Dalla paura alla parola
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Emozioni e linguaggio

Maria Grazia Turri

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Emozioni e linguaggio

Maria Grazia Turri

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Le parole rappresentano la fantastica meraviglia che consente di scoprire mondi interni ed esterni, e sono i romanzi – oggetti fatti di parole – il luogo in cui le emozioni sono minuziosamente analizzate. La valutazione negativa, che in buona parte della cultura occidentale ha per lungo tempo caratterizzato questo tratto umano, Ăš stata causata anche dall'aver dimenticato sia fondamentali riflessioni aristoteliche sia l'indissolubile legame del linguaggio, a partire dalla nascita della psicanalisi – la scienza dell'anima –, con le emozioni, poichĂ© il suo uso Ăš finalizzato al risanamento di un vissuto emotivo negativo. Linguaggio ed emozioni sono per natura logos-dialogue poichĂ© hanno una configurazione relazionale e sociale. Difatti, la peculiaritĂ  che ci contrassegna Ăš proprio l'inscindibile interazione fra questi due aspetti, tanto che la nostra abilitĂ  nel produrre artefatti Ăš strettamente connessa alla raffinatezza delle nostre emozioni e alla congiunta raffinatezza della struttura linguistica. Emozioni, linguaggio e cultura sono quindi caposaldi intrecciati in un inviluppo inestricabile.

