Teoria della classe disagiata
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Teoria della classe disagiata

Raffaele Alberto Ventura

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Teoria della classe disagiata

Raffaele Alberto Ventura

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Cosa succede se un'intera generazione, nata borghese e allevata nella convinzione di poter migliorare – o nella peggiore delle ipotesi mantenere – la propria posizione nella piramide sociale, scopre all'improvviso che i posti sono limitati, che quelli che considerava diritti sono in realtà privilegi e che non basteranno né l'impegno né il talento a difenderla dal terribile spettro del declassamento? Cosa succede quando la classe agiata si scopre di colpo disagiata?La risposta sta davanti ai nostri occhi quotidianamente: un esercito di venti-trenta-quarantenni, decisi a rimandare l'età adulta collezionando titoli di studio e lavori temporanei in attesa che le promesse vengano finalmente mantenute, vittime di una strana «disforia di classe» che li porta a vivere al di sopra dei loro mezzi, a dilapidare i patrimoni familiari per ostentare uno stile di vita che testimoni, almeno in apparenza, la loro appartenenza alla borghesia.In un percorso che va da Goldoni a Marx e da Keynes a Kafka, leggendo l'economia come fosse letteratura e la letteratura come fosse economia, Raffaele Alberto Ventura formula un'autocritica impietosa di questa classe sociale, «troppo ricca per rinunciare alle proprie aspirazioni, ma troppo povera per realizzarle». E soprattutto smonta il ruolo delle istituzioni laiche che continuiamo a venerare: la scuola, l'università, l'industria culturale e il social web. Pubblicato in rete nel 2015, Teoria della classe disagiata è diventato un piccolo culto carbonaro prima di essere totalmente riveduto e completato per questa prima edizione definitiva.

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Informations

Éditeur
minimum fax
Année
2017
ISBN
9788875218782

1
sbarra

LA CAMERA OSCURA

La realizzazione personale di un borghese non vale il denaro che costa.
Francesco Pacifico, Class

