PRIMA PARTE
«Jâai tant de musique dans ma tĂȘte»
La patologia di Ravel e le anamnesi del Concerto per la mano sinistra
La sera dellâ8 ottobre 1932 Ravel prese un taxi. Era lâuna passata e chiese di essere portato allâhĂŽtel in rue dâAthĂšnes in cui aveva preso lâabitudine di pernottare quando, chiamato a Parigi da qualche obbligo mondano, lasciava la sua casa di campagna a Montfort-lâAmaury. LâhĂŽtel era abbastanza confortevole, ma soprattutto si trovava a pochi passi dallâabitazione degli amici piĂč cari che aveva a Parigi, i Godebski. Per quellâospite di riguardo allâHĂŽtel dâAthĂšnes câera sempre a disposizione una stanza, nella quale gli era consentito lasciare alcuni effetti personali fra cui uno smoking.
Il taxi percorreva spedito le vie intorno alla gare Saint-Lazare e lâhĂŽtel era ormai vicinissimo; anche quella serata stava per concludersi come tante altre: ancora un isolato della rue dâAmsterdam e poi si sarebbe raggiunta la rue dâAthĂšnes. Allâincrocio tra le due vie la vettura si scontrĂČ violentemente con un altro taxi, e Ravel fu scagliato in avanti con tale violenza da mandare in frantumi il vetro divisorio. Ne ricavĂČ una contusione al torace, un paio di denti rotti e alcuni tagli sul viso. Lo portarono in una farmacia vicina e quindi allâospedale Beaujon dove, constatata lâassenza di lesioni interne, lo fecero riaccompagnare allâhĂŽtel.
Niente di grave, in fin dei conti, eppure quel trauma avrebbe prodotto conseguenze funeste e sproporzionate. Per tre mesi restĂČ annichilito, incapace di fare qualsiasi cosa, come veniamo a sapere da una lettera del 6 gennaio 1933 indirizzata a Manuel de Falla:
[...] comincio appena a rimettermi. Lâincidente non era grave: abrasione al torace e qualche ferita al viso. CiĂČ non ha impedito che fossi incapace di fare alcunchĂ©, se non dormire e mangiare [...].
Quello stupido incidente doveva aver smosso qualcosa nel profondo di un organismo giĂ fragile e molto affaticato. A farne le spese, piĂč di tutto il resto, era la memoria, che giĂ da qualche tempo si era messa a giocargli dei brutti scherzi, come quella volta a Madrid nel novembre 1928. Stava suonando il pianoforte allâambasciata francese e, mentre eseguiva la sua Sonatine, qualcosa si era inceppato: semplicemente, non ricordava piĂč il seguito. Era un compositore, e cosĂŹ riuscĂŹ a concatenare lâEsposizione col Finale. Come poteva accadergli una cosa simile eseguendo un pezzo che aveva suonato unâinfinitĂ di volte? Eccesso di stanchezza? Dopo tutto quello era stato un anno faticoso: una tournĂ©e di quasi quattro mesi in cui aveva percorso in lungo e in largo gli Stati Uniti e il Canada, un viaggio a Oxford per ricevere la laurea honoris causa; poi, incalzato dalla solita fretta, aveva composto il BolĂ©ro per Ida Rubinstein e alla fine si era lasciato adescare da quella tournĂ©e in Spagna e in Portogallo.
SembrĂČ â o piuttosto Ravel volle convincersene â essersi trattato di un incidente passeggero. Câerano allâorizzonte impegni prestigiosi, suscitati dallâonda del successo che dopo il BolĂ©ro montava irresistibile. CercĂČ di adeguarsi a quel ritmo frenetico, e con non pochi sforzi portĂČ a termine i due concerti per pianoforte.
Era sempre piĂč distratto: scordava i nomi delle persone, dimenticava le lettere nelle tasche senza aprirle, creando cosĂŹ non di rado situazioni imbarazzanti; ma in fondo che importava? Non Ăš forse normale a una certa etĂ ? E i grandi artisti non hanno spesso la reputazione di persone quanto mai distratte?
In una lettera inviata il 7 febbraio 1933 al cugino Alfred Perrin, la fatica di quelle stagioni veniva rievocata con quellâunderstatement che Ăš uno dei tratti piĂč tipici dellâepistolario del nostro musicista:
Quanto a me, ho vissuto momenti piuttosto agitati: prima di tutto un lavoro senza sosta per quasi tre anni (due concerti). Poi, un lungo viaggio in Europa che mi ha veramente riposato, e quindi un periodo trascorso nel paese natale che mi ha riposato meno, come sempre.