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Informations

Année
2019
ISBN
9788857560564

Prologo

Credo di essere una persona che ha L’abito di piume, come recita il titolo di un romanzo di molti anni fa di Banana Yoshimoto, e penso che questa sia la ragione per cui le parole che vengono pronunciate me le ricordo per lungo tempo, anche se non sono indirizzate a me. Mi ricordo il tono della voce, i singoli vocaboli, la sequenza delle locuzioni. Vengo ferita o fortificata anche se chi parla non si rivolge a me. Le parole mi segnano.
Ho iniziato a sette anni a divorare parole. Mettevo da parte le dieci lire, datemi da mamma e da nonna per i gelati di “gesso”, quelli con lo zucchero e il bianco d’uovo rappreso, ormai da tempo scomparsi. Con i risparmi così accumulati andavo dal giornalaio e compravo romanzi.
Divoravo parole, senza alcun criterio. Inseguivo la gamma delle sensazioni, delle emozioni e dei sentimenti che provavo e andavo alla ricerca di nuove dimensioni affettive. Mi immedesimavo nelle storie e nei personaggi.
Le parole rappresentavano la fantastica meraviglia che mi consentiva di scoprire mondi interni e mondi esterni e cosĂŹ sono cresciuta nella convinzione che i romanzi, piĂč che i saggi, siano il luogo in cui i comportamenti sono meglio analizzati, dove le sfumature fanno le differenze e costituiscono lo stile del personaggio, reale o fittizio. E tanto piĂč un romanziere Ăš raffinato nell’uso delle parole tanto piĂč Ăš in grado di esprimere la raffinatezza delle dimensioni affettive degli umani, in ogni tempo e a ogni latitudine.
CosĂŹ ho sviluppato un istintivo interesse per le espressioni affettive e per l’uso delle parole che ciascuno di noi fa. Ma mentre non ho avuto alcun timore a scrivere di emozioni, sono sempre stata molto cauta nello scrivere saggi che riguardassero la struttura linguistica. Ho sempre considerato “la filosofia del linguaggio” un ambito complicato, nel quale mi sento strutturalmente molto impreparata, anche se qua e lĂ  qualche tentativo di affrontare tematiche attinenti ho provato a compierlo, sempre perĂČ schermata o dalla filosofia dell’economia o dall’ontologia sociale.
È grazie alle ricerche in ambito neuroscientifico, soprattutto quelle degli ultimi sette anni, che ho trovato il coraggio di avanzare le tesi che illustro in questo libro, e che non potevano che tentare di connettere in modo strutturale emozioni e linguaggio.
Prima di riassumere il fulcro dell’argomentazione del testo, mi sembra rilevante sottolineare che in alcuni ambiti accademici ù finalmente emersa una riconsiderazione del valore e del ruolo delle emozioni. La valutazione negativa, che nella cultura occidentale ha per lungo tempo caratterizzato questo tratto umano, ù stata causata anche dall’aver dimenticato sia fondamentali riflessioni aristoteliche, sia il dato che a partire dalla nascita della psicanalisi – la scienza dell’anima – il linguaggio ù inestricabilmente legato alle emozioni, ed ù finalizzato alla guarigione da una malattia, la cui causa ù un vissuto emotivo negativo.
Sigmund Freud considera le emozioni elementi fondanti della struttura delle personalitĂ  dell’individuo e un esempio lo si ha nel saggio La negazione (1925), dove questa rappresenta la modalitĂ  per prendere consapevolezza delle rimozioni. La negazione Ăš appunto per questo una sorta di revoca della rimozione, cosicchĂ© processo riflessivo ed emozioni sono scissi e la scissione Ăš sintomo di problematicitĂ . E il tema della scissione, del doppio, percorre la letteratura freudiana e, appare evidente, che altro non Ăš che un apologo sulla condizione umana, come ben testimonia lo scritto Il perturbante (1919). Il perturbante Ăš infatti l’evocazione dell’altro, il richiamo all’ambivalenza irriducibile e costitutiva e che porta anche in sĂ© la minaccia, il contraltare della vita, il suo doppio, cioĂš la morte.
Freud dĂ  vita a una disciplina rigorosamente fondata sul linguaggio, ed Ăš unicamente grazie a questo che Ăš possibile rimuovere la rimozione, sanare la scissione e riprendere il dialogo con se stessi.
Sono i saggi che hanno al centro MosĂš – MosĂš egizio (1934), Se MosĂš era egizio (1937), L’uomo MosĂš, il suo popolo e la religione monoteistica, (1939) – che saldano la dimensione emozionale individuale a quella comunitaria, perchĂ© il singolo e il popolo vivono e si tramandano il trauma emotivo ineliminabile dell’omicidio originario. L’emozione dalla quale guarire riguarda ciascuno e allo stesso tempo riguarda tutti, o meglio, visto che riguarda tutti riguarda anche il singolo.
Ed Ăš la parola dei profeti, di coloro che conducono, che puĂČ aiutare a guarire dal trauma emotivo. Un profeta come Abramo Ăš un nomeus, un segno rappresentativo dell’aporia, un tĂłpos della dimensione temporale, dell’evento, del sacrificio, della promessa, del debito, della colpa, del dono, dello scambio, della dispersione, della follia dionisiaca, della spettralitĂ .
Similmente lo psicanalista Ăš un nomeus e incarna colui che aiuta e conduce il paziente a guarire.
Nel primo caso la parola si ascolta, nel secondo si proferisce. Ma in entrambi i casi Ăš una parola relazionale.
Questo lavoro parte proprio da questi presupposti, cioù dall’inscindibile nesso fra emozioni e linguaggio, dove sia linguaggio che emozioni sono per natura logos-dialogue, e hanno una struttura relazionale e sociale.
Mi pongo l’obiettivo di mostrare sia l’inseparabilità di queste due manifestazioni umane, sia che la peculiarità che ci contrassegna ù proprio l’inscindibile interazione dinamica fra emozioni e linguaggio, tanto che la nostra abilità nel produrre artefatti ù strettamente legata alla raffinatezza delle nostre emozioni e alla congiunta raffinatezza della struttura linguistica. Emozioni, linguaggio e cultura sono dati intrecciati in un inviluppo inestricabile.
Nel primo capitolo rifiuto la tesi che la struttura linguistica sia sorta per effetto di una monocausa e sostengo che piuttosto sia il risultato di piĂč fattori, i quali hanno influito sui diversi aspetti che la caratterizzano e che ne contraddistinguono l’articolazione. Proferire locuzioni Ăš sostanzialmente un gesto, ma Ăš un gesto peculiare e molto raffinato, sempre carico di emotivitĂ , piĂč o meno intensa.
Nel secondo capitolo, partendo dal presupposto aristotelico che siamo contraddistinti dall’essere animali in moto e ancorandomi alla distinzione che i fisiologi propongono fra azioni, atti e movimenti, argomento che le emozioni sono dei movimenti. Questi movimenti rappresentano la precondizione per creare la possibilità di un’azione come quella del parlare e il parlare si ù articolato a “imitazione” dei movimenti, degli atti e delle azioni che il corpo assume nella gestione dello spazio e la dimensione ritmica ne ù la condizione caratterizzante. Inoltre, l’attivazione del parlare trova la sua ragione in movimenti interni, cioù nelle emozioni.
La tesi Ăš che proprio le emozioni sono state il trigger originario del linguaggio umano e rappresentano la spinta che ogni giorno ci fa aprire bocca o ci induce a non aprirla. E se parliamo, non possiamo sottovalutare che generiamo emozioni in altri, dando vita a un circolo senza fine.
Nel terzo capitolo ricostruisco parte del gran ginepraio che sono state e sono le riflessioni intorno alle emozioni e la difficoltĂ  di giungere a una loro definizione stringente. Nonostante questa complessitĂ  l’argomentazione che avanzo Ăš che se le emozioni sono dei movimenti interni, di conseguenza non vi Ăš alcuna possibilitĂ  di distinguere fra il movimento emotivo in sĂ© e il percepire l’emozione, fra il sorgere dell’emozione e il sentirla, fra il sentirla e il comprendere di che tipo di emozione si tratti. Il tutto, ovviamente, all’interno di uno specifico contesto, il quale concorre a definire l’insorgere, il sentire, il comprendere.
Se per il linguaggio ù maggiormente ovvio sostenere che ù un’attività relazionale e quindi prettamente sociale, meno ovvio ù sostenere che le dinamiche emotive si innestano unicamente e solamente per ragioni relazionali e sociali.
Infine, nell’ultimo capitolo, ancorandomi alle ricerche che riconducono alle esperienze attestate il costituirsi dei concetti, attribuisco un ruolo chiave ai concetti emozionali nell’influenzare e nel determinare la formazione di qualsiasi concetto. Partendo dalle argomentazioni dei capitoli precedenti, che assegnano all’interazione dinamica fra corpo e ambiente la chiave per comprendere la nostra capacitĂ  di “astrazione”, ne deduco che anche la piĂč sofisticata forma di astrazione Ăš sostanzialmente data dal nostro corpo in attivitĂ  ed Ăš manifestazione di quel corpo-anima di cui parla Aristotele. Le nostre locuzioni sono atti e azioni che non possono che riflettere chi siamo e come siamo e sono atti e azioni che si riverberano sugli altri modificandoli, visto che noi siamo per gli altri l’ambiente con il quale il loro corpo-anima interagisce.
C’ù quindi una conclusione, mai esplicitata nel testo, ma che sottende l’elaborato. Se siamo il prodotto della relazione dinamica fra il nostro corpo e i diversi ambienti che esperiamo la responsabilitĂ  dell’esercizio della funzione linguistica Ăš molto significativa. Se linguaggio ed emozioni sono attivitĂ  sociali non puĂČ che essere rilevante, e nel contempo ingombrante, la responsabilitĂ  che portiamo nelle scelte dei contesti nei quali decidiamo di vivere, ma soprattutto nella scelta delle parole che proferiamo. Se nel caso dei contesti, potremmo trovarci nella condizione di non poter scegliere, nel caso delle parole possiamo imparare a decidere che cosa dire, quando dirlo e come dirlo.
Attualmente tutti noi viviamo in un ambiente nel quale le parole assumono sovente un tratto barbarico, sia nella scelta delle parole in sé, sia nei toni con i quali vengono proferite. Ed essendo le parole gesti, viviamo e conviviamo con molti gesti barbarici.
In una societĂ  che esiste all’insegna del progresso, ricca di artefatti di ogni tipo, segno della nostra raffinata capacitĂ  di essere, mi sembra sia del tutto attuale quello che Freud scrive nell’ultimo saggio su MosĂ©: «viviamo in un tempo in cui il progresso ha stretto un patto con la barbarie».
Le parole si presentano quindi proprio come Platone descrive il pharmakon. Le parole sono allo stesso tempo un rimedio e un veleno, al pari delle emozioni che sono il rimedio per sentirci vivi e vitali e allo stesso tempo, come pensava Charles Sanders Peirce, possono anche rappresentare il veleno della vita.

