Le tesi sostenute a conclusione del capitolo precedente vengono ora tematizzate. In base ad esse quel che finora veniva considerato natura umana era il prodotto di circostanze inibitorie e deformanti; soltanto la societĂ senza classi porterĂ alla luce la vera natura dellâuomo e soltanto con il «regno della libertà » avrĂ inizio lâautentica storia umana. Non Ăš cosa da poco! Qualcosa di simile si era riscontrato finora soltanto nella fede religiosa: la trasformazione messianica dellâuomo, anzi della natura, con lâavvento del Messia o con la «seconda venuta» del Figlio di Dio, seconda creazione a compimento della prima, con la liberazione dal peccato; il «nuovo Adamo» sollevatosi dalla caduta del vecchio Adamo e immune da una ricaduta; lâimago Dei finalmente e definitivamente realizzata sulla terra nella sua presunta purezza. Anche in questa visione messianica non câera nullâaltro da dire a proposito del nuovo stato (se si prescinde dalle raffigurazioni poetiche di una pace universale presso i profeti ebraici). Unâescatologia secolarizzata del nuovo Adamo viene a sostituire al miracolo divino, che lĂ Ăš operato dalla transustanziazione, delle cause terrene, vale a dire le condizioni esterne della vita umana suscettibili di essere create grazie alla socializzazione della produzione. Determinare quelle condizioni Ăš appunto il compito della rivoluzione, alla quale tocca qui il ruolo dellâintervento divino, mentre tutto il resto continua a essere rimesso alla sua concreta attuazione. Senza lâintervento dello Spirito Santo, si compirĂ per mezzo suo il prodigio della Pentecoste. Tutto si concentra perciĂČ sulla rivoluzione, nelle sue tappe e quindi sul processo della sua realizzazione. In contrasto con le precedenti utopie, il marxismo si pronuncia sullâavvento e non sullâessere dellâutopia. Anche per lui lâessere non puĂČ essere determinato in anticipo come lo Ăš il Regno di Dio nellâescatologia religiosa, se non in senso negativo mediante lâaffermazione che, come lĂ il peccato, sparirĂ anche qui il male della societĂ classista. Sul contenuto positivo del nuovo stato nellâun caso come nellâaltro non viene delineato un quadro ideale1, come avveniva invece principalmente nelle utopie pre-marxiste, che dal canto loro lasciavano nellâoscuritĂ la modalitĂ dellâ«avvento». In effetti questa Ăš la novitĂ dellâutopismo marxista e uno dei tratti che lo contraddistinguono come escatologia secolarizzata, erede della religione. (Un altro tratto Ăš la dottrina della «colpa» o della radicale provvisorietĂ di tutta la storia precedente). Ma quale pretesa fideistica! La fede in Dio, quando esista, Ăš in grado di giustificare la certezza dellâattesa di una trasfigurazione futura dellâuomo ad opera di Dio, pur «senza poterla raffigurare», cioĂš senza averne una rappresentazione, accettando in vista di ciĂČ le «doglie della venuta del Messia» e i sussulti della fine di unâepoca. Su ciĂČ che Ăš completamente oscuro domina soltanto la fede e su di essa non si puĂČ discutere. Ma lĂ dove le «doglie» sono opera dellâuomo, cioĂš dove la rivoluzione mondiale e il suo esito, la societĂ senza classi, devono fare affidamento sulla ben nota materia del nostro mondo, allora la fede nella sua causalitĂ salvifica, che Ăš pensata in modo completamente terreno, dovrĂ sottoporsi a una verifica terrena. Per promettere quel che avverrà «dopo», non si puĂČ invocare lâ«invisibilità » del miracolo trascendente, tanto piĂș che dobbiamo essere noi a marcarne lâinizio. Ma la «visibilità » solleva anche la questione del prezzo, che nella visione messianica non si pone.
La fede, che nellâescatologia secolarizzata Ăš bisognosa e suscettibile di verifica, risulta piuttosto composita: Ăš fede nel «potere delle circostanze» in generale e nel presupposto che «lâuomo» ne sia il prodotto, e dunque nella possibilitĂ che possano esservi condizioni migliori e univoche, tali da risultare soltanto favorevoli; in secondo luogo fede nella prospettiva che lâuomo inserito in tali condizioni diventerĂ buono come esse lo sono, poichĂ© glielo consentiranno; e infine fede nel presupposto che questo uomo buono non Ăš mai esistito prima, poichĂ© non poteva esistere nelle condizioni finora dominanti, non avendo ancora fatto fino ad oggi la sua comparsa «lâuomo autentico». Questâultimo aspetto Ăš per noi il punto dolente, poichĂ© il pathos dellâutopia marxista non sta nellâintenzione di migliorare semplicemente le condizioni che lo richiedono, nella soppressione dellâingiustizia e del bisogno (a questo fine esistono molti programmi di riforma), ma nella promessa di una trasformazione dellâuomo diretta a elevarlo mediante condizioni prima sconosciute. Questo elemento influisce in misura determinante sui rischi che si devono correre in vista di una cosĂ esaltante prospettiva.
I.
I DANNATI DELLA TERRA E LA RIVOLUZIONE MONDIALE
Qui va osservato (e su questo ci soffermeremo ancora nellâesame del pensiero utopico) che non era necessaria nessuna «sublimazione» del fine rivoluzionario per mobilitare le masse alle quali era diretta inizialmente quellâesortazione: il proletariato industriale depauperato e condannato (stando alla teoria) a un ulteriore immiserimento in un capitalismo che si arricchisce sempre di piĂș sulle sue spalle. Ai «dannati della terra», i quali «non hanno nulla da perdere allâinfuori delle proprie catene», non occorreva il sogno dellâuomo nuovo o di qualche regno celeste sulla terra per risvegliare il desiderio di redenzione dalla loro intollerabile situazione mediante ridistribuzione e socializzazione â il che era possibile e perseguibile in