1
Il terzo pianeta del Sistema Solare
Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana...
Ispirandoci allâincipit della saga di Guerre Stellari di George Lucas, la storia del nostro pianeta potrebbe cominciare proprio come titola il paragrafo.
Lâapparente âvuotoâ dellâuniverso Ăš costellato di raggruppamenti di centinaia di miliardi di stelle chiamati galassie. Nel loro interno, le galassie ospitano anche nubi di gas e polveri in lenta rotazione che, a cose normali, se ne stanno buone e tranquille. Ma quando vengono agitate da una qualche perturbazione (come lâonda dâurto di unâesplosione stellare) cominciano a subire un processo di contrazione che ne fa aumentare la temperatura verso il centro, fino ad accendere una fornace nucleare: nasce una stella. Nel frattempo, anche il resto della nube Ăš diventato incandescente, e dallâaccrescimento progressivo di piccole disomogeneitĂ prendono forma i pianeti e lâintero sistema planetario.
Ecco. Questo Ăš ciĂČ che pensiamo sia avvenuto nella nostra galassia, la Via Lattea, circa 4,6 miliardi di anni fa, quando vide la luce il Sistema Solare di cui la nostra Terra fa parte.
In principio, ogni pianeta, satellite e corpo minore era fluido e rovente. Poi, nel corso del tempo si sono raffreddati e solidificati, assumendo lâaspetto che vediamo oggi.
Lâapparenza, perĂČ, puĂČ ingannare. Le immagini riprese dallo spazio ci mostrano il nostro bel pianeta come una placida sfera blu dalla geometria massiccia e perfetta. Eppure, una âfotografia strumentaleâ estrapolata dalla distribuzione delle masse superficiali (ovvero gravimetrica, cioĂš basata sullâandamento dellâaccelerazione di gravitĂ in superficie), la tradisce come un agglomerato bitorzoluto e per nulla accattivante, e se le acque non ne riempissero i vuoti assomiglierebbe ad una patata malandata.
Lâinterno, perĂČ, Ăš tuttâaltra cosa. LĂŹ, vigono ordine e armonia. Il raffreddamento ha convogliato gli elementi piĂč pesanti in profonditĂ creando una struttura stratificata.
Se pensiamo a tale diversificazione in termini chimici, il nostro mondo potrebbe essere equiparato a un grande uovo, dove il tuorlo Ăš rappresentato da un nucleo di ferro e nichel in parte solido e in parte liquido, lâalbume dal mantello soprastante fatto di silicati di ferro e magnesio, e il sottile guscio dalla crosta, estremamente eterogenea. Radiografando il pianeta da un punto di vista meccanico, invece, la struttura che ne risulta puĂČ essere equiparata a quella di una cipolla (metafora ormai famosa e abusata da noi divulgatori scientifici), cioĂš a gusci concentrici. In questâottica, la sottile crosta â meno dellâ1% della massa planetaria totale â ha una duplice natura. Quella piĂč densa e sottile giace sotto gli oceani, variando il suo spessore dai 5 ai 15 chilometri, circa, ed Ăš costituita da composti del silicio a base di ferro e magnesio. Quella dei continenti, invece, Ăš dominata da silicati di calcio, alluminio, sodio e potassio, ed essendo piĂč spessa e leggera puĂČ variare dai 50-70 km ai 100 sotto le grandi catene montuose come, per esempio, lâHimalaya. Sotto la crosta (a circa 8 km di profonditĂ negli oceani e 30 per i continenti), una variazione di direzione e velocitĂ delle onde sismiche svela la discontinuitĂ di Mohorovicic, anticamera del mantello. Questâultimo Ăš il guscio preponderante del pianeta, perchĂ© costituisce lâ83% del suo volume e il 67% della sua massa. La sua temperatura varia dai 200°C (al confine con la crosta) ai 4000°C (nelle sue zone piĂč interne), ed Ăš fatto di miscele di silicati a base di ferro e magnesio compressi da una pressione che ne porta la densitĂ fino a 3,3 gr/cm3. A 2900 chilometri di profonditĂ la discontinuitĂ di Gutemberg separa il mantello dal nucleo esterno, un anello di ferro e nichel allo stato fuso spesso 2200 chilometri la cui rotazione origina il campo magnetico terrestre. Infine, al centro del pianeta, sepolto ad oltre 5100 chilometri di profonditĂ , domina un nucleo interno solido dal diametro di circa 1250 chilometri (poco piĂč della lunghezza della nostra penisola). Anchâesso Ăš fatto di una lega ferro-nichel con una prevalenza di ferro, denso 12-13 gr/cm3 e caldo intorno ai 5-6000°C. Unâenorme palla di metallo rovente quanto la superficie solare, che da sola rappresenta un terzo della massa planetaria.
