Sonnambuli verso un nuovo mondo
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Sonnambuli verso un nuovo mondo

L'affermazione dei comuni italiani nel XII secolo

Chris Wickham

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  1. 241 pages
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Sonnambuli verso un nuovo mondo

L'affermazione dei comuni italiani nel XII secolo

Chris Wickham

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Nel quadro della disintegrazione del Regno d'Italia, tra XI e XII secolo, una nuova forma di governo collettivo – il comune – si affermĂČ nelle cittĂ  del Centro e del Nord. Sonnambuli verso un nuovo mondo considera questo processo in modo profondamente nuovo, mutando completamente la nostra lettura di una delle piĂč importanti novitĂ  politiche e culturali del mondo medievale.Grazie al quadro articolato delle strutture sociali e di potere di tre cittĂ  – Milano, Pisa e Roma – poste poi a confronto col vivace sfondo delle altre cittĂ  italiane, Chris Wickham mostra come lo sviluppo di una delle prime forme di governo non regio dell'Europa medievale si sia compiuto senza che gli esponenti delle Ă©lite cittadine fossero realmente consci di creare qualcosa del tutto nuovo, muovendosi come sonnambuli, senza una chiara consapevolezza del radicale mutamento in atto.

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Informations

Année
2020
ISBN
9788833135120

1. Comuni

Nel 1117, dopo un grande terremoto che aveva devastato il nord Italia, l’arcivescovo di Milano e i consoli – ovvero i capi della cittĂ  – convocarono le popolazioni e i vescovi di altre cittĂ  del nord a una grande assemblea a Milano, nel Broletto, uno spazio aperto posto accanto alle due cattedrali di Milano, ora compreso nella Piazza del Duomo. Qui, per riprendere le parole di un testimone oculare, il cronista Landolfo di S. Paolo, che scrisse due decenni piĂč tardi
L’arcivescovo e i consoli fecero innalzare due theatra [palchi]; su uno rimasero in piedi e si sedettero l’arcivescovo con i vescovi, gli abati e i piĂč importanti religiosi; sull’altro i consoli, insieme con uomini eruditi nelle leggi e consuetudini. E tutto attorno a loro era presente un’innumerevole moltitudine di chierici e laici, comprese donne e vergini, in attesa della sepoltura dei vizi e della rinascita delle virtĂč.
Sembra che questa assemblea fosse stata convocata in risposta al terremoto, e Landolfo ricorda poco dopo che «l’intero popolo si raccolse lĂŹ per paura della rovina e delle macerie, per ascoltare la messa e la predicazione»; ma fu anche vista come un momento in cui le persone potevano chiedere giustizia, e lo stesso Landolfo era lĂŹ per cercare di ottenere un risarcimento, dato che era stato recentemente espulso dalla chiesa (S. Paolo) di cui era prete e in parte proprietario. Il suo tentativo fallĂŹ: il suo nemico, l’arcivescovo Giordano, non gli consentĂŹ mai di riottenere la sua chiesa, nĂ© lo fecero (sia pure con meno astio) i suoi successori. In tal contesto, l’annotazione di Landolfo sulla rinascita delle virtĂč potrebbe essere letta come una nota di sarcasmo. Ma colpisce la sua rappresentazione della scena dell’assemblea con i due palchi, cosĂŹ come la rappresentazione della divisione dei poteri, con la Chiesa su un palco, i consoli e i giurisperiti sull’altro.1