1.
Nel continente
“Linguaggio ed emozioni”

Tutto quello che dico del linguaggio lo presuppone, ma ciĂČ non invalida quello che dico, ciĂČ rivela soltanto che il linguaggio si raggiunge e comprende se stesso, mostra solo che non Ăš un oggetto, che Ăš capace di un recupero, che Ăš accessibile dall’interno.

Maurice Merleau-Ponty, La prosa del mondo

1.1 Nel paese degli Acchiappa-citrulli
Dopo aver camminato una mezza giornata arrivarono a una cittĂ  che aveva come nome “Acchiappa-citrulli”. Appena entrato in cittĂ , Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati, che sbadigliavano dall’appetito, di pecore tosate, che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta e senza bargigli, che chiedevano l’elemosina d’un chicco di granturco, di grosse farfalle che non potevano piĂč volare, perchĂ© avevano venduto le loro bellissime ali colorite, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano a farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro scintillanti penne d’oro e d’argento, oramai perdute per sempre.
In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi, passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe, o qualche gazza ladra, o qualche uccellaccio di rapina.
– E il Campo dei miracoli dov’ù? – domandĂČ Pinocchio.
– È qui a due passi. –
Detto fatto traversarono la cittĂ , e, usciti fuori delle mura, si fermarono in un campo solitario che, su per giĂč, somigliava a tutti gli altri campi.
– Eccoci giunti; – disse la Volpe al burattino – Ora chinati giĂč a terra, scava con le mani una piccola buca nel campo, e mettici dentro le monete d’oro. –
...

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