pari opportunità di tutti, la pari dignità delle persone, e ci si impegna a rimuovere eventuali ostacoli che impediscano la realizzazione delle potenzialità di ognuno.
Bisogno di normalità, dunque, come affermazione del possesso degli stessi diritti di tutti gli altri, dell’essere soggetto di valore pari a quello di tutti gli altri e di avere pari opportunità. Anzi, diritto a compensazioni e aiuti se qualcosa ostacola la realizzazione del proprio potenziale: si pensi alla lezione di Don Milani «dare di più a chi ha di meno», non solo garantire a tutti le stesse possibilità.
La lotta per l’integrazione scolastica, per le varie forme di deistituzionalizzazione, le lotte per i diritti umani in tutto il mondo partono ovviamente da questo bisogno di uguaglianza, dal bisogno di essere considerati pari agli altri, non inferiori. Sentirsi normali nel senso di sentirsi di pari valore, anche se profondamente diversi.
Questo bisogno di normalità non nega la diversità o il bisogno speciale dei deficit o delle patologie specifiche, soltanto li colloca all’interno di un fondamentale ed essenziale bisogno di normalità, di valore e di dignità. L’affermazione dell’uguaglianza e del pari valore non nega le reali diversità delle persone, ma non le usa come discriminanti o per giustificare la riduzione di diritti e opportunità. I genitori che, per primi, negli anni Settanta, cercavano di superare le resistenze all’integrazione scolastica dei loro figli disabili lottavano per la possibilità di frequentare una scuola normale, di tutti, perché sentivano che il valore del loro figlio era normale, era pari a quello di tutti gli altri. Non credevano certo che il loro figlio fosse normale!
Ma la normalità non è soltanto «valore normale», cioè uguale di ogni persona, è anche fare come tutti, vivere con tutti gli altri, fare le esperienze che tutti gli altri fanno, nelle istituzioni, nelle aspettative, nelle consuetudini, nelle abitudini, nei rituali, nei luoghi «normali», quelli cioè «di tutti», non soltanto di qualcuno. Ci aiuta, in questa analisi, la definizione di «normalità» che dà un filosofo, Nicola Abbagnano:
Ciò che è conforme a un’abitudine o a una consuetudine, o a una media approssimativa o matematica, o all’equilibrio fisico o psichico. In questo senso si dice, ad esempio, «condurre una vita normale» per dire una vita conforme alle consuetudini di un certo gruppo sociale; o «ha un peso normale» per dire che ha il peso corrispondente alla media di quello degli individui della stessa età, razza, ecc. (Abbagnano, 1971, p. 765)
Ognuno di noi, anche se gravemente disabile, ha un profondo bisogno di normalità, per realizzare al meglio, attraverso di essa, la sua socializzazione primaria e secondaria (Dubar, 2004). Ma cosa troviamo nella normalità? Forse il bisogno che più si soddisfa nella normalità è quello di sviluppare la nostra identità sociale, ma di questo discuteremo tra breve. Nella normalità si trova appartenenza e coesione con altri, con la maggioranza degli altri, si sente di appartenere a un gruppo forte. Questo senso di appartenenza può anche assumere le forme estreme del conformismo (Mucchi Faina, 1997) e dello spirito gregario, la «voce del branco», ma è prima di tutto un forte riconoscimento della comune appartenenza che sta alla base di tutte le relazioni e i rapporti sociali. Il senso di appartenenza alla normalità crea anche coesione sociale tra gruppi che potrebbero altrimenti non aver alcun rapporto e legame reciproci, come ad esempio gli alunni disabili in una scuola speciale e gli alunni che frequentano una scuola normale. Si leggano in questo senso le righe di Stephen King, il celebre romanziere di fiction molto attento alla realtà antropologica contemporanea:
Duddits non l’avevano incontrato a scuola perché lui non andava alle medie di Derry, bensì alla scuola speciale, nota ai ragazzi del luogo come «l’Accademia dei rinco» oppure «la scuola degli scemi». Nel normale corso degli eventi, le loro strade non si sarebbero mai incrociate... (King, 2001, p. 125)
E, poco più avanti, un altro segno di lontananza, di estraneità di un gruppo, quello dei disabili, respinto e ridotto addirittura a paesaggio (la «disumanizzazione»):
[...] passano davanti all’Accademia dei rinco sull’altro lato della strada senza neppure vederli. I ritardati escono alla loro stessa ora, ma gran parte di loro va a casa con la madre sull’autobus speciale [...] alcuni handicappati più evoluti che hanno il permesso di tornare a casa da soli passano cazzeggiando con le loro strane espressioni perennemente perplesse. Pete e i suoi amici li guardano senza vederli, come sempre. Sono parte del paesaggio. (King, 2001, p. 125)
I ragazzi normali e quelli disabili non si incontrano, si ignorano, la coesione sociale si allenta, si disgregano i legami più ampi di appartenenza e si rinforzano i microlegami dentro i rispettivi gruppi: quello degli alunni normali e quello dei «rinco», che non vengono neppure veduti, quasi come fossero un elemento inanimato dello sfondo, con il quale non ci sono relazioni. Appartenere invece tutti alla stesso gruppo crea coesione e limita la separazione in sottogruppi. Non occorre certo dire che il sentirsi in un gruppo lontano (o meglio allontanato) dalla normalità genera sofferenza:
Quando mi sento escluso dagli altri della classe allora io prendo la mia roba e me ne vado. (CDH Bologna e CDH Modena, 2003, p. 61)
Appartenere alla normalità produce invece senso di vicinanza affettiva ed emotiva, valorizzazione e sicurezza, autostima e calore; per usare un’altra espressione ancora di Stephen King, ti fa «sentire in paradiso», perché si partecipa a qualcosa di normale, ad esempio si va nella scuola dei «normali», o ci si relaziona con persone considerate normali.