Questo racconto puĂČ essere messo a confronto con un documento di luglio dello stesso anno, che si Ăš conservato in una copia contemporanea, e che afferma che «nel pubblico arengo [forse lo stesso spazio aperto], in cui era il signor Giordano, arcivescovo di Milano, e lĂŹ con lui i suoi preti e chierici degli ordini maggiori e minori della chiesa di Milano, alla presenza dei consoli milanesi e con loro molti dei capitanei e vavassores [i due ordini dell’aristocrazia militare lombarda] e il populus», i consoli di Milano avevano deliberato per una lite che era stata portata lĂŹ in giudizio dal vescovo di Lodi, cittĂ  vicina e ora sottomessa a Milano. Questo Ăš appena il secondo documento in ordine cronologico a citare i consoli di Milano, e il primo in cui i consoli – diciannove di loro – sono effettivamente elencati e descritti mentre agiscono come giudici. Il racconto di Landolfo e il documento consolare sembrano riferirsi, se non alla stessa assemblea, almeno a occorrenze diverse, succedutesi in breve tempo, della stessa occasione, e quindi i due testi si sostengono l’uno con l’altro: uno mostra un evento solennemente orchestrato, l’altro ne mostra gli effettivi contenuti giuridici. E come una coppia di testi sono stati considerati – e ampiamente enfatizzati – fin da quando la moderna storiografia ha iniziato a occuparsi delle origini dei comuni italiani, il che nel caso di Milano risale a Giorgio Giulini, negli anni Sessanta del Settecento: in questo momento drammatico, possiamo vedere i consoli di Milano che iniziano ad assumere il loro nuovo e futuro ruolo di governanti della cittĂ , e la storia italiana da questo momento prese una svolta decisiva.2
Mappa 1. L’Italia comunale.
Nel seguito di questo libro intendo sfumare in modo abbastanza rilevante l’importanza di questo momento. Ma cominciamo considerando perchĂ© questo momento e il nuovo regime politico abbiano un tale rilievo storiografico. Per questo bisogna tener presenti due contesti, intesi in senso molto ampio, uno italiano e uno internazionale (compresa, non per ultima, l’America). Per gli storici professionisti italiani, il ruolo del medioevo nella grande narrazione del passato non fu mai, come nella maggior parte dell’Europa occidentale, quello delle origini dello stato moderno (o del rimpianto per il suo fallimento in Germania), ma piuttosto la vittoria degli stati cittadini autonomi sulle dominazioni straniere, il che rese possibile la cultura civica rinascimentale. Per la veritĂ  il dominio straniero fu solo una parte di ciĂČ, perchĂ© gli Italiani tendevano fino a poco tempo fa a considerare l’effettiva costruzione statale di Normanni e Angioini nel sud Italia come un’opportunitĂ  sprecata e come l’origine dell’arretratezza del Meridione, perchĂ© aveva indebolito l’autonomia urbana in quest’area. La cittĂ  era il «principio ideale» della storia italiana, nella famosa definizione di Carlo Cattaneo degli anni Cinquanta dell’Ottocento, in pieno Risorgimento. PerciĂČ per la comunitĂ  degli storici era del massimo interesse e importanza quando fosse stato il primo momento di sviluppo dell’autonomia urbana, e il «moto associativo» che condusse alle collettivitĂ  autonome era un nucleo centrale degli studi, in particolare nei decenni attorno al 1900, il periodo in cui si sviluppĂČ lo studio scientifico della storia in Italia. In effetti la sua forza emozionale piĂč che scientifica implicĂČ che i dibattiti attorno alla natura della collettivitĂ  urbana medievale divenissero presto metafore per le principali battaglie politiche e culturali della storia italiana del primo Novecento; i medievisti furono importanti nei movimenti socialista e fascista, nella comunitĂ  idealista crociana e anche nel movimento clericale a combustione lenta che dopo la Seconda Guerra Mondiale diede vita alla Democrazia Cristiana. Si potrebbe pensare che perciĂČ il soggetto sia stato pienamente studiato; purtroppo l’esito non Ăš stato questo (tornerĂČ su ciĂČ piĂč avanti), ma la centralitĂ  del tema rimane un dato scontato in Italia.3
Per quanto riguarda l’interesse internazionale per il tema, esso – da Burckhardt fino all’insegnamento della “CiviltĂ  occidentale” nei corsi di laurea negli Stati Uniti – fu associato anche al Rinascimento, ma qui con l’aggiunta della supposta natura democratica, o quanto meno repubblicana, dei comuni italiani, come contributo all’origine della “modernità”. Come disse lo storico di Venezia Frederic C. Lane all’American Historical Association nel 1965, «la mia tesi qui Ăš che il repubblicanesimo, e non il capitalismo, sia il piĂč connotante e significativo aspetto di queste cittĂ -stato italiane; tale repubblicanesimo ha dato alla civiltĂ  italiana dal XIII fino al XVI secolo la sua qualitĂ  distintiva