Dalla classe agiata alla classe disagiata

Contrariamente a quello che sostengono i contabili, l’economia non è sempre razionale. Come in un racconto horror di Lovecraft qualcosa di antico, di tribale, continua a riaffiorare da sotto la sua scorza: è l’inconscio delle classi che parla attraverso le nostre azioni. Le scelte individuali sfuggono spesso alla logica dell’utilità marginale, non rispettano la gerarchia dei bisogni, talvolta risultano apertamente incoerenti. La colpa è, tra le altre cose, dell’effetto Veblen.
Di regola la domanda di un bene aumenta al diminuire del suo prezzo, ed è abbastanza intuitivo capire perché: chi vorrebbe pagare di più se può pagare di meno? Ma esiste un particolare tipo di beni, ovvero i beni di lusso, o beni Veblen appunto, che funzionano esattamente al contrario: la loro domanda cresce all’aumentare del prezzo. Il mondo è pieno di persone ben contente di pagare per un certo prodotto un costo molto superiore al suo valore d’uso perché è proprio il prezzo esclusivo a rendere attrattiva una certa borsetta o un certo orologio da polso, a farne (come si dice) uno status symbol. Così il prezzo stesso diventa una delle caratteristiche salienti del bene che compriamo; quasi potremmo dire che non stiamo comprando una merce ma il suo prezzo. Di fatto chi indossa un orologio d’oro non sta ostentando quell’orologio ma il suo valore di scambio simbolico.
Possiamo illuderci che questo fenomeno riguardi soltanto certe persone molto facoltose, o addirittura una particolare categoria di ricchi che compensa la propria salute economica con qualche serio disturbo della personalità. Possiamo pensare, ad esempio, ai «Rich Kids of Instagram», dal nome di una pagina che raccoglie le testimonianze visive dell’esibizionismo delle giovani élite di tutto il mondo. Ma dietro questo bug annidato tra le leggi della microeconomia si nasconde un’intera teoria della società; una teoria che spiega gran parte delle nostre decisioni – persino quelle di noialtri che un orologio d’oro non ce l’abbiamo e che alla «riccanza» esibita preferiamo i valori fintamente ascetici del ceto medio riflessivo. Si tratta della Teoria della classe agiata di Thorstein Veblen, economista americano di origini norvegesi e salda cultura protestante, che volendo descrivere la borghesia americana del suo tempo (1899) riesce a fornirci gli strumenti per capire il nostro presente. Perché l’effetto Veblen ha un corollario tragico: a furia di spendere una quantità crescente di risorse per affermare il nostro status, il rischio è semplicemente quello di rovinarci e passare, in un batter d’occhio, da classe agiata a classe disagiata.
Jean Baudrillard scrisse, in un breve articolo del 1969 intitolato «La genesi ideologica dei bisogni» poi raccolto in Per una critica dell’economia politica del segno, che l’intuizione di Veblen stava al cuore della comprensione della logica interna della società dei consumi. Certo, tutto dipende da cosa intendiamo per lusso e se siamo in grado da distinguerlo «oggettivamente» dal semplice bisogno. La Teoria della classe agiata di Veblen era una fotografia impietosa di una classe oziosa e improduttiva (in originale «leisure class») impegnata a rivaleggiare per il prestigio attraverso l’ostentazione dei propri consumi, detti «vistosi» o «posizionali». Ma alla classe media contemporanea non serve ricoprirsi d’oro e pietre preziose come i suoi antenati barbari, perché i lussi descritti da Veblen sono spesso e volentieri immateriali. Un secolo fa, il sociologo citava alla rinfusa: la conoscenza delle lingue morte, di diversi generi musicali o delle ultime mode nell’abbigliamento... Oggi parleremmo di educazione secondaria o di attività culturali, stupendoci che qualcuno possa considerarle in maniera tanto irrispettosa. Quale studente di filosofia mai considererebbe un lusso la propria disciplina? In un articolo del 1941 Adorno definì la teoria di Veblen addirittura un «attacco alla cultura». Evidentemente, la questione è più complessa di una semplice opposizione tra utile e inutile. In seno alla classe agiata, e dunque anche in quella disagiata, i consumi posizionali sono la merce più preziosa perché servono a stabilire i ruoli sociali e l’accesso alle risorse. Si tratta di una logica della differenziazione che costituisce, secondo Baudrillard, nientemeno che la legge fondamentale della nostra società. Negli stessi anni Pierre Bourdieu sviluppa il concetto di «distinzione» e trasferisce nel linguaggio della sociologia la metafora economica del capitale per parlare di «capitale sociale» o «capitale simbolico» che viene accumulato e scambiato attraverso l’ostentazione di certi consumi culturali.
Eppure Veblen definisce improduttivi questi consumi: secondo lui, sono attività che servono a testimoniare pubblicamente il fatto che chi le pratica se le può permettere. Sembra una banalità ma bisogna ricordarlo: studiare, apprendere un mestiere o un’arte, frequentare i giri giusti sono attività costose perché consumano tempo e incorporano il lavoro di altre persone. Si tratta spesso di costi indiretti, nascosti, rimandati, ridistribuiti, scaricati altrove; eppure da qualche parte, prima o poi, qualcuno ha pagato o pagherà. È questo il paradosso che si ostinano a non vedere tutti quei fantasiosi post-operaisti che sostengono che queste operazioni di consumo – si tratti anche della creazione di meme su Facebook – sono in grado di generare un plusvalore e debbano perciò essere remunerate. Al contrario, bisogna ricordare che dietro ognuna di queste attività c’è una distruzione di risorse spesso ben più importante del valore aggiunto generato. Certo che ci costano impegno, certo che trasformano una mole impressionante di capitale simbolico accumulato, certo che ne producono di nuovo e nessuno può sapere quello che ne resterà tra dieci o cent’anni: ma infatti da che mondo è mondo è lo spreco il motore dell’innovazione, ovvero una scommessa con l’avvenire che ha molte più possibilità di fallire che di riuscire.