Fig. 1.1. A sinistra, lâimmagine del nostro pianeta cosĂŹ come si presenta ad occhio nudo. Sulla destra, la sua forma secondo lâ"occhio gravimetrico".
Tutto questo calore Ăš il lascito della creazione, ma anche il contributo del decadimento di una quantitĂ non ben precisata di elementi radioattivi finiti nellâimpasto primordiale.
A 6371 km di profonditĂ siamo al centro della Terra, il leggendario e oscuro regno al quale hanno avuto accesso solo scrittori e sognatori. GiĂ , perchĂ© allo stato attuale della nostra tecnologia ogni esplorazione reale ci Ăš assolutamente preclusa. Sembrerebbe inverosimile che ci sia vietato coprire una distanza che in aereo percorreremmo in poche ore. Eppure Ăš proprio cosĂŹ, poichĂ© dirigendosi sottoterra pressione e temperatura aumentano al punto da rendere la roccia una muraglia impenetrabile per ogni mezzo (almeno per lâattuale tecnologia). Pertanto, tutto ciĂČ che sappiamo sullâinterno del nostro pianeta lo abbiamo ricavato in modo indiretto, studiando il comportamento delle onde sismiche generate sia da terremoti naturali sia da quelli indotti, che si propagano da un lato allâaltro del globo. Queste perturbazioni, infatti, si muovono con diverse velocitĂ e modalitĂ a seconda del mezzo che attraversano, fornendo preziose informazioni sulla sua natura.
Fig. 1.2. La struttura della Terra, sia dal punto di vista chimico (a sinistra) sia meccanico (sopra). Gli strati di cui Ăš composta sono separati da transizioni chiamate "discontinuitĂ ", svelate dal cambiamento di velocitĂ e direzione delle onde sismiche.
2
Come su un tapis-roulant
Un efficiente gioco a incastri
Abbiamo chiamato i primi 100-200 chilometri di spessore del pianeta litosfera, un guscio che abbraccia la crosta piĂč una piccola fetta di mantello. Ma non si tratta di un blocco unico bensĂŹ di un bricolage di placche o zolle in continuo moto reciproco, generato dalle correnti calde che risalgono da uno strato plastico e duttile sul quale poggiano, chiamato astenosfera. Lentamente ma inesorabilmente, le zolle si aprono e poi collidono in vari modi, deformandosi, accavallandosi e fagocitandosi.
Il funzionamento della dinamica litosferica, detto tettonica delle placche o zolle, si deve allâintuizione del geologo tedesco Alfred Wegener allâinizio del secolo scorso. Le similitudini tra rocce, strutture e fossili osservati in Africa e nel Sudamerica lo portarono a concepire lâidea di un super-continente inizialmente integro, poi fratturatosi in parti piĂč piccole andate alla deriva.
Nel tempo, altre scoperte gli diedero ragione e oggi siamo in possesso di un modello che spiega in modo soddisfacente gran parte dei processi geologici endogeni e, soprattutto, come e perchĂ© avviene lâattivitĂ sismica e vulcanica che si osserva in superficie.
