Carthago
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Carthago

Annibale contro Scipione l'Africano

Franco Forte

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Annibale contro Scipione l'Africano

Franco Forte

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Nel 218 a.C. Cartagine non Ăš piĂč la potenza che ha regnato incontrastata per cinquecento anni sul Mediterraneo: la disfatta patita nella Prima guerra punica ha fatto di Roma la nuova signora dei mari e delle terre conosciute fino a Oriente. L'orgoglio dei cartaginesi, perĂČ, reclama vendetta. Il giovane Annibale, cresciuto nell'odio per i romani, decide di sfidare apertamente l'Urbe e attacca la cittĂ  di Sagunto, violando la tregua. Dopo avere approntato un esercito formidabile, che si avvale del supporto degli elefanti, parte per una marcia impossibile che lo porterĂ  a varcare i Pirenei e le Alpi, per scendere nella Gallia Cisalpina e affrontare Roma sul suo territorio. Il piano di Annibale appare folle e senza speranza. Solo un uomo fra i romani sa di trovarsi di fronte al piĂč temibile avversario che la Repubblica abbia mai conosciuto: Ăš Publio Cornelio Scipione, figlio del console Scipione, affascinato dall'abilitĂ  e dall'intelligenza dimostrate da Annibale. Quando gli eserciti di Cartagine e di Roma si affrontano nella battaglia del Ticino, il giovane condottiero romano capisce che per poterlo sconfiggere occorre studiare tutto di lui e della sua tattica di guerra.
Inizia cosĂŹ un confronto a distanza destinato a durare quindici anni, fino alla resa dei conti a Zama, sulle coste dell'Africa, quando Annibale e Scipione si sfidano in campo aperto, decisi a dimostrare il loro valore in uno scontro che segnerĂ  il destino dei loro popoli. Annibale ha dalla sua la forza, il coraggio e l'intelligenza che gli hanno sempre consentito di prevalere sulle legioni romane; Scipione puĂČ contare sulla determinazione che non l'ha mai fatto arretrare davanti al pericolo cartaginese, e soprattutto su un'intelligenza tattica fuori del comune.
Franco Forte si addentra in questa logorante guerra per il dominio sul Mediterraneo per ritrarre con occhio lucido e stile deciso gli opposti demoni che agitano i due eterni rivali, le loro aspirazioni, i desideri e le passioni, spingendoci a parteggiare di volta in volta per l'uno o per l'altro. Mentre sopra tutto e tutti campeggia Roma, capace, dopo ogni sconfitta, di risorgere dalle proprie ceneri.

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Informations

Éditeur
Mondadori
Année
2010
ISBN
9788852014666

CAPITOLO OTTAVO

218 a.C.
Victumulae (Gallia Cisalpina)