Il concetto di classe disagiata che propongo include un ampio spettro di casi umani, tutti caratterizzati dall’esperienza disforica della mobilità discendente: dal nobile decaduto al figlio della piccola borghesia che prende coscienza del fallimento del suo progetto di ascesa sociale, dal «creativo» che accumula visibilità nella speranza di farsi strada in un settore fin troppo affollato fino al lavoratore salariato che vede il proprio settore minacciato dal progresso tecnologico o dalle delocalizzazioni, passando per tutti quelli che, facendo violenza alle proprie inclinazioni, riescono a garantirsi un relativo benessere materiale finendo magari nelle spire dello stress e della depressione. La classe disagiata sono i disoccupati che aspettano che si liberi un posto nel settore per cui sono stati formati, fosse anche la conduzione di carrozze o il cinema muto, ma anche gli occupati che giurano ogni giorno, di mese in mese e di anno in anno, che il loro impiego è soltanto «temporaneo» e «alimentare». Sono i precari che diventano «imprenditori di se stessi» per scelta o per necessità, membri di quella categoria che Silvio Lorusso ha definito entreprecariat, ma anche gli studenti che attendono di realizzare il futuro che credono di meritare. In tutti si produce quello sfasamento tra l’identità sociale percepita e le risorse disponibili che caratterizza la classe disagiata. Si tratta di una condizione esistenziale che può essere ritrovata in tutte le epoche: negli anni Cinquanta di Luciano Bianciardi, che alle delusioni del «lavoro culturale» ha dedicato degli scritti illuminanti, ma persino nella Venezia del Settecento o nel Medioevo islamico, come vedremo, insomma ogni volta che una generazione si interroga sul proprio posto nel mondo. Se abbiamo voluto partire da Veblen per sovraincidere un termine, disagio, spesso usato con diversa accezione – per indicare una generica povertà – è perché l’economia dello status risulta fondamentale per capire un’altra povertà. Si tratta della miseria relativa crescente che nella società borghese coesiste con l’abbondanza.
La classe disagiata, come vedremo, è come incatenata a un’educazione che la costringe a desiderare un’esistenza che non può permettersi, perlomeno a lungo termine. A prima vista la nostra piramide dei bisogni risulta visibilmente sottosopra, con certi bisogni posizionali (ciò che Abraham Maslow chiamava «autorealizzazione») che prendono il sopravvento su bisogni primari come alimentazione, salute, sicurezza. Lo scrittore Tommaso Labranca fece una caricatura di questo rovesciamento in un libro del 2002, Neoproletariato, descrivendo orde di nouveaux riches indigenti nel loro andare al Lidl in Mercedes. Ma ancora più tragicomici siamo noi laureati, che ci condanniamo a un futuro di miseria – economica o spirituale, a scelta – pur di non rinunciare ai nostri vezzi da signori. Il sistema pensionistico come lo conosciamo oggi non esisterà più quando saremo vecchi: e allora? Questa terribile prospettiva suscita tutt’al più qualche ironia e non sembra in alcun modo ispirare drastiche scelte di vita: la miseria non riusciamo nemmeno a immaginarla. I più pragmatici tra di noi sceglieranno un compromesso con la realtà, ovvero la condanna a una vita quotidiana fatta di fatica, noia, umiliazione e risentimento, insomma il cosiddetto «successo».
Nei suoi studi sul precariato, e in particolare nel manifesto Diventare cittadini del 2014, Guy Standing ha descritto la «frustrazione da status» che affligge la generazione degli attuali venti-trentenni convinti che sia stata loro promessa una vita professionale ben diversa. Alle stesse conclusioni sono arrivati i sociologi Mike Savage e Fiona Devine in uno studio imponente sulle classi nel Regno Unito, condotto a partire dal 2013, che ravvisa l’emergenza di nuove categorie caratterizzate dalla combinazione inedita di differenti tipi di capitale – economico, sociale, culturale – e impegnate perciò a «negoziare» in maniera talvolta traumatica la propria identità. In ognuna delle sue incarnazioni la classe disagiata combina i tratti della borghesia, e soprattutto la sua ideologia, con altri tratti più tipicamente proletari come la percezione di essere sfruttati e minacciati da un «esercito di riserva» di lavoratori ancora più disperati. Dietro alla narrazione leggendaria emersa nei primi anni Duemila sul terziario avanzato si è iniziato a intravedere il rovescio della medaglia, che in Italia Bertram Niessen illustra nelle sue ricerche, ovvero l’instabilità economica e le sue innumerevoli conseguenze esistenziali. «La proliferazione di regimi retorici costruiti attorno alle Industrie Culturali e Creative», scrive Niessen in un articolo incluso nel volume collettaneo Platform Capitalism e confini del lavoro negli spazi digitali, «ha costruito un immaginario collettivo secondo il quale le nuove professioni legate alla creatività avrebbero permesso non solo una piena realizzazione delle proprie aspettative identitarie, ma anche di quelle economiche. Non è andata esattamente in questo modo».

