capitolo terzo
Al centro della teoria dellâazione malatestiana vi Ăš il problema della rivoluzione, considerata un passaggio pressochĂ© obbligato per giungere ad una condizione generale di libertĂ per tutti, anche se non ancora allâanarchia. La rivoluzione Ăš giudicata obbligatoria per il rapporto di forza esistente nella societĂ . Le classi privilegiate non permetteranno di farsi spodestare dai loro privilegi, se non con unâazione violenta da parte dei subalterni. Da questo punto di vista la rivoluzione non puĂČ essere lâespressione politica e ideologica di nessuna scuola o partito. Essa deve essere popolare, nel significato piĂč ampio e generale possibile. Quindi non Ăš opera specifica della classe operaia, o dei ceti piccolo borghesi, o delle plebi contadine, o degli emarginati sociali, ma di tutta la massa eterogenea dei subordinati. Questo coinvolgimento di popolo Ăš necessario proprio perchĂ© lâobbligatorio passaggio rivoluzionario dimostra giĂ di per sĂ© la mancanza di autonomia storica delle masse, che se sono disponibili al salto rivoluzionario, non sono perĂČ in grado di suscitarlo e di gestirlo. Ecco perchĂ© tanto piĂč esse saranno direttamente e attivamente impegnate nella rivoluzione, tanto meno sarĂ dimostrata la necessitĂ pedagogica di indirizzarle politicamente dopo la rivoluzione. In altri termini, solo la piĂč ampia partecipazione popolare puĂČ arginare il rapporto giĂ squilibrato tra gli sfruttati e le Ă©lite. Ne deriva, perĂČ, una specie di cortocircuito teorico: la rivoluzione Ăš necessaria per liberare le masse, ma queste saranno veramente libere nella misura in cui dimostreranno di esserlo giĂ prima e durante la rivoluzione.
Dunque, prima di tutto la rivoluzione, la quale deve sbarazzare il campo dagli ostacoli materiali oggettivi che impediscono il libero dispiegarsi della volontĂ popolare emancipatrice. La rivoluzione Ăš sempre produttrice di due forze contraddittorie: la prima Ăš quella creatrice della distruzione del vecchio potere, la seconda Ăš quella restauratrice del nuovo dominio. Lâanarchismo puĂČ solo legarsi alla prima di queste due fasi.
PoichĂ© anarchia significa non-violenza, non-imposizione dellâuomo sullâuomo, la rivoluzione, che Ăš atto pur sempre coercitivo, non puĂČ essere direttamente costitutiva della societĂ libertaria: essa ha il compito di sbarazzare il terreno dalle istituzioni che perpetuano il dominio dellâuomo sullâuomo (lo Stato e il capitale) e di permettere quel libero sviluppo della societĂ grazie al quale gli anarchici potranno sperimentare le loro forme organizzative conquistandosi gradatamente, in virtĂč della superioritĂ morale del proprio ideale e della bontĂ dei loro metodi, lâadesione e il coinvolgimento delle masse popolari. Questa seconda fase di gradualismo riformatore renderĂ possibile lâapprossimazione della societĂ liberata allâanarchia.
Riformismo, gradualismo, rivoluzione
Tanto peggio, tanto meglio
Nelle polemiche Ăš una cosa molto comoda e perciĂČ stesso molto in uso, quando si vuole aver lâaria di aver ragione, attribuire allâavversario uno sproposito e poi confutarlo trionfalmente.
Certamente se la cosa Ăš comoda, non Ăš per questo onesta; ma gli scrupoli non disturbano certi giornalisti e certi oratori.
CosÏ mi Ú accaduto varie volte di sentirmi attribuire la teoria del tanto peggio, tanto meglio, ed ora mi capita sotto gli occhi il «Lavoro» di Genova (20.6.1920) dove, riproducendo un mio articolo, troncato ad arte per cavarne delle conseguenze opposte alle mie intenzioni, si afferma che il tanto peggio, tanto meglio Ú teoria «nettamente anarchica».
Ora la veritĂ Ăš che quella teoria Ăš, se mai, di origine marxista, e che se degli anarchici hanno potuto qualche volta affermarla, Ăš perchĂ© si erano lasciati influenzare dalle idee marxiste e non giĂ perchĂ© essa avesse nulla da fare con lâanarchismo propriamente detto.
I marxisti, che concepiscono, o almeno concepivano, lâevoluzione sociale come governata da leggi fatali ed ineluttabili, essi che aspettavano la trasformazione sociale dalla supposta automatica concentrazione del capitale in mano ad un numero sempre minore di capitalisti, essi che avevano proclamato come una veritĂ generale ed inevitabile la miseria crescente, potevano perfettamente rallegrarsi se le condizioni del proletariato peggioravano.
Noi no: perchĂ© per noi il fattore principale che determina il senso dellâevoluzione sociale Ăš la volontĂ umana; e quindi appoggiamo tutto ciĂČ che sviluppa e fortifica la volontĂ e deprechiamo tutto ciĂČ che la deprime.
