Factfulness
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Factfulness

Dieci ragioni per cui non capiamo il mondo. E perché le cose vanno meglio di come pensiamo.

Hans Rosling

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Dieci ragioni per cui non capiamo il mondo. E perché le cose vanno meglio di come pensiamo.

Hans Rosling

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Quali strumenti possiamo lasciare ai nostri figli per interpretare il mondo in perenne mutamento in cui viviamo? Come possiamo far fronte alla valanga quotidiana di notizie deprimenti che ci arriva dai media, dai social e dalla politica? Perché prestiamo più attenzione alle notizie negative, quelle che ci danno l'impressione che tutto stia lentamente, ma inesorabilmente, andando a rotoli? Di quali irragionevoli pregiudizi è vittima il nostro pensiero? Attraverso un attento studio dei dati, Hans Rosling, il "maestro Jedi dei dati", dimostra che le cose non stanno andando così male e che, anzi, siamo di fronte a un radicale miglioramento. Per capirlo dobbiamo però imparare a guardare ai fatti con curiosità, a metterli in prospettiva e a saperci stupire: basta pensare alla vita dei nostri nonni per accorgerci degli enormi passi avanti che stiamo facendo, in ogni campo. Per esempio, non ha più senso parlare di "mondo occidentale" e "mondo in via di sviluppo", aumentando il baratro tra noi e il resto del pianeta, quando ormai quasi tutti i Paesi stanno raggiungendo lo stesso livello in termini di istruzione, di opportunità e di crescita. Abbiamo tutti la possibilità di usare la forza dei fatti a nostro vantaggio, per capire e non lasciarci accecare dalla rabbia, dall'ignoranza, dalle semplificazioni. Grazie anche a storie ed esempi di una chiarezza disarmante, Rosling ci sprona a essere curiosi, ma non si limita a fare domande, ci risponde avvalendosi della verità dei fatti.

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Informations

Éditeur
RIZZOLI
Année
2018
ISBN
9788858692905

1

L’istinto del divario

Catturare un mostro in un’aula usando solo un foglio di carta.
Immagine 1 L’istinto del divario