I limiti sociali del riconoscimento

Ha dunque ragione chi ci fa la morale oppure chi ci invita a non smettere di sognare? Hanno ragione entrambi ed entrambi hanno torto, ed è questa la tragedia. La verità è che gli status symbol sono in fin dei conti molto più preziosi dei beni normali: sono il nostro appiglio per «restare nel club» ovvero tentare di resistere al declassamento e alle sue concretissime conseguenze. In fondo è la stessa gerarchia dei bisogni (primari, secondari, superflui...) a essere ideologica, cioè culturale, come scriveva Baudrillard. Per lui non esiste un «minimo vitale antropologico»: in ogni società, questo minimo viene definito ex post come il residuo lasciato da un surplus che in realtà lo precede. Questo surplus è la parte consacrata a Dio, la parte sacrificata, il consumo vistoso, o anche semplicemente il profitto economico: «è questo lusso che determina in negativo il livello della sopravvivenza, e non il contrario». Di fatto «un surplus enorme può coesistere con la più terribile miseria». Scrive ancora Baudrillard:
È impossibile isolare uno stadio astratto, «naturale», della penuria e determinare in assoluto «quello che serve alle persone per vivere». A qualcuno potrebbe convenire di perdere tutti i suoi averi giocando a poker, e lasciare la sua famiglia morire di fame. [...] E inversamente, proprio come la soglia di sopravvivenza può scendere al di sotto del minimo vitale se la produzione del surplus lo richiede, la soglia di consumo minima può situarsi ben al di sopra dello stretto necessario, sempre in funzione delle necessità di produzione del plusvalore: è il caso delle nostre società, in cui nessuno è libero di vivere di sole radici e acqua pura.
In effetti sarebbe un errore considerare che questa gara al consumo vistoso sia animata dalla pura e semplice vanità: la classe disagiata rivaleggia perché questo gioco serissimo, simile a una lotteria, determina l’allocazione delle risorse posizionali all’interno di quella che gli economisti Robert H. Frank e Philip J. Cook hanno definito una «Winner-Take-All Society», fortemente polarizzata tra pochi che vincono e i tanti che perdono (e che perdono tanto). Forse bastava leggere La fiera delle vanità di Thackeray, pubblicato a Londra nel 1848, per capire che la «lotta di tutte contro tutte» delle signorine di buona famiglia è una competizione disperata per l’appropriazione del capitale. Per questo Pierre Bourdieu parlò precisamente di una «retorica della disperazione» esibita dai consumi posizionali della classe media, già consapevole della minaccia di sconfitta che aleggia su di lei.
In questo senso potremmo dire che il vecchio problema filosofico del riconoscimento, per come lo si trova nell’opera di Hegel, sta ancora oggi al cuore di ogni riflessione sulla società. Uno dei suoi più celebri – vorremmo dire riconosciuti – interpreti contemporanei, Axel Honneth, ha sostenuto in un articolo del 1995 («Coscienza morale e dominio di classe») che non si deve più parlare oggi soltanto di ineguaglianza dal punto di vista della distribuzione delle risorse, bensì riflettere sulla «ripartizione asimmetrica di opportunità di vita dal punto di vista culturale e psicologico», insomma sulla «diseguale distribuzione della dignità sociale». Se tuttavia si volesse prendere sul serio questa denuncia e mettere in pratica un programma di ridistribuzione del prestigio ci si scontrerebbe contro un limite puramente logico: ovvero che il prestigio ha valore soltanto perché distribuito in questo modo, in maniera diseguale. Esso è sostanzialmente un marcatore di diseguaglianza. Democratizzare l’accesso ai beni posizionali significa semplicemente inflazionarli e lasciare spazio perché altri beni vadano a svolgere quello stesso ruolo di differenziazione. Con l’unico risultato di produrre un’escalation nei consumi senza risolvere in alcun modo il deficit di riconoscimento che affligge gran parte della classe disagiata. Esempio di questo paradosso e delle sue drammatiche conseguenze, come vedremo, è il funzionamento del sistema educativo.