 Il tentativo di far rivivere la cultura delle antiche cittĂ -stato rafforzĂČ a sua volta l’ideale repubblicano e contribuĂŹ in modo rilevante al suo trionfo nelle nazioni moderne e prima di tutto nella nostra». L’attenzione americana per la storia del Rinascimento, che rimane tuttora cosĂŹ forte, deriva da entrambi questi filoni.4 L’esperienza dei comuni italiani Ăš stata anche usata – con una frequenza sorprendente – come punto di riferimento da studiosi non medievisti, come nell’influente libro La tradizione civica nelle regioni italiane di cui Ăš coautore il sociologo americano Robert Putnam, che attribuisce tutta la contemporanea solidarietĂ  civica italiana all’influenza dei comuni medievali e al loro «cercare nella collaborazione la soluzione ai loro dilemmi hobbesiani» nell’XI secolo; oppure, nel Regno Unito, la ben nota sintesi di Quentin Skinner Le origini del pensiero politico moderno, che semplicemente, senza dare spiegazioni, inizia con i primi regimi comunali italiani, in un capitolo intitolato «L’ideale di libertà». Questi due importanti studiosi, devo aggiungere, si sono accontentati di ottenere le loro informazioni sull’Italia comunale da manuali piuttosto semplici, ma i comuni italiani – e piĂč in generale le cittĂ -stato italiane – hanno un posto notevole nella presentazione di che cosa ognuno di loro intende per modernitĂ .5
Potrei allungare questa lista, ma probabilmente non ce n’ù bisogno. Il punto Ăš che i comuni italiani sono stati ampiamente usati, spesso senza molta riflessione specifica, per connotare uno dei punti di passaggio obbligati verso il mondo moderno, per la loro collaborazione dal basso, per il loro allontanamento dalle istituzioni regie, per la loro creativitĂ  istituzionale e per la loro cultura laica (e quindi piĂč “moderna”). Questo tipo di interpretazione secondo me Ăš fondamentalmente sbagliata, come tutte le letture teleologiche della storia. Ma non tutte le descrizioni sono errate: i comuni erano davvero connotati dalla creativitĂ  istituzionale (se non altro, perchĂ© le loro istituzioni tendevano a fallire), e inoltre erano certo fondati su una collaborazione dal basso (per quanto fossero fondamentalmente attraversati anche da valori e rivalitĂ  gerarchiche e militari/aristocratiche). Queste erano delle novitĂ , e le loro effettive contraddizioni le rendono interessanti e al contempo difficili da spiegare. Il filo conduttore di questo libro sarĂ  quindi rappresentato da queste contraddizioni, che sono riassunte al meglio attraverso un problema semplice. Le cittĂ  dell’Italia settentrionale e centrale, attorno (per dire) al 1050, erano gestite da Ă©lite aristocratiche e militari – e anche clericali – con pratiche e valori in larga misura uguali a quelli di qualunque altro luogo dell’Europa latina; e benchĂ© fossero talvolta difficili da controllare, queste Ă©lite, proprio come altrove, facevano pienamente parte delle gerarchie che si estendevano verso l’alto ai vescovi, ai conti e ai re/imperatori, come parti di un coerente Regno d’Italia. Al contrario, attorno (per dire) al 1150, erano gestite da Ă©lite che potevano benissimo provenire dalle stesse famiglie, ma che avevano sviluppato nuove e autonome forme di governo collettivo, che in cinquanta e piĂč cittĂ  erano incentrate su consoli di durata annuale; queste cittĂ  non facevano riferimento, se non formalmente, ad alcun potere superiore e combattevano regolarmente tra di loro. Questi governi apparivano decisamente sovversivi a chi veniva...

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