Caterina e Diderot
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Caterina e Diderot

L'imperatrice, il filosofo e il destino dell'Illuminismo

Robert Zaretsky

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  1. 240 pages
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Caterina e Diderot

L'imperatrice, il filosofo e il destino dell'Illuminismo

Robert Zaretsky

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Nell'ottobre del 1773, dopo un viaggio estenuante da Parigi, un Denis Diderot molto provato scese barcollando da una carrozza nell'inverno di San Pietroburgo. Il filosofo più sovversivo dell'Illuminismo arrivò come ospite della sovrana più ambiziosa e ammirata, l'imperatrice Caterina di Russia. Accadde qualcosa che non aveva precedenti: nell'arco di quattro mesi, ben oltre quaranta incontri privati fra queste due figure straordinarie. Diderot era venuto da Parigi per guidare – o almeno così credeva – la donna che rappresentava l'ultima grande speranza del continente di vedere un sovrano illuminato. Ma fu subito chiaro che Caterina aveva una concezione del tutto diversa, sia del proprio ruolo sia di quello dell'ospite. I filosofi, sosteneva, avevano il privilegio di scrivere su carta inanimata, mentre i sovrani dovevano farlo sulla pelle umana, sensibile al minimo tocco. Gli incontri di Caterina e Diderot, tenuti nelle stanze private dell'imperatrice all'Hermitage, catturarono la fantasia dei contemporanei. I capi di Stato come Federico di Prussia temevano le conseguenze di quelle conversazioni, gli intellettuali come Voltaire speravano che avrebbero giovato agli scopi dell'Illuminismo. In Caterina e Diderot Robert Zaretsky delinea le vite di questi due considerevoli personaggi e ci invita a riflettere sull'insidiosa relazione fra politica e filosofia, e fra un uomo di pensiero e una donna d'azione.

