Prologo
Credo di essere una persona che ha Lâabito di piume, come recita il titolo di un romanzo di molti anni fa di Banana Yoshimoto, e penso che questa sia la ragione per cui le parole che vengono pronunciate me le ricordo per lungo tempo, anche se non sono indirizzate a me. Mi ricordo il tono della voce, i singoli vocaboli, la sequenza delle locuzioni. Vengo ferita o fortificata anche se chi parla non si rivolge a me. Le parole mi segnano.
Ho iniziato a sette anni a divorare parole. Mettevo da parte le dieci lire, datemi da mamma e da nonna per i gelati di âgessoâ, quelli con lo zucchero e il bianco dâuovo rappreso, ormai da tempo scomparsi. Con i risparmi cosĂŹ accumulati andavo dal giornalaio e compravo romanzi.
Divoravo parole, senza alcun criterio. Inseguivo la gamma delle sensazioni, delle emozioni e dei sentimenti che provavo e andavo alla ricerca di nuove dimensioni affettive. Mi immedesimavo nelle storie e nei personaggi.
Le parole rappresentavano la fantastica meraviglia che mi consentiva di scoprire mondi interni e mondi esterni e cosĂŹ sono cresciuta nella convinzione che i romanzi, piĂč che i saggi, siano il luogo in cui i comportamenti sono meglio analizzati, dove le sfumature fanno le differenze e costituiscono lo stile del personaggio, reale o fittizio. E tanto piĂč un romanziere Ăš raffinato nellâuso delle parole tanto piĂč Ăš in grado di esprimere la raffinatezza delle dimensioni affettive degli umani, in ogni tempo e a ogni latitudine.
CosĂŹ ho sviluppato un istintivo interesse per le espressioni affettive e per lâuso delle parole che ciascuno di noi fa. Ma mentre non ho avuto alcun timore a scrivere di emozioni, sono sempre stata molto cauta nello scrivere saggi che riguardassero la struttura linguistica. Ho sempre considerato âla filosofia del linguaggioâ un ambito complicato, nel quale mi sento strutturalmente molto impreparata, anche se qua e lĂ qualche tentativo di affrontare tematiche attinenti ho provato a compierlo, sempre perĂČ schermata o dalla filosofia dellâeconomia o dallâontologia sociale.
Ă grazie alle ricerche in ambito neuroscientifico, soprattutto quelle degli ultimi sette anni, che ho trovato il coraggio di avanzare le tesi che illustro in questo libro, e che non potevano che tentare di connettere in modo strutturale emozioni e linguaggio.
Prima di riassumere il fulcro dellâargomentazione del testo, mi sembra rilevante sottolineare che in alcuni ambiti accademici Ăš finalmente emersa una riconsiderazione del valore e del ruolo delle emozioni. La valutazione negativa, che nella cultura occidentale ha per lungo tempo caratterizzato questo tratto umano, Ăš stata causata anche dallâaver dimenticato sia fondamentali riflessioni aristoteliche, sia il dato che a partire dalla nascita della psicanalisi â la scienza dellâanima â il linguaggio Ăš inestricabilmente legato alle emozioni, ed Ăš finalizzato alla guarigione da una malattia, la cui causa Ăš un vissuto emotivo negativo.
Sigmund Freud considera le emozioni elementi fondanti della struttura delle personalitĂ dellâindividuo e un esempio lo si ha nel saggio La negazione (1925), dove questa rappresenta la modalitĂ per prendere consapevolezza delle rimozioni. La negazione Ăš appunto per questo una sorta di revoca della rimozione, cosicchĂ© processo riflessivo ed emozioni sono scissi e la scissione Ăš sintomo di problematicitĂ . E il tema della scissione, del doppio, percorre la letteratura freudiana e, appare evidente, che altro non Ăš che un apologo sulla condizione umana, come ben testimonia lo scritto Il perturbante (1919). Il perturbante Ăš infatti lâevocazione dellâaltro, il richiamo allâambivalenza irriducibile e costitutiva e che porta anche in sĂ© la minaccia, il contraltare della vita, il suo doppio, cioĂš la morte.
Freud dĂ vita a una disciplina rigorosamente fondata sul linguaggio, ed Ăš unicamente grazie a questo che Ăš possibile rimuovere la rimozione, sanare la scissione e riprendere il dialogo con se stessi.