Dove è iniziato tutto

Era l’ottobre del 1995 e non immaginavo che, dopo la lezione di quella sera, avrei cominciato la mia eterna battaglia contro le idee sbagliate.
«Qual è il tasso di mortalità infantile1 in Arabia Saudita? Non alzate la mano. Urlatelo e basta.» Avevo distribuito le copie delle tabelle 1 e 5 dell’annuario Unicef. Gli opuscoli avevano un’aria noiosa, ma ero emozionato.
«TRENTACINQUE» gridarono all’unisono.
«Sì. Trentacinque. Esatto. Significa che, su mille bambini nati vivi, trentacinque muoiono prima di compiere 5 anni. Ora ditemi la cifra della Malaysia.»
«QUATTORDICI» rispose il coro.
Man mano che snocciolavano i numeri, li scarabocchiavo con un pennarello verde sulla pellicola di plastica del proiettore.
«Quattordici» ripetei. «Meno dell’Arabia Saudita!»
La dislessia mi giocò un brutto scherzo e scrissi «Malaisya». Gli studenti risero.
«Brasile?»
«CINQUANTACINQUE
«Tanzania?»
«CENTOSETTANTUNO
Posai il pennarello. «Sapete perché ho una fissazione per i dati sulla mortalità infantile? Non è solo perché mi stanno a cuore i bambini. Questa rilevazione misura la temperatura di un’intera società. Come un enorme termometro. Perché i bambini sono molto fragili. Ci sono tantissime cose che possono ucciderli. Quando in Malaysia ne muoiono soltanto 14 su 1000, significa che gli altri 986 sopravvivono. I genitori e la società riescono a proteggerli dai pericoli che avrebbero potuto ucciderli: germi, fame, violenza eccetera. Pertanto questo 14 ci dice che quasi tutte le famiglie malaysiane hanno cibo a sufficienza, che le fognature non contaminano l’acqua potabile, che esiste un buon accesso all’assistenza sanitaria di base e che le madri sanno leggere e scrivere. Non si riferisce solo alla salute dei bambini. Misura la qualità dell’intera società.
«A essere interessanti non sono tanto le cifre quanto ciò che rivelano sulla vita» continuai. «Guardate come sono diversi questi dati: 14, 35, 55 e 171. La vita in questi Paesi deve essere molto diversa.»
Presi il pennarello. «Ora ditemi com’era la vita in Arabia Saudita trentacinque anni fa. Quanti bambini sono morti nel 1960? Date un’occhiata alla seconda colonna.»
«DUECENTO… quarantadue.»
Il volume delle voci scese quando pronunciarono quel numero vertiginoso.
«Sì. Esatto. La società dell’Arabia Saudita ha fatto progressi straordinari, no? Il numero di morti infantili è sceso da 242 a 35 su 1000 in soli trentatré anni. Molto più rapido della Svezia. Noi abbiamo impiegato settantasette anni per ottenere lo stesso miglioramento.
«E la Malaysia? Oggi 14. Ma nel 1960?»
«Novantatré» borbottarono. Avevano iniziato a esaminare le fotocopie, perplessi e confusi. Durante il corso dell’anno precedente avevo distribuito gli stessi esempi, ma senza tabelle, e la classe si era rifiutata di credere alle mie affermazioni sui miglioramenti osservati nel mondo. Ora, con le prove lì davanti, gli studenti del 1995 facevano scorrere gli occhi su e giù lungo le colonne per vedere se avessi scelto Paesi eccezionali e tentato di imbrogliarli. Il quadro che emergeva dai dati li lasciò esterrefatti. Non combaciava affatto con l’immagine del mondo che avevano in mente.
«Per vostra informazione,» dissi «non troverete Paesi dove la mortalità infantile sia aumentata. Perché il mondo in generale sta migliorando. Facciamo una breve pausa.»

Il megaequivoco che «il mondo è diviso in due»

Questo capitolo è dedicato al primo dei dieci istinti drammatici, l’istinto del divario. Mi riferisco alla tentazione irresistibile di dividere ogni genere di cose in due gruppi distinti e spesso contrastanti, con un fantomatico divario – un enorme abisso di ingiustizia – nel mezzo. Queste pagine spiegano come tale istinto crei, nella mente delle persone, l’immagine di un mondo spaccato in due tipi di Paesi o di persone: ricchi contro poveri.
Non è facile stanare un’idea sbagliata. Quella sera fu la prima volta che guardai la bestia dritta in faccia. Successe subito dopo la pausa, e fu un’esperienza così emozionante che da allora non ho smesso di dare la caccia ai megaequivoci.
Li chiamo così perché hanno un fortissimo impatto sulla percezione errata del mondo da parte delle persone. Il primo è il peggiore. Dividendo il mondo in due caselle fuorvianti – poveri e ricchi –, distorce completamente le proporzioni globali nella mente del pubblico.