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Informations

Éditeur
Hoepli
Année
2020
ISBN
9788820398026

1

Il mare a Scheveningen

Avevate promesso di restare a casa, e invece sembra che tutti abbiano diritti su di voi tranne la vostra famiglia. Ah, che uomo!
Nanette a Diderot
All’inizio dell’estate del 1773 un francese un po’ curvo camminava sulla passeggiata che univa la città olandese dell’Aia con la località balneare di Scheveningen. Spesso rallentava e si fermava, girando la testa verso il mare per poi voltarla sugli altri passanti: uomini abbigliati in modo formale, con la testa piena quasi esclusivamente di questioni commerciali, e gruppetti di donne con lunghe sciarpe intorno al collo e grandi cappelli di paglia fissati alle chiome, con l’aria di essere dirette al confessionale.1 Una visione insolita ma non spiacevole per il viaggiatore che per le vie familiari di Parigi non incontrava abitualmente donne disadorne e non accompagnate.2
Di certo anche i passanti, a loro volta, avevano adocchiato quello strano personaggio che guardava il mare, con la sua vecchia redingote nera e i capelli radi smossi dal vento. Sembrava piuttosto anziano, forse sui sessanta, e appariva un po’ stranito, come un bimbo addormentato trasportato in carrozza dai genitori durante la notte che si svegli il giorno dopo in un luogo che aveva soltanto sognato, senza averlo mai visto.
Per Denis Diderot, il sognatore in questione, la barriera fra il mondo e l’immaginazione non era solida come le grandi dighe che separavano la terra dal mare. Era la «vasta uniformità [del mare]» né immobile né tempestosa che, come scrisse più tardi anche all’amante, Sophie Volland, «accompagnata da un certo mormorio, induce a fantasticare». Sulla spiaggia, le confessava, fantasticava nel migliore dei modi.3 Che altro motivo gli serviva per camminare lungo la costa, quando si staccava dalla lettura e dalla scrittura?
Diderot indugiava spesso a Scheveningen, un luogo dove la vista spaziava libera dai moli, dagli alberi delle navi e dagli edifici portuali che la ingombravano all’Aia. Come scrisse più tardi in un resoconto del viaggio, era la sua «passeggiata preferita».4 Non era l’unico a nutrire quella preferenza: nella seconda metà del secolo Scheveningen era diventata una meta favorita – una specie di palcoscenico – per turisti desiderosi di ammirare il Mare del Nord in tutta la sua pienezza grigio ardesia. La stessa Olanda era diventata una specie di palcoscenico per la teatrale composizione di mare e linea costiera che trasformava l’acqua e la sabbia in uno spettacolo degno del dispendio di tempo dei turisti.5 Lo sforzo titanico degli olandesi per strappare la terra al mare era disprezzato dagli inglesi, invidiosi – il poeta Andrew Marvell liquidava i Paesi Bassi come «indigesto vomito del mare» – e snobbato dall’imperialismo francese: Napoleone li considerava nient’altro che «sedimenti alluvionali depositati dai principali fiumi del mio impero».6
Per Diderot, tuttavia, quella terra era una meraviglia, in parte proprio perché era opera dell’uomo. Ammirava il sistema di fossi e canali che la difendeva dal mare, così come ammirava il sistema bancario e commerciale che aveva arricchito i forzieri del paese e nutrito il suo spirito di tolleranza. Non c’era segno più potente della ricchezza olandese, osservava, della «foresta di alberi» che galleggiava al porto di Amsterdam. Perfino Cartagine impallidiva al confronto.7 A differenza del suo ex amico Jean-Jacques Rousseau, Diderot non era un romantico ante litteram: la terra protetta da fossi e canali, i porti gremiti di alberi e magazzini, le navi commerciali e militari che dominavano i mari dominavano anche l’immaginazione di Diderot, come i fossati che tenevano a bada il mare. Sorprendente, pensava, che in questa «terra di inondazioni si riesca comunque a dormire».8
Ciò che lo colpiva di più, però, erano i dettagli, non i progetti grandiosi: gli uomini e le donne, non le idee e le cifre. Passava lunghi momenti, forse più degli altri visitatori, a osservare i pescatori lottare fra i flutti agitati con le reti cariche di aringhe. Accanto a lui sulla spiaggia c’erano le mogli dei pescatori: quando non guardava gli uomini Diderot volgeva lo sguardo alle donne, notando le rughe sui volti che esprimevano sia ansia che rassegnazione. Anche il suo viso, come uno specchio delle impressioni della mente, rifletteva la tensione e il terrore mal trattenuto di quelle mogli. «Cento volte» scrisse «fui travolto dalla paura per il destino di quegli uomini, che in mezzo alla tempesta combattevano per la pesca contro i gabbiani.» Quando i pescherecci, appesantiti dal carico, toccavano finalmente terra, le donne correvano ad abbracciare mariti e figli – una visione di «amore coniugale e familiare senza tempo» di cui Diderot non si stancava mai.9