Sul soggiorno estivo a Saint-Jean-de-Luz Ravel sorvola un poâ: accenna fugacemente ai lavori iniziati e non completati, ma nulla dice della preoccupazione che deve avergli procurato in quellâestate una maldestrezza manuale destinata ad assumere nel giro di un anno proporzioni drammatiche. Gli sembrava che le cose non volessero saperne di tornare al loro posto, nel vero senso della parola. Quando cercava di afferrarle si sottraevano, o erano piuttosto i suoi movimenti che sfuggivano al controllo della sua volontĂ . Un pomeriggio, sulla riva del mare, voleva mostrare allâamica Marie Gaudin quanto era bravo a lanciare i sassi facendoli rimbalzare sulla superficie dellâacqua, ma allâimprovviso e inspiegabilmente il sasso lo scagliĂČ sul viso della donna.
Gli era sempre piaciuto fare lunghe nuotate e, sapendolo abile e resistente, gli amici che restavano a terra non si preoccupavano, anche se lo perdevano di vista per parecchio tempo. Una mattina in cui la nuotata si prolungava un poâ troppo, decisero di prendere una barca e di andarlo a cercare. Lo trovarono al largo che galleggiava immobile, lo issarono a bordo e alle loro domande i soccorritori si sentirono rispondere tristemente che si era accorto allâimprovviso di non riuscire piĂč a coordinare i movimenti del nuoto. Restarsene immobile a «fare il morto» finchĂ© fossero arrivati a prenderlo gli era parsa lâunica chance per sopravvivere.
Dopo lâincidente automobilistico quello stato di cose peggiorĂČ rapidamente e la maldestrezza delle mani finĂŹ col rendergli difficile e penosa la scrittura. Seguendo i consigli dei medici, nellâestate successiva scelse una localitĂ del Nord e accettĂČ lâospitalitĂ che gli amici Jacques e Françoise Meyer gli avevano offerto nella loro villa al Pas-de-Calais. Di lĂŹ scrisse a Marie Gaudin una lettera che, dal punto di vista grafico, testimonia il progresso terribile della malattia. La bella scrittura di Ravel, in passato elegante e precisa come unâincisione, Ăš disseminata di cancellature e incertezze dâogni sorta:
Lettera a Lucien Garban del 28 ottobre 1926.
Bozza di lettera a Marie Gaudin del 2 agosto 1933.
Cedendo alle insistenze degli amici, Ravel va in una clinica svizzera, dove gli prescrivono riposo assoluto; tenta di scrivere qualche cartolina, e tuttavia anche unâoperazione cosĂŹ elementare per lui si muta in tragedia. I movimenti delle mani gli sono diventati penosissimi, e poi non ricorda come si fa a tracciare sulla carta le parole che gli vengono in mente. Deve andare a cercarle sul Larousse e copiarle quasi fossero geroglifici ignoti: sa ancora leggere, ma non Ăš piĂč in grado di scrivere.
Nel febbraio 1935 Ida Rubinstein, devota e affettuosa come sempre, organizza per lui un viaggio in Spagna e in Marocco. La scusa ufficiale Ăš quella di offrirgli qualche spunto folclorico per comporre le musiche di un balletto, Morgiane, ispirato alla tradizione araba. Non potendo partecipare lei stessa al viaggio, la danzatrice e coreografa russa lo affida alle cure solerti dello scultore LĂ©on Leyritz, che rimuove ogni ostacolo e allestisce qua e lĂ piacevoli sorprese. Le lettere di Leyritz alla Jourdan-Morhange, alla Rubinstein e agli amici parigini sono documenti da prendere con cautela. Saint-Jean-de-Luz, Bilbao, Santander, Madrid, Algeciras, Tangeri, Marrakech: pare che Ravel si compiacesse del viaggio, mostrasse curiositĂ , perfino qualche momento di entusiasmo, come quando gli capitĂČ di ascoltare in Marocco un uomo in bicicletta che fischiettava il BolĂ©ro. I resoconti degli amici suonano perĂČ un poâ falsi, come fossero ispirati da una sorta di caparbio ottimismo â senza contare che Ravel era cosĂŹ riservato e gentile da arrivare a simulare reazioni svagate perfino nelle situazioni piĂč imbarazzanti. Il ritorno a Parigi fu triste: le sue condizioni fisiche erano peggiorate e ora pareva un fantasma vagante fra i riflessi della propria celebritĂ :
Magro, grigio e bianco come la nebbia, era ancora capace di sorridere. Vedendomi disse «Toh, Colette!» con un tono perfettamente naturale, ma poi non si sforzĂČ piĂč di parlare. Seduto tra noi, sembrava un essere sul punto di dissolversi da un istante allâaltro.
I concerti a lui dedicati si moltiplicano, tutti vogliono festeggiarlo. Nel novembre 1937 lâOrchestre National esegue Daphnis et ChloĂ©; Ravel Ăš dietro le quinte, e al termine del concerto si rivolge singhiozzando a HĂ©lĂšne Jourdan-Morhange dicendo: «Ho ancora tanta di quella musica in testa, non ho ancora detto nulla, ho ancora cosĂŹ tanto da dire [...]».