Snidare il primo megaequivoco

Ricominciando la lezione, spiegai che la mortalità infantile raggiungeva il picco nelle società tribali della foresta pluviale e tra gli agricoltori tradizionali nelle aree rurali remote di tutto il mondo. «Le persone che vedete alla tv, nei documentari ambientati in Paesi esotici. Quei genitori faticano più di chiunque altro per garantire la sopravvivenza della famiglia, eppure perdono quasi metà dei figli. Per fortuna, il numero di coloro che sono costretti a vivere in condizioni così terribili si riduce sempre di più.»
Uno studente in prima fila alzò la mano, inclinò la testa e disse: «Loro non potranno mai vivere come noi». Gli altri annuirono.
Probabilmente credeva che sarei rimasto stupito. Invece non lo ero affatto. Avevo già sentito molte volte «divari» di quel genere. Più che sorpreso, ero entusiasta. Era proprio ciò che avevo sperato. Il nostro dialogo si svolse più o meno così.
Io: Scusa, a chi alludi quando dici «loro»?
Lui: Agli abitanti degli altri Paesi.
Io: Di tutti i Paesi diversi dalla Svezia?
Lui: No. Insomma… i Paesi non occidentali. Non possono vivere come noi. Non funzionerà.
Io: A-ah! (Come se avessi capito.) Il Giappone, per esempio?
Lui: No, il Giappone no. Ha uno stile di vita occidentale.
Io: Cosa mi dici della Malaysia? Non ha uno «stile di vita occidentale», giusto?
Lui: No, la Malaysia non è occidentale. Tutti i Paesi che non hanno ancora adottato lo stile di vita occidentale. Non dovrebbero farlo. Capisce cosa intendo.
Io: No, non capisco. Per favore, spiegati meglio. Ti riferisci all’«Occidente» e al «resto del mondo», no?
Lui: Sì, esatto.
Io: Il Messico è… «Occidente»?
Si limitò a guardarmi.
Non volevo infierire, ma insistetti, curioso di vedere come sarebbe andata a finire. Il Messico era «Occidente», e i messicani potevano vivere come noi? Oppure erano «il resto del mondo», e non potevano? «Sono confuso» ammisi. «Hai iniziato con “loro e noi” e poi sei passato all’“Occidente e il resto del mondo”. Mi interessa molto la tua teoria. Ho sentito spesso usare queste etichette, ma sinceramente non le ho mai capite.»
Venne in suo aiuto una ragazza in terza fila. Raccolse la mia provocazione, ma in un modo che mi lasciò di stucco. Indicò il grande foglio davanti a sé e disse: «Forse possiamo parafrasare così: “In Occidente” facciamo pochi figli e muoiono pochi bambini, mentre “nel resto del mondo” fanno molti figli e muoiono molti bambini». Stava tentando – in maniera molto creativa, dovetti riconoscerlo – di risolvere il conflitto tra la mentalità del suo compagno e i miei dati proponendo un criterio in base al quale dividere il mondo. Ero al settimo cielo, perché aveva commesso un errore madornale – come si sarebbe resa conto di lì a poco – e, soprattutto, così concreto da poter essere testato.
«Bene, anzi benissimo.» Presi il pennarello ed entrai in azione. «Vediamo se riusciamo a suddividere i Paesi in due gruppi a seconda di quanti figli fanno e di quanti bambini muoiono.»
Lo scetticismo cedette il passo alla curiosità mentre gli studenti tentavano di capire cosa diavolo mi avesse reso così euforico.
Il criterio suggerito dalla ragazza mi piaceva perché era chiaro come il sole. Potevamo verificarlo esaminando le cifre. Se vuoi dimostrare a qualcuno che è vittima di un equivoco, è molto utile essere in grado di confrontare la sua opinione con i dati. Perciò lo feci.
E lo faccio da allora. La grande fotocopiatrice grigia che avevo usato per riprodurre le tabelle originali fu la mia prima alleata nella lotta contro le concezioni erronee. Nel 1998 potevo ormai fare affidamento su una stampante a colori che mi permise di distribuire agli studenti un variopinto grafico a bolle. Poi trovai i miei primi alleati umani e le cose migliorarono nettamente. Anna e Ola furono così entusiasti dei diagrammi e del proposito di catturare le idee sbagliate, che sposarono la mia causa e, senza volerlo, inventarono un metodo rivoluzionario per tradurre centinaia di tendenze dei dati in grafici a bolle animati. Questi diagrammi diventarono la nostra arma preferita nella battaglia per sradicare la tesi errata secondo cui «il mondo è diviso in due».

Cosa c’è che non va in questa visione?