Che il valore dei segni scambiati sul mercato del prestigio tenda naturalmente all’inflazione è evidente dal succedersi delle mode. Prendiamo ad esempio una bottiglia di champagne. Questa ha un certo costo per il produttore, determinato dalle materie prime, dal lavoro e dagli impianti, e un certo prezzo per il consumatore, determinato anche dal valore sociale – il valore di scambio simbolico – di quella bottiglia, della sua marca, della sua annata. Il suo prezzo sarà tanto più alto quanti saranno gli individui disposti a pagare quel prezzo per esibire quel prodotto e trarne un certo profitto in termini di prestigio. Lo champagne è considerato come uno status symbol ed è ancora tra i più banali attributi iconografici della ricchezza, sebbene oggi il suo consumo si sia in una certa misura popolarizzato. Questo retaggio simbolico persiste nell’espressione anglosassone «champagne socialist», per la quale in italiano si è diffuso il termine «radical chic» e in Francia si parla di «gauche caviar» o «bourgeois bohème», concetti dalla costruzione sempre identica che denunciano una contraddizione tra appartenenza di classe (alta) e posizionamento politico (a sinistra). Questa contraddizione esiste indubbiamente presso la borghesia occidentale e può essere formulata in termini vebleniani con il concetto di virtue signalling («ostentazione di virtù») o conspicuous morality («moralità vistosa»), attraverso cui si opera un rovesciamento curioso: in un certo contesto sociale, ad esempio l’alta società newyorkese raccontata nei romanzi di Tom Wolfe, è il socialism e non più lo champagne a svolgere una funzione ostentativa. Lo champagne torna a essere una bevanda frizzante dal sapore lievemente aspro, mentre una certa cultura o un certo impegno diventa un prodotto di lusso. La retorica della «sinistra champagne» insomma si scontra con lo slittamento di tutti i significanti, eppure resta riconoscibile in tutta la sua potenza iconica.
Se il progresso industriale unito all’aumento della domanda permette di abbassare il costo dello champagne, o perlomeno del cattivo champagne, il suo valore simbolico finisce per inflazionarsi. Esso non indica più l’appartenenza alla classe dominante poiché la classe media ha potuto appropriarsene. Un pezzo da discoteca di qualche anno fa cantava della «petite bourgeoisie qui boit du champagne» e gli risponderanno idealmente gli italiani della band Il Pagante con i loro cafonissimi «shampoo col Dompero» (ovvero Dom Pérignon). Persino Charlie Hebdo, dopo gli attentati del 2014 al Bataclan, non trovò di meglio che proclamare, con una punta di classismo involontaria, che «Loro», cioè i terroristi, «hanno le armi, noi abbiamo lo champagne». Il che dice molto su quel noi che vorrebbe essere massimamente inclusivo ma che in realtà mette in ombra un’ampia fetta di umanità (per cominciare dai musulmani) che sicuramente non definisce la propria identità culturale attraverso il consumo di champagne. Se lo champagne non svolge più pienamente la funzione di status symbol, e anzi in certi casi strappa la maschera al parvenu, altri consumi tentano di sostituirlo: una birra artigianale o un chinotto di lusso serviranno meglio allo scopo sociale, segnalando l’appartenenza al «ceto medio riflessivo» o alla «classe creativa». Già negli anni Cinquanta il sociologo David Riesman aveva identificato il fenomeno del «sottoconsumo ostentativo» attraverso cui la classe agiata in certe epoche tenta di distinguersi dall’esibizionismo dei nuovi ricchi.
Di fatto come ogni sistema di segni anche la simbologia del prestigio si presta a interpretazioni divergenti secondo i contesti nonché a trasformazioni continue. Oggi l’intero sistema di segni su cui dovrebbe reggere il riconoscimento – i codici linguistici e comportamentali, i titoli di studio – è a sua volta inflazionato e quindi svuotato del suo valore, proprio come una bottiglia di champagne del supermercato. La classe disagiata si circonda delle spoglie degli antichi attributi di ricchezza e la sua miseria fiorisce in mezzo all’abbondanza, come se il tributo simbolico chiesto dalla c...

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