Diderot era così avido di scene del genere che quando quelle in cui si imbatteva non lo soddisfacevano se le creava da solo. Sembra che avesse fatto così anche con la propria famiglia, la sera prima di lasciare Parigi diretto in Olanda. Da quando la figlia Angélique, sposatasi con un ambizioso imprenditore, era uscita di casa, Diderot e la moglie Nanette trascorrevano le giornate evitandosi guardinghi nel nido ormai vuoto. «Come ci si può aspettare» si lamentava con la sorella «che io parli con una donna bisbetica, pronta a esplodere ogni volta che cade uno spillo?»10 Ci si può ben immaginare la risposta di Nanette: «Come ci si può aspettare che io parli con un uomo bisbetico, pronto a cambiare programmi da un momento all’altro?» Comunque, data l’età avanzata e la salute precaria, l’indecisione di Diderot sul viaggio in Russia – che lo portò più volte a fare un passo in direzione di San Pietroburgo per poi tornare indietro – era certamente comprensibile. L’idea di lasciare la famiglia era spaventosa per quell’uomo sedentario. «Cercate di capire» implorava un amico: «Devo lasciare mia moglie, mia sorella, mia figlia e i miei amici… Ripensandoci, è un dolore troppo grande. Non parliamone più.»11 Ahimè, il problema di Nanette era che il marito non faceva altro che parlarne. Era stanca dei tentennamenti del marito quanto lo era delle sue esagerazioni.
Alla vigilia della partenza l’atmosfera in casa di Diderot era diventata pura farsa. Jean Devaines, un amico che quella sera era passato a trovare la famiglia, lasciò un resoconto incredibile, che non ha nulla da invidiare a drammaturghi come Corneille o Molière. Accolto alla porta da un agitatissimo Diderot, Devaines lo seguì nello studio. Lì il filosofo, scoppiando in lacrime, sbottò: «Sono disperato! Ho appena assistito a una scena raccapricciante per un marito e un padre.» Poi gemette, apparentemente incapace di proseguire il racconto: «Ah! Come potrei separarmi da loro, adesso che ho visto quanto soffrono?» Mentre Devaines cercava le parole, Diderot lo interruppe, evidentemente perché aveva trovato la forza di finire il discorso. Gli spiegò che la moglie e la figlia erano sedute accanto a lui a cena. Naturalmente non c’erano ospiti: Diderot voleva dedicare soltanto a loro quegli ultimi momenti. «Che spettacolo desolante» declamò. «Non se ne vedranno mai più di simili! Non riuscivamo a parlare né a mangiare, soffocati dalla disperazione.» Diderot afferrò l’amico per le braccia e fece una pausa prima di esclamare: «Ah, amico mio. Che cosa ci può essere di più dolce dell’amore della propria famiglia? No, il pensiero di lasciarle è troppo orribile! Non troverò mai il coraggio disumano di fare una cosa simile. Come possono le aspettative dell’imperatrice Caterina prevalere sugli sfoghi del cuore?» Apparentemente convinto dalle sue stesse parole, Diderot annunciò poi al suo uditorio fatto di una sola persona: «Ho deciso: resterò! Non lascerò mai mia moglie e mia figlia! La mia partenza sarebbe la loro morte e mi rifiuto di eseguire la condanna!»
Terminata l’orazione Diderot si buttò fra le braccia di Devaines, bagnandogli di lacrime la giacca. Una scena resa ancora più memorabile dall’entrata improvvisa, da sinistra, di Madame Diderot. Con una cuffietta posata in testa e le mani sui fianchi, la brava donna chiese: «Eccoci qui, eh? Che cosa state facendo, Monsieur Diderot?» Conoscendo la risposta, Nanette proseguì senza batter ciglio: «State perdendo tempo e trascurando di finire i bagagli per raccontare queste sciocchezze! Dovete partire domattina presto e state qui a sproloquiare.» Dopo una pausa, Nanette rivelò il motivo per cui Diderot non aveva fame: «Questo succede quando mangiate fuori con gli amici invece di stare a casa. Avevate promesso di restare a casa, e invece sembra che tutti abbiano diritti su di voi tranne la vostra famiglia. Ah, che uomo!»12
A Scheveningen, osservando rapito l’infrangersi delle onde, Diderot riuscì ad annegare il ricordo della scenata di Parigi. Ma in realtà quei momenti erano mises en scène più orchestrate che spontanee. Molti anni prima, nel 1765, aveva descritto varie occasioni in cui aveva già incontrato il mare. C’era stato un terribile naufragio, in cui «il mare ruggisce, il vento fischia, il tuono rimbomba e il pallido, tetro alone del lampo squarcia le nubi e rivela la scena». Oppure una visione dello stesso mare, ormai calmo, che si approfondisce «impercettibilmente con il movimento dell’occhio, che si sposta dalla riva al punto dove incontra l’orizzonte».13
Quegli incontri con il mare però non avevano avuto luogo sulle coste olandesi o francesi, bensì nelle sale chiuse e riscaldate del Salon di Parigi. Queste erano le descrizioni fatte da Diderot dei dipinti di Claude-Joseph Vernet, un artista con il quale aveva appena fatto amicizia. Poco prima di partire per l’Olanda aveva appeso in studio uno dei suoi dipinti di Vernet preferiti, Una tempesta sulla costa mediterranea. Il minuzioso realismo dell’opera, che rappresentava un gruppetto di uomini e donne radunati sulla spiaggia a osservare un naufragio, lo sbalordiva: «O Dio!» esclamava. «Riconosci le acque che tu hai creato. Riconoscile, quando il tuo soffio le agita, quando la tua mano le calma.»14 Ripensando a un’altra marina di Vernet, Diderot sospirava semplicemente: «Se hai visto il mare alle cinque conosci questo dipinto.»
Stranamente, prima del viaggio in Olanda, Diderot non aveva mai visto il Mare del Nord né alle cinque, né ad altre ore del giorno o della notte. Non aveva mai visto nessuna distesa d’acqua, almeno nessuna più grande della Senna che attraversava la sua amata Parigi. Dopo il trasferimento in giovane età dalla città natale di Langres, a sudest della capitale, non si era mai allontanato di molto da Parigi. Fino al 1773 i suoi viaggi si erano limitati alle gite presso le tenute di campagna degli amici aristocratici, alle rare visite a Langres e al soggiorno di tre mesi nella prigione di Vincennes. Diderot però non l’avrebbe considerato un handicap. «Fino a questa lettura avevo pensato che in nessun posto si stesse bene quanto a casa propria» confida il personaggio di un’opera, Supplemento al viaggio di Bougainville, alla quale molto probabilmente lavorò durante la permanenza in Olanda. Indicando una copia del resoconto pubblicato da Bougainville sulla sua circumnavigazione del globo il personaggio, che ha molti punti di contatto con Diderot, dice al suo interlocutore che l’esploratore francese può «fare il giro del globo su una tavola, come voi e me [possiamo fare] il giro dell’universo sul nostro parquet».15