I miei studenti parlavano di «loro» e «noi». Altri usano i termini «mondo in via di sviluppo» e «mondo sviluppato». Probabilmente anche voi utilizzate queste etichette. Cosa c’è di male? Giornalisti, politici, attivisti, insegnanti e ricercatori le usano continuamente.
Quando le persone dicono «in via di sviluppo» e «sviluppato», con molta probabilità pensano «Paesi poveri» e «Paesi ricchi». Spesso sento anche «Occidente/resto del mondo», «Nord/Sud» e «basso reddito/alto reddito». Fa lo stesso. Non importa quali termini si usino per descrivere il mondo, purché le parole generino immagini mentali pertinenti e designino qualcosa con un fondamento nella realtà. Ma quali immagini hanno in testa le persone quando usano questi due semplici termini? E fino a che punto tali immagini reggono il confronto con la realtà?
Esaminiamo i dati. Il grafico alla pagina seguente indica il numero di neonati per donna e il tasso di sopravvivenza infantile per tutti i Paesi.2
Ciascuna bolla rappresenta un Paese, e le sue dimensioni rispecchiano quelle della relativa popolazione. Le bolle più grandi sono l’India e la Cina. Sulla sinistra ci sono i Paesi in cui le donne fanno molti figli, e sulla destra quelli in cui ne fanno pochi. Più alta è la posizione che un Paese occupa nel grafico, migliore è il tasso di sopravvivenza infantile entro i suoi confini. Questo diagramma schematizza proprio il criterio che la mia studentessa propose per definire i due gruppi: «noi e loro» o «l’Occidente e il resto del mondo». Qui li ho denominati Paesi «sviluppati e in via di sviluppo».
Immagine 2 L’istinto del divario
Notate come i Paesi del mondo si distribuiscano chiaramente nelle due caselle: sviluppati e in via di sviluppo. Nel mezzo c’è un netto divario: quindici piccoli Paesi (tra cui Cuba, Irlanda e Singapore) dove vive soltanto il 2 per cento della popolazione mondiale. Nel riquadro «in via di sviluppo» ci sono 125 bolle, comprese Cina e India. In questi Paesi le donne fanno, in media, più di cinque figli, e le morti infantili sono diffuse: meno del 95 per cento dei bambini sopravvive, cioè più del 5 per cento muore prima di compiere 5 anni. Nella categoria «sviluppati» ci sono 44 bolle, inclusi gli Stati Uniti e quasi tutta l’Europa. In questi Paesi le donne fanno meno di 3,5 figli ciascuna e la sopravvivenza infantile supera il 90 per cento.
Il mondo entra in due caselle, proprio quelle immaginate dalla mia studentessa. Questa illustrazione mostra chiaramente un pianeta diviso in due gruppi, con un divario al centro. Che bello. Una situazione semplice da capire! Allora qual è il problema? Perché è così sbagliato etichettare i Paesi come «sviluppati» e «in via di sviluppo»? Perché strapazzai così tanto lo studente che parlava di «noi e loro»?
Perché questa immagine raffigura il mondo nel 1965! Quando ero ragazzo. È questo il problema. Usereste una carta stradale del 1965 per girare il vostro Paese? Sareste contenti se il vostro medico usasse ricerche all’avanguardia nel 1965 per farvi una diagnosi e prescrivervi una terapia? L’illustrazione qui sotto mostra il mondo attuale.
Immagine 3 L’istinto del divario
Il pianeta è cambiato completamente. Oggi le famiglie sono piccole e le morti infantili sono rare nella stragrande maggioranza dei Paesi, anche nei più vasti: la Cina e l’India. Guardate l’angolo in basso a sinistra. La casella è quasi vuota. Il riquadro piccolo, con pochi bambini e un alto tasso di sopravvivenza, è in quella direzione che sono orientati tutti i Paesi. La maggior parte ci è già arrivata. L’85 per cento dell’umanità è già nella casella che un tempo si chiamava «mondo sviluppato». Il restante 15 per ...

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