Sono i saggi che hanno al centro MosĂš â MosĂš egizio (1934), Se MosĂš era egizio (1937), Lâuomo MosĂš, il suo popolo e la religione monoteistica, (1939) â che saldano la dimensione emozionale individuale a quella comunitaria, perchĂ© il singolo e il popolo vivono e si tramandano il trauma emotivo ineliminabile dellâomicidio originario. Lâemozione dalla quale guarire riguarda ciascuno e allo stesso tempo riguarda tutti, o meglio, visto che riguarda tutti riguarda anche il singolo.
Ed Ăš la parola dei profeti, di coloro che conducono, che puĂČ aiutare a guarire dal trauma emotivo. Un profeta come Abramo Ăš un nomeus, un segno rappresentativo dellâaporia, un tĂłpos della dimensione temporale, dellâevento, del sacrificio, della promessa, del debito, della colpa, del dono, dello scambio, della dispersione, della follia dionisiaca, della spettralitĂ .
Similmente lo psicanalista Ăš un nomeus e incarna colui che aiuta e conduce il paziente a guarire.
Nel primo caso la parola si ascolta, nel secondo si proferisce. Ma in entrambi i casi Ăš una parola relazionale.
Questo lavoro parte proprio da questi presupposti, cioĂš dallâinscindibile nesso fra emozioni e linguaggio, dove sia linguaggio che emozioni sono per natura logos-dialogue, e hanno una struttura relazionale e sociale.
Mi pongo lâobiettivo di mostrare sia lâinseparabilitĂ di queste due manifestazioni umane, sia che la peculiaritĂ che ci contrassegna Ăš proprio lâinscindibile interazione dinamica fra emozioni e linguaggio, tanto che la nostra abilitĂ nel produrre artefatti Ăš strettamente legata alla raffinatezza delle nostre emozioni e alla congiunta raffinatezza della struttura linguistica. Emozioni, linguaggio e cultura sono dati intrecciati in un inviluppo inestricabile.
Nel primo capitolo rifiuto la tesi che la struttura linguistica sia sorta per effetto di una monocausa e sostengo che piuttosto sia il risultato di piĂč fattori, i quali hanno influito sui diversi aspetti che la caratterizzano e che ne contraddistinguono lâarticolazione. Proferire locuzioni Ăš sostanzialmente un gesto, ma Ăš un gesto peculiare e molto raffinato, sempre carico di emotivitĂ , piĂč o meno intensa.
Nel secondo capitolo, partendo dal presupposto aristotelico che siamo contraddistinti dallâessere animali in moto e ancorandomi alla distinzione che i fisiologi propongono fra azioni, atti e movimenti, argomento che le emozioni sono dei movimenti. Questi movimenti rappresentano la precondizione per creare la possibilitĂ di unâazione come quella del parlare e il parlare si Ăš articolato a âimitazioneâ dei movimenti, degli atti e delle azioni che il corpo assume nella gestione dello spazio e la dimensione ritmica ne Ăš la condizione caratterizzante. Inoltre, lâattivazione del parlare trova la sua ragione in movimenti interni, cioĂš nelle emozioni.
La tesi Ăš che proprio le emozioni sono state il trigger originario del linguaggio umano e rappresentano la spinta che ogni giorno ci fa aprire bocca o ci induce a non aprirla. E se parliamo, non possiamo sottovalutare che generiamo emozioni in altri, dando vita a un circolo senza fine.
Nel terzo capitolo ricostruisco parte del gran ginepraio che sono state e sono le riflessioni intorno alle emozioni e la difficoltĂ di giungere a una loro definizione stringente. Nonostante questa complessitĂ lâargomentazione che avanzo Ăš che se le emozioni sono dei movimenti interni, di conseguenza non vi Ăš alcuna possibilitĂ di distinguere fra il movimento emotivo in sĂ© e il percepire lâemozione, fra il sorgere dellâemozione e il sentirla, fra il sentirla e il comprendere di che tipo di emozione si tratti. Il tutto, ovviamente, allâinterno di uno specifico contesto, il quale concorre a definire lâinsorgere, il sentire, il comprendere.
Se per il linguaggio Ăš maggiormente ovvio sostenere che Ăš unâattivitĂ relazionale e quindi prettamente sociale, meno ovvio Ăš sostenere che le dinamiche emotive si innestano unicamente e solamente per ragioni relazionali e sociali.