Le placche si muovono a una velocitĂ di qualche centimetro lâanno, variabile da luogo a luogo. Nel quotidiano Ăš pochissimo, certo, ma nei milioni di anni si creano o chiudono mari e oceani e sâinnalzano montagne, coi cambiamenti ambientali e climatici che ne conseguono.
La natura delle zolle condiziona il modo in cui interagiscono e, di conseguenza, il tipo di attivitĂ geologica che si manifesta. Due zolle continentali che sâincontrano, per esempio, di norma si deformano piegandosi ed accartocciandosi fino a innalzarsi come catene montuose. Ă il caso delle nostre Alpi, frutto della collisione del continente africano contro quello euroasiatico; oppure dellâHimalaya, conseguenza della migrazione del corno indiano, un tempo allâaltezza del Madagascar e successivamente scontratosi col continente euroasiatico.
Se a fronteggiarsi sono due zolle oceaniche o una zolla oceanica e una continentale, invece, avviene il fenomeno della subduzione, cioĂš dellâinabissamento della placca piĂč densa e sottile (che Ăš quella oceanica o, comunque, la piĂč esile se sono della stessa natura) al di sotto dellâantagonista. In queste circostanze, oltre allâattivitĂ sismica si crea anche quella vulcanica, dovuta alla fusione parziale del lembo roccioso che sprofonda nel mantello e alla sua successiva risalita sotto forma di magma (vedi mio libro precedente Vulcani, cosĂŹ il pianeta cambia pelle, Hoepli 2019). Ă il caso della Cordigliera delle Ande, in Sudamerica, della Catena delle Cascate del Nordamerica, delle Filippine, dellâIndonesia, del Giappone e di tante altre zone bordate o interamente formate da allineamenti di vulcani.
Naturalmente questo schema deve essere inteso come modello teorico generale, perchĂ© nella realtĂ le cose sono piĂč complesse e ibride. Per esempio, se due placche continentali sono in direzione di collisione, puĂČ accadere che una porzione della crosta oceanica che rimane in mezzo si infletta e sprofondi nel mantello, mentre il resto puĂČ venire scollato e innalzato sulla cima delle future montagne, cosĂŹ come âsottoâ, in fusione, possono finire anche lembi di crosta continentale.
Fig. 2.1. La superficie della Terra, per i primi 100-200 km, Ăš frammentata in placche o zolle i cui movimenti reciproci danno origine allâattivitĂ sismica e vulcanica che osserviamo. In alto, una raffigurazione della loro dinamica: lungo i margini divergenti (la cui evoluzione sono le dorsali) si forma nuova crosta che si consuma nei margini compressivi dove si formano sistemi di fosse e vulcani o montagne.
Infine, ci sono placche che si lambiscono soltanto, strofinandosi con un movimento che chiamiamo trascorrente. Lâesempio piĂč eclatante sono quella nordamericana e pacifica nel tratto della celebre faglia di SantâAndrea, dove scorrono lâuna accanto allâaltra alla velocitĂ di circa 5 cm lâanno.
CosĂŹ si spacca la superficie terrestre
Il continuo movimento delle placche e la loro reciproca interazione le sottopongono a giganteschi sforzi. Tuttavia, essendo a piccola scala eterogenee, quindi con caratteristiche fisico-chimiche di varia natura, rispondono alle tensioni in modo diverso. Se queste ultime avvengono in modo graduale e le rocce sono sufficientemente plastiche, allora possono semplicemente deformarsi formando pieghe di varie fogge, dimensioni ed estensione.
Al contrario, se la risposta della roccia Ăš piĂč rigida allora lâenergia non viene dissipata ma accumulata fino a quando non viene superato il limite di rottura. A quel punto si formano fratture (diaclasi) che, quando dislocano due blocchi, si chiamano faglie.
Fig. 2.2. Quando la roccia Ăš s...