1

Faceva freddo, anche se il sole splendeva alto nel cielo. Due giorni prima l’esercito cartaginese aveva guadato il fiume Sesites, sfruttando un punto accessibile che era stato indicato da alcuni Insubri arrivati a dare sostegno alle truppe di Annibale, stremate.
Una volta sfociati nelle pianure pedemontane che avrebbero consentito loro di accamparsi per recuperare un po’ di forze e fare scorta di viveri e altri beni di necessità che cominciavano a scarseggiare, le avanguardie di Annibale avevano riferito che una popolazione locale ostile agli Insubri, i Taurini, stava procurando parecchi problemi alle squadre di approvvigionamento.
«Sono alleati di Roma?» aveva chiesto Annibale ai rappresentanti dei Boi e degli Insubri che erano arrivati ad accoglierlo ai piedi delle Alpi.
«No, mio signore» aveva risposto uno degli Insubri. «È gente che combatte solo per se stessa, e non sa che cosa significhi allearsi con qualcun altro.»
«Ho bisogno di far riposare i miei uomini» era stata la reazione spazientita di Annibale. «Non posso perdere tempo con queste scaramucce.»
«Lascia che me ne occupi io» si era fatto avanti Magone, con uno dei suoi soliti slanci emotivi, ma Annibale l’aveva fermato alzando appena una mano.
Poi, il comandante cartaginese si era rivolto ancora al rappresentante degli Insubri.
«Il tuo popolo sarà con noi?» gli aveva chiesto.
«SĂŹ, mio signore» era stata la risposta dell’uomo, senza alcuna esitazione.
«E voi?» aveva chiesto Annibale rivolto al rappresentante dei Boi, che fino a quel momento era rimasto in disparte in silenzio.
«Noi siamo pronti a combattere i romani» aveva risposto il gallico, «ma non ci interessa incrociare le spade con i Taurini.»
«Perché avete lo stesso sangue» aveva ringhiato il portavoce degli Insubri.
Il rappresentante dei Boi aveva reagito con rabbia a quell’accusa, sfoderando la spada e preparandosi ad attaccare, pur trovandosi al cospetto dei generali cartaginesi, ma Maarbale era intervenuto con tempismo, bloccandolo e disarmandolo.
Infuriato, Annibale li aveva guardati entrambi, sovrastandoli con la sua mole imponente.
«Non mi interessano i vostri battibecchi e le vostre dispute personali» aveva ringhiato. «I miei alleati combattono per me, non fra di loro. E se c’ù da riportare alla ragione qualcuno che non accetta la nostra presenza sul suo territorio, allora esigo che lo si faccia tutti insieme.»
Per un momento nella tenda in cui si erano riuniti era calato un pesante silenzio, poi i due rappresentanti gallici avevano sbuffato, si erano guardati in cagnesco, ma alla fine avevano annuito in direzione di Annibale, dando a intendere che riconoscevano la sua autoritĂ .
«Maarbale» aveva chiamato Annibale. «Prendi con te duecento cavalieri e un rinforzo di cinquanta uomini per ciascuno dei nostri alleati e sistema questa faccenda. Dobbiamo pensare a Roma, non alle pretese territoriali dei Taurini.»
Maarbale aveva assentito con un cenno del capo ed era corso fuori della tenda, dopo avere fatto un segno d’intesa ai guerrieri celti, che non avevano esitato a seguirlo.
«PerchĂ© non hai affidato a me l’incarico?» aveva chiesto Magone quando lui e Annibale erano rimasti soli.
Annibale l’aveva osservato per un po’, poi gli aveva sorriso.
«VerrĂ  anche per te il momento di dimostrare il tuo valore e di procurarti un po’ di gloria» gli aveva risposto alla fine. «Ma non adesso. Lascia che sia Maarbale a sbrigare questa incombenza di poco conto. Tu preoccupati di seguire le operazioni di rifornimento.»
Magone aveva aperto la bocca per ribattere, poi aveva intercettato lo sguardo duro di Annibale e aveva capito che non sarebbe servito a nulla cercare di contrastare le decisioni del fratello.
«Va bene» aveva risposto contrariato. «Ma tu prova ad avere un po’ piĂč di fiducia in me. Ormai non sono piĂč un ragazzino.» Detto questo, era scivolato fuori della tenda, e Annibale aveva scosso la testa divertito.
Adesso, mentre il sole brillava alto nel cielo e il fiato si condensava davanti alle sue labbra quando espirava, si disse che forse era davvero arrivato il momento di affidare a Magone un incarico di responsabilitĂ .