Eppure eccolo in Olanda, strappato al pavimento di casa come gli olandesi avevano strappato la terraferma dal mare. Durante quella sosta in passeggiata, i pensieri di Diderot non andavano oltre le onde. O meglio, le onde portavano i suoi pensieri in tante direzioni, una delle quali era forse il ricordo del Salon di Parigi del 1765. Lì si era imbattuto per la prima volta nelle opere di Vernet. Quello che lo aveva colpito era la verosimiglianza delle marine, il modo in cui riuscivano a creare un effetto così reale – anche se doveva ammettere di non essere certo buon giudice del realismo del mare – tramite un mezzo così falso. Aveva osservato che la tela contiene una «trama di falsità, nascoste una nell’altra» che tuttavia si mescolano, grazie al pennello di un grande pittore, in una visione del mondo apparentemente vera e naturale.16
Per questo motivo Diderot poteva dichiarare in assoluta sincerità di sapere che aspetto avesse il mare alle cinque. La linea di confine fra la creazione e la ri-creazione, fra la natura e la sua rappresentazione, si confonde e svanisce fra le mani dei grandi artisti. Anzi, i pittori davvero grandi mettono se stessi sulla tela, inconsapevoli o incuranti che sia un oggetto destinato alla visione altrui. «Se, dipingendo un quadro, si presuppone la presenza degli spettatori, tutto è perduto.»17 Sarebbe come se un attore si lanciasse in un monologo rivolgendosi al pubblico: la quarta parete crollerebbe e la finzione, l’artificio, verrebbero svelati. Per questo Diderot poteva fermarsi davanti a uno dei suoi quadri preferiti di Jean-Baptiste Chardin proprio come «un viaggiatore stanco va a sedere, quasi senza rendersene conto, nel luogo che gli offre ristoro fra la vegetazione, il silenzio, l’acqua, l’ombra e la frescura».18 Quei dipinti erano un’estensione del mondo reale, intimi e concreti, così diversi dalle tavole rococò prodotte dal grande rivale di Chardin, François Boucher: «Quell’uomo prende in mano il pennello soltanto per mostrarmi tette e culi. Ora, sono più che felice di ammirarne, ma non sopporto che qualcuno me li faccia notare.»19
L’Olanda, in pratica, consentì a Diderot di valutare non soltanto quanto accuratamente Vernet avesse dipinto la natura, ma anche quanto la natura si uniformasse a Vernet. Diderot sapeva che la natura poteva non essere all’altezza dell’arte. «L’eccellenza nell’arte, nei suoi aspetti morali quanto in quelli fisici, consiste nel superare la natura, nell’impiegare più intelligenza alla composizione delle scene… Nota quanto le più terribili calamità naturali, tempeste, vulcani, fulmini, siano ancora più terrificanti nella finzione dei poeti.»20
Gli accademici e gli scrittori olandesi avevano tributato a Diderot un’accoglienza trionfale, celebrandolo come direttore dell’Encyclopédie. Visitò musei e università, incontrò notabili e professori illustri: come riferì un amico era «impazzito per i dottori olandesi».21 Inevitabilmente, quella che doveva essere una sosta di appena due settimane si prolungò in una serie di giri d’onore della durata di due mesi, durante i quali Diderot divenne una presenza fissa agli eventi mondani. Madame de Hogendorp, moglie di un ricco mercante, incontrò più volte il seducente francese in queste occasioni. «È gentile, buono e umano» scrisse al marito. «Adoro sentirlo parlare.» Anzi a volte Diderot passava a trovare la brava signora a casa per «trascorrere un paio d’ore ad ascoltare i miei guai».22 Si spera che Monsieur de Hogendorp, che si trovava dall’altra parte del globo, in India, per affari, condividesse la gioia della moglie su questo punto.
In poche righe Madame de Hogendorp aveva catturato la personalità di Diderot, che aveva sedotto uomini e donne grazie al dono della parlantina – tranne nei casi in cui li aveva scioccati. Madame Geoffrin, che animava uno dei principali salotti di Parigi, aveva fatto capire con tatto a Diderot che non era più il benvenuto ai suoi incontri del mercoledì. Confessò che l’uomo sfuggiva al suo controllo educato ma comunque severissimo.23 Mentre Diderot elettrizzava gli ospiti olandesi, la Geoffrin scriveva di lui a un amico: «È un uomo onesto e leale, ma è una testa sbagliata. Ed è tutto così intimamente sbagliato che non vede né sente nulla com’è nella realtà. È sempre come un uomo che sogna, e che crede a qualsiasi cosa che ha sognato.»24
Diderot sarebbe stato d’accordo. In una lettera a Sophie Volland riflette sui «circuiti» tortuosi che hanno seguito durante una conversazione. «I sogni di un malato in preda al delirio» aggiunge «non sono più inusitati». Ma quell’impressione, prosegue, svanisce studiando con attenzione ciò che è stato detto, apparentemente a caso, durante la conversazione: «Visto che non vi è niente di sconnesso né nella mente di un uomo che sogna, né in quella di un pazzo, anche nella conversazione tutto ha una sua logica; ma talvolta sarebbe assai diffici...

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