Andare a scuola in compagnia dei ragazzi grandi? Che vanno a quella che lui (il figlio disabile) chiama la scuola «vera»? Gli sembrerebbe di essere in paradiso. (King, 2001, p. 177)
Questo benessere psicologico non è soltanto a senso unico, non ne beneficia, cioè, soltanto la persona debole, quella che aspira alla normalità perché non è normale. Tutti ne abbiamo bisogno e tutti godiamo dei benefici della normalità e dell’appartenenza alla normalità di tutti, anche di chi ha differenze. Gli amici normali del ragazzo disabile Duddits, dopo aver deciso di accompagnarlo a scuola, dicono:
«Okay», dice Henry. «Passiamo qui alle otto meno un quarto e lo accompagniamo a scuola. E lo riportiamo a casa nel pomeriggio.» [...]
Lo accompagneranno a scuola per i prossimi cinque anni, esclusi i giorni in cui è ammalato…negli ultimi tempi Duddits non va più alla scuola speciale, detta anche l’«Accademia dei rinco», ma alla scuola professionale, dove impara a fare biscotti, a sostituire la batteria dell’auto, a contare il resto e a farsi il nodo della cravatta (che è sempre perfetto, anche se talvolta gli scende a metà del petto). In quegli anni, Duddits cresce sino a superarli tutti in statura, diventando un adolescente dinoccolato con una faccia infantile di peculiare bellezza. In quegli anni gli insegnano a giocare a Monopoli in versione semplificata; inventano il Gioco di Duddits e si intrattengono in partite senza fine, talvolta ridendo così forte […] Duddits, entrando nelle loro vite, ha fatto loro un gran favore. Duddits che, come hanno capito sin dall’inizio, è diverso da chiunque altro. (King, 2001, p. 178)
Verrebbe da chiedersi quale sia stata per Duddits l’esperienza più normale e più formativa, se la frequenza alla scuola professionale (l’ironia dello scrittore traspare dalla sequenza sgangherata di obiettivi) oppure i pomeriggi di gioco a Monopoli con i compagni. Si noti che il gioco era un normale Monopoli diventato «speciale», adattato alla diversità del giocatore più peculiare, che, attraverso le sue regole «speciali», ha cambiato la vita stessa dei giocatori.
In questo riconoscimento reciproco si creano vicinanze, contatti, attribuzioni positive e si evitano i danni della stigmatizzazione e degli stereotipi negativi di diversità. Fa parte ormai del patrimonio culturale condiviso la consapevolezza e il riconoscimento dei danni arrecati dagli stereotipi negativi e dei benefici portati invece da quelli positivi: si pensi all’effetto Pigmalione, all’interiorizzazione dell’immagine sociale e alla conseguente modificazione del comportamento, degli atteggiamenti, dell’identità e della personalità (Rosenthal e Jacobson, 1968; Goffman, 1959; Laing, 1961; Allport, 1954; Sartre, 1946; Fanon, 1952).
Se io sono nella normalità, se vi partecipo, anche se con modalità tutte mie, mi sento bene perché sento di partecipare a uno stereotipo positivo, vengo visto, giudicato nella normalità e riconosciuto nella mia normalità essenziale; la mia accettazione e la mia partecipazione mi fanno crescere, magari lentamente, verso la normalità.
Impariamo a essere ciò che ci dicono di essere. (Laing, 1961)
Torniamo un attimo ai benefici psicologici di quella normalità, di quella quotidianità forse banale, certo consueta, che ci circonda. Luoghi di vita, percorsi scolastici, mezzi di trasporto, relazioni, passatempi normali… tutto questo dà anche una componente di forza psicologica per affrontare le difficoltà, come ci insegna Cyrulnik nella sua analisi della resilienza: diventiamo forti attraverso i nostri legami e il nostro significato dato agli eventi (Cyrulnik e Malaguti, 2005; Malaguti, 2005). La normalità è infatti un intreccio di legami e un potente generatore di senso condiviso, comune, elaborato insieme.
La normalità può essere un’ancora di salvezza, nei momenti più drammatici, come hanno raccontato i sopravvissuti delle esperienze più disumanizzanti, come i campi di sterminio, le prigionie, le torture.
Gli gira la testa. Bisogna resistere fino in fondo, fino al letto, fino alle tavole sulle quali finalmente si appiattirà bocconi, con gli occhi chiusi, le orecchie ronzanti, ad ascoltare il sangue circolare nelle arterie, a sentire vivere il proprio corpo, a pensare insomma a quelle stupidaggini che pure gli consentono di tener duro, a pensare a una finestra, a quattro pareti, a una camera con un letto, un fornello — non osa aggiungere la culla —, a un uomo che se ne va al mattino sapendo che ritornerà, a una donna che rimane e che sa di non essere sola, sa che non sarà mai sola, al sole che sorge e tramonta sempre negli stessi punti, a un barattolo di latta tenuto sotto il braccio come un tesoro, a un paio di stivali di feltro grigio, a un geranio che fiorisce, a cose tanto semplici che nessuno le conosce, o che magari qualcuno disprezza, arrivando persino a lagnarsene quando le possiede. (Simenon, 1991, pp. 237-238)
La forza scaturisce lentamente anche dalla sicurezza delle ...

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