Infine, nellâultimo capitolo, ancorandomi alle ricerche che riconducono alle esperienze attestate il costituirsi dei concetti, attribuisco un ruolo chiave ai concetti emozionali nellâinfluenzare e nel determinare la formazione di qualsiasi concetto. Partendo dalle argomentazioni dei capitoli precedenti, che assegnano allâinterazione dinamica fra corpo e ambiente la chiave per comprendere la nostra capacitĂ di âastrazioneâ, ne deduco che anche la piĂč sofisticata forma di astrazione Ăš sostanzialmente data dal nostro corpo in attivitĂ ed Ăš manifestazione di quel corpo-anima di cui parla Aristotele. Le nostre locuzioni sono atti e azioni che non possono che riflettere chi siamo e come siamo e sono atti e azioni che si riverberano sugli altri modificandoli, visto che noi siamo per gli altri lâambiente con il quale il loro corpo-anima interagisce.
CâĂš quindi una conclusione, mai esplicitata nel testo, ma che sottende lâelaborato. Se siamo il prodotto della relazione dinamica fra il nostro corpo e i diversi ambienti che esperiamo la responsabilitĂ dellâesercizio della funzione linguistica Ăš molto significativa. Se linguaggio ed emozioni sono attivitĂ sociali non puĂČ che essere rilevante, e nel contempo ingombrante, la responsabilitĂ che portiamo nelle scelte dei contesti nei quali decidiamo di vivere, ma soprattutto nella scelta delle parole che proferiamo. Se nel caso dei contesti, potremmo trovarci nella condizione di non poter scegliere, nel caso delle parole possiamo imparare a decidere che cosa dire, quando dirlo e come dirlo.
Attualmente tutti noi viviamo in un ambiente nel quale le parole assumono sovente un tratto barbarico, sia nella scelta delle parole in sé, sia nei toni con i quali vengono proferite. Ed essendo le parole gesti, viviamo e conviviamo con molti gesti barbarici.
In una societĂ che esiste allâinsegna del progresso, ricca di artefatti di ogni tipo, segno della nostra raffinata capacitĂ di essere, mi sembra sia del tutto attuale quello che Freud scrive nellâultimo saggio su MosĂ©: «viviamo in un tempo in cui il progresso ha stretto un patto con la barbarie».
Le parole si presentano quindi proprio come Platone descrive il pharmakon. Le parole sono allo stesso tempo un rimedio e un veleno, al pari delle emozioni che sono il rimedio per sentirci vivi e vitali e allo stesso tempo, come pensava Charles Sanders Peirce, possono anche rappresentare il veleno della vita.
1.
Nel continente
âLinguaggio ed emozioniâ
Tutto quello che dico del linguaggio lo presuppone, ma ciĂČ non invalida quello che dico, ciĂČ rivela soltanto che il linguaggio si raggiunge e comprende se stesso, mostra solo che non Ăš un oggetto, che Ăš capace di un recupero, che Ăš accessibile dallâinterno.
Maurice Merleau-Ponty, La prosa del mondo
1.1 Nel paese degli Acchiappa-citrulli
Dopo aver camminato una mezza giornata arrivarono a una cittĂ che aveva come nome âAcchiappa-citrulliâ. Appena entrato in cittĂ , Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati, che sbadigliavano dallâappetito, di pecore tosate, che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta e senza bargigli, che chiedevano lâelemosina dâun chicco di granturco, di grosse farfalle che non potevano piĂč volare, perchĂ© avevano venduto le loro bellissime ali colorite, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano a farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro scintillanti penne dâoro e dâargento, oramai perdute per sempre.
In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi, passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe, o qualche gazza ladra, o qualche uccellaccio di rapina.
â E il Campo dei miracoli dovâĂš? â domandĂČ Pinocchio.
â Ă qui a due passi. â
Detto fatto traversarono la cittĂ , e, usciti fuori delle mura, si fermarono in un campo solitario che, su per giĂč, somigliava a tutti gli altri campi.
â Eccoci giunti; â disse la Volpe al burattino â Ora chinati giĂč a terra, scava con le mani una piccola buca nel campo, e mettici dentro le monete dâoro. â
...