Quando lo vide arrivare, scortato dagli uomini dello Squadrone Sacro che aveva mandato a cercarlo, ebbe la certezza che il piĂč giovane dei Barca fosse ormai pronto ad affrontare le sfide che quell’avventura contro Roma avrebbe proposto loro praticamente ogni giorno.
«Com’ù andata la spedizione contro i Taurini?» gli chiese Magone quando gli fu accanto.
«Ottimamente, direi» rispose Annibale, divertito per il fatto che il fratello fosse ancora irritato con lui per quell’episodio. «Maarbale Ăš stato furbo, e ha lasciato che fossero i nostri alleati gallici a scontrarsi con i Taurini. Ha tenuto le nostre truppe di rincalzo, per finire i fuggitivi e proteggere le ali dello schieramento, il che Ăš servito a preservare i nostri uomini. Adesso la situazione Ăš sotto controllo, e possiamo sfruttare i villaggi dei Taurini per rastrellare cibo e tutto quello che ci serve.»
«Magnifico» grugnÏ Magone. «In effetti era un incarico perfetto per il prode Maarbale.»
«Tu invece?» gli chiese Annibale. «Sei riuscito a rimettere ordine nei reparti? Sappiamo su quanti uomini, cavalli ed elefanti possiamo contare?»
Magone lo guardĂČ con un cenno di esitazione. «Abbiamo avuto grosse perdite» si decise a rivelare alla fine. «Forse piĂč di quelle che avevamo previsto.»
«Spiegati» ordinĂČ Annibale, lasciando che una ruga gli tagliasse in due la fronte. Se era vero che Boi e Insubri avrebbero potuto ingrossare le fila dell’esercito, era soprattutto sui suoi veterani che Annibale contava per sbaragliare le legioni romane. Non poteva fidarsi dei gallici, che giĂ  fin troppe volte avevano dimostrato di seguire una sola bandiera e una sola causa, ovvero quella del loro tornaconto personale.
«Ci sono rimasti solo ventun elefanti» rispose Magone. «I cavalieri numidi invece sono circa seimila; avrĂČ dei conteggi piĂč accurati per questa sera.»
«E il resto degli uomini?»
«Tutti i comandanti hanno effettuato le verifiche. Ci sono state diverse diserzioni, soprattutto fra i libici, ma dovremmo poter contare su circa trentamila uomini. Forse qualcosa di meno.»
Annibale strinse le mascelle. Erano partiti da Sagunto con un esercito di oltre quarantamila fra uomini, cavalieri ed elefanti, e ora si trovava con quasi quattromila unitĂ  in meno. C’erano state molte piĂč perdite del previsto, ma si augurava di poter irrobustire le fila dell’esercito grazie ai rincalzi celtici, che fra le forze appiedate avrebbero potuto dimostrarsi di un certo peso. Lo preoccupava un po’ il fatto di poter contare solo su ventun elefanti, perchĂ© considerava la forza d’urto di quegli animali un fattore indispensabile per le strategie d’attacco del suo esercito.
«Completate i conteggi, poi riferitemi» disse al fratello, senza esternare le sue preoccupazioni.
«Bene» annuÏ Magone, facendo per voltarsi e allontanarsi.
«Aspetta» lo fermĂČ Annibale. «Ho un altro incarico da affidarti.»
Magone lo guardĂČ con sospetto. «Di che si tratta?»
«Ho bisogno che guidi un’avanguardia di cavalieri in avanscoperta» gli rivelĂČ Annibale. «Devi verificare dove sono le legioni romane e darmi una stima delle forze che ci troveremo contro quando arriverĂ  il momento della battaglia.»
Magone si illuminĂČ. «Vuoi mandare me?» chiese, sorpreso ma giĂ  eccitato all’idea dell’importante missione che gli veniva affidata.
«Di chi altri potrei fidarmi per un compito cosÏ delicato?» rispose Annibale sorridendo.
Magone raddrizzĂČ la schiena con orgoglio, poi disse: «Non ti deluderĂČ. Quando vuoi che parta?».
«Prima finisci i conteggi sulle nostre truppe, poi prepara gli uomini che ti sembrano piĂč adatti per la spedizione. Se tutto procede senza incidenti, potreste partire questa notte, approfittando del buio per spingervi piĂč avanti possibile.»
Magone annuĂŹ, trattenendo a fatica l’esultanza. «SarĂ  fatto» disse.
«Mi raccomando» lo trattenne ancora per qualche secondo Annibale. «Fai attenzione. Non devi mai fidarti dei romani.»
Magone lo guardĂČ per un istante, poi lo abbracciĂČ e lo strinse con forza. Quando si districĂČ e corse via, Annibale si rese conto di essere molto legato a suo fratello. E anche se ormai era diventato un guerriero e un comandante a tutti gli effetti, non voleva pensare all’eventualitĂ  che potesse accadergli qualcosa.