Non vogliamo dubitare delle parole di questa gentile signora, alla quale dobbiamo tante preziose informazioni su Ravel, tuttavia, piĂč che prenderla alla lettera, considereremo la sua testimonianza come un indizio capace di svelarci qualche intimo aspetto di una musica la cui fascinazione non Ăš quasi mai scevra da inquietudine.
Quel novembre Ravel era ridotto cosĂŹ male (morirĂ il mese successivo, dopo il vano intervento di chirurgia cerebrale tentato dal professor Clovis Vincent in una clinica di rue Boileau) che debolezza e smarrimento potrebbero avere indirizzato le sue parole, dalle quali, oltre alla condizione disperata dellâuomo che assiste al declino delle sue capacitĂ creative, traluce il pensiero della fragilitĂ della musica, sempre sul punto di dissolversi, poichĂ© il silenzio che la cinge da ogni parte tende a inghiottirla. Far coincidere la minaccia portata dalla malattia allâintegritĂ del proprio essere con la possibile dissoluzione della musica non Ăš, per coloro che alla creazione musicale hanno dedicato la vita, unâidea peregrina. Nella coscienza del musicista la musica e il corpo tendono a fondersi in unâunica realtĂ , e se ci pare naturale che la musica induca dei brividi nel nostro corpo, perchĂ© stupirci se questâultimo comunica alla musica le sue spossatezze e i suoi tremiti? Le riflessioni sulla debolezza di un corpo appena scampato alla malattia non hanno forse trovato espressioni indimenticabili nel Quartetto op. 132 di Beethoven?
Allâepoca di Ravel il pensiero della fragilitĂ della musica si era fatto molto piĂč assillante: su ogni parola e su ogni suono incombeva la minaccia di dissolversi nel limbo delle intuizioni non realizzate. Da assiduo lettore di MallarmĂ©, il compositore conosceva bene la sofferta parabola di un pensiero incapace di giungere a compimento; lâaveva messa in musica nellâormai lontano 1913 con Surgi de la croupe et du bond, ultimo dei Trois poĂšmes de MallarmĂ©. Allâinquietudine intellettuale che lo aveva accompagnato tutta la vita si aggiungeva ora uno stato di salute che comportava la minaccia di un annientamento fisico e psichico spaventoso.
Nel 1948, in un congresso di neuropsicopatologia tenutosi a Londra, il professor ThĂ©ophile Alajouanine lesse una relazione sul caso Ravel. Aveva avuto modo di esaminare lâillustre paziente e aveva notato che, pur non essendo piĂč in grado di leggere e scrivere la musica, la sua memoria e il suo orecchio restavano intatti. Avvertiva immediatamente errori anche lievi e piccole stonature nellâesecuzione della sua musica o delle partiture che conosceva a memoria. Il nucleo piĂč intimo della sua musicalitĂ (la musique dans la tĂȘte) restava intatto, dunque, ma lui non riusciva piĂč a comunicare con lâesterno: «Maurice Ravel ha sperimentato la tortura di essere murato vivo entro un organismo che non ubbidiva piĂč alla sua intelligenza. Osservava disperato vivere in lui un estraneo al quale lo aveva accoppiato un destino malvagio».
Non diversamente dalle parole, dai gesti e dalle memorie, la musica restava imprigionata nella sua mente e si vedeva preclusa ogni possibilitĂ di contatto con lâesterno. Resa piĂč acuta dalla malattia, questa specie di horror vacui era da tempo presente nella musica di Ravel; ne costituiva anzi uno dei tratti piĂč peculiari e faceva sĂŹ che nella bellezza sovrana di tante partiture si infiltrassero sottili venature di inquietudine. I fremiti appena udibili destati dal rintoccare della campana del Gibet, gli sgomenti palpiti notturni della Alborada del gracioso o della Rapsodie espagnole, i brusii impercettibili da cui affiorano La Valse e il Concerto per la mano sinistra alludono sempre allâangoscioso rapporto tra musica e silenzio.
Se Ăš lecito leggere unâopera come un reperto clinico â e come potrebbe non esserlo, nel momento in cui ci accingiamo a rievocare gli ultimi istanti di coloro che amiamo? â, dobbiamo rivolgerci a quel Concerto per la mano sinistra la cui trama consiste in un drammatico accavallarsi di reminiscenze nelle quali riconosciamo il tormento di una memoria che teme di smarrire se stessa. Questo componimento Ăš soprattutto una drammatica meditazione in cui la coscienza del compositore chiama a raccolta i reperti musicali che costituiscono il suo passato per stringerli in uno di quei nodi di perfezione formale che le mani di Ravel giĂ tante volte avevano superbamente intrecciato.
Anche nel mondo della musica le stesse cose ritornano; non come meri accadimenti, ma come esseri viventi, colti in momenti diversi della loro parabola esistenziale. Melodie, accordi, ritmi e timbri, non diversamente dai volti umani, mostrano i segni del tempo trascorso. Profili che in passato risplendevano di una radiosa ...