Se volessimo, cosa pericolosa, compendiare in una formula le nostre idee sulla questione dellâinfluenza che le condizioni materiali hanno sullo sviluppo morale degli individui e quindi sulla loro volontĂ , noi anzichĂ© tanto peggio, tanto meglio diremmo piuttosto lâappetito vien mangiando.
La miseria deprime ed abbrutisce e per miseria non si fanno rivoluzioni: tutto al piĂč si fanno sommosse senza domani. Ed Ăš perciĂČ che noi spingiamo i lavoratori a pretendere ed imporre tutti i miglioramenti possibili ed impossibili, e non vorremmo che essi si rassegnassero a star male oggi aspettando il paradiso futuro. E se siamo contro il riformismo non Ăš giĂ perchĂ© siamo incuranti dei miglioramenti parziali, ma perchĂ© crediamo che il riformismo Ăš ostacolo non solo alla rivoluzione ma anche alle stesse riforme.
A prova il fatto che, normalmente, le regioni piĂč povere e le categorie piĂč misere del proletariato sono anche le meno rivoluzionarie.
Una recrudescenza di miseria, una grande crisi industriale e commerciale, puĂČ determinare un movimento insurrezionale ed essere il punto di partenza di una trasformazione sociale, perchĂ© viene a colpire della gente che si Ăš abituata ad un relativo benessere e che mal sopporta un peggioramento. ChĂ©, se il movimento non avvenisse subito e si lasciasse passare il tempo necessario perchĂ© il popolo si abitui gradatamente ad un tenore inferiore di vita, la sopravvenuta miseria perderebbe il suo valore rivoluzionario e resterebbe come causa di depressione e di abbrutimento.
E la situazione in Italia Ăš oggi cosĂŹ eminentemente rivoluzionaria appunto perchĂ© le condizioni del proletariato sono migliorate, le sue pretese sono cresciute in conseguenza, ed invece lo stato attuale dellâeconomia nazionale Ăš tale che, perdurando il presente ordinamento statale e capitalistico, un grande imminente peggioramento Ăš inevitabile.
Oggi, o la rivoluzione e con essa il riordinamento della produzione a vantaggio di tutti, o la miseria abbietta. Ed il proletariato trova che di miseria ce nâĂš giĂ troppa cosĂŹ.
«Umanità Nova», 26 giugno 1920
Riforme e rivoluzione
Un A. Ca. che scrive nel settimanale socialista «Brescia Nuova» si occupa di me e degli anarchici (v. «Brescia Nuova» del 4 settembre); ma lo fa in un modo tanto sconclusionato che io non tenterĂČ nemmeno una confutazione diretta.
RitornerĂČ nullameno sulle questioni che hanno confuso la mente di A. Ca., perchĂ© la ripetizione puĂČ essere utile alla propaganda, ed anche perchĂ© ho la speranza che A. Ca. possa, non giĂ convincersi, ma almeno comprendere e poi discutere, se gli pare, in modo razionale.
Nel corso della storia umana avviene generalmente che i malcontenti, gli oppressi, i ribelli prima di concepire e desiderare un cambiamento radicale delle istituzioni politiche e sociali, si limitano a domandare delle trasformazioni parziali, delle concessioni da parte dei dominatori, dei miglioramenti.
La speranza nella possibilitĂ e nellâefficacia delle riforme precede la convinzione che per abbattere il dominio di un governo o di una classe Ăš necessario negare le ragioni di quel dominio e cioĂš fare una rivoluzione.
Nellâordine dei fatti le riforme poi si attuano o non si attuano, e, attuate, consolidano il regime esistente o lo minano, aiutano lâavvento della rivoluzione o lâostacolano, giovano o nuocciono al progresso generale secondo la loro natura specifica, secondo lo spirito con cui sono concesse, e soprattutto secondo lo spirito con cui sono domandate, reclamate, strappate.
Naturalmente i governi e le classi privilegiate sono sempre guidati dallâistinto di conservazione, di consolidamento, di accrescimento della loro potenza e dei loro privilegi; e quando consentono delle riforme gli Ăš o perchĂ© giudicano che quelle riforme giovano ai loro fini o perchĂ© non si sentono abbastanza forti per resistere e cedono per paura del peggio.
Gli oppressi, dâaltra parte, o domandano ed accolgono i miglioramenti come un beneficio graziosamente concesso riconoscendo la legittimitĂ del potere che sta su di loro, ed allora essi fanno piĂč danno che bene e servono a rallentare la marcia verso lâemancipazione od anche ad arrestarla e sviarla. O invece gli oppressi reclamano ed impongono i miglioramenti con la loro azione e li accolgono come delle vittorie parziali riportate sulla classe nemica e se ne servono quale stimolo, incoraggiamento, mezzo per conquiste maggiori,...