2

«Presto, maledizione, la spada! Portami la spada!»
Publio non riusciva a tenere a freno l’eccitazione, e la rabbia che gli stava montando dentro non era rivolta tanto a Versilio, che cercava di aiutarlo a prepararsi il piĂč in fretta possibile, quanto a se stesso, per essersi fatto cogliere impreparato proprio nel momento in cui finalmente arrivava l’ordine di muoversi.
Quella notte si era intrattenuto con una ragazza poco piĂč giovane di lui, che apparteneva al gruppo di prostitute che si era unito alle legioni fin dalla partenza da Pisae. Era etrusca, e i tratti delicati del viso, gli occhi chiari e i fluenti capelli castani l’avevano stregato fin da quando l’aveva vista. Era rimasto sorpreso che una ragazza cosĂŹ giovane esercitasse giĂ  la professione, ma gli era stato riferito da alcuni veterani che si trattava della figlia di un’altra prostituta, abituata a viaggiare con i soldati e probabilmente iniziata a quel lavoro giĂ  dalla comparsa delle prime mestruazioni. Non era raro imbattersi in quelle ragazzine procaci, anche se ai legionari piĂč anziani e ai veterani di solito piaceva intrattenersi con le donne piĂč esperte, che riuscivano a soddisfare anche due o tre di loro alla volta.
Quando Publio aveva conosciuto la ragazzina etrusca dagli occhi verdi, non aveva avuto difficoltĂ  a pretenderla per sĂ© e a portarsela nella tenda che divideva con Versilio. Un’abitudine a cui ormai soggiaceva sempre piĂč spesso, come divorato da una febbre che si esprimeva nel desiderio per il corpo acerbo ma incredibilmente sensuale della ragazzina.
Versilio non aveva mai fatto commenti in proposito, limitandosi ad accucciarsi sul suo giaciglio nell’angolo piĂč in ombra della tenda, dove Publio gli aveva ordinato di restarsene rintanato, non senza aver prima ravvivato il fuoco nei bracieri e preparato una tunica pulita per il suo padrone, da indossare dopo che avesse finito di rotolarsi con la prostituta etrusca sullo strato di pelli d’orso che si era fatto preparare per l’occasione.
Ma quella notte lui e la ragazzina avevano esagerato. Lei, infatti, aveva deciso di fargli una sorpresa e si era presentata insieme a un’amica, una fanciulla dai capelli neri come la notte e con uno strano taglio degli occhi, che aveva dichiarato di avere la stessa etĂ  di Publio. In realtĂ , lui aveva immaginato subito che dovesse avere almeno due o tre anni in piĂč, ma non aveva protestato quando aveva compreso quello che la ragazzina etrusca aveva preparato per lui.
Lei cercava sempre di sorprenderlo e di introdurlo a nuovi giochi erotici, e anche se Publio sapeva perfettamente che lo faceva solo per le monete che lui le metteva fra le mani ogni mattina, quando lei scivolava fuori dalla tenda, continuava a illudersi che ci tenesse davvero a lui, e che si divertisse a mostrargli tutte le capacitĂ  amatorie apprese dalla madre.
Quando le due ragazze, dopo avergli imposto di restarsene seduto a guardare, avevano cominciato a baciarsi e a spogliarsi a vicenda, Publio si era sentito cogliere da una vertigine, e aveva capito senza ombra di dubbio che prediligeva i corpi femminili e che non avrebbe mai potuto indulgere nella debolezza greca che spingeva molti soldati a giacere con altri uomini.
A lui piacevano le donne, proprio come quelle due ragazzine che ridevano e lo guardavano passandosi la lingua sulle labbra, mentre si rotolavano l’una sull’altra completamente nude, esponendo al suo sguardo e al suo desiderio le parti piĂč intime del loro corpo.
Quella notte, quando finalmente le ragazze gli avevano concesso di unirsi a loro, Publio aveva dato tutto se stesso, fino a crollare fra le pelli d’orso, stremato ma soddisfatto come mai in vita sua. Al punto che la mattina dopo non era riuscito a svegliarsi in tempo, e solo l’insistenza di Versilio, che gli aveva strappato via di dosso i corpi caldi delle due prostitute e l’aveva scosso fino a costringerlo a tirarsi in piedi, aveva evitato che Publio arrivasse in ritardo all’adunata che gli squilli di tromba avevano annunciato.
Con la testa che gli doleva e il corpo indolenzito come se avesse combattuto con un gladiatore in un’arena, Publio aveva pagato generosamente le ragazze, poi le aveva fatte uscire per concentrarsi sull’elaborata vestizione imposta dal suo rango.
Adesso, finalmente, era tutto pronto, e mentre il trambusto dei cavalli lanciati al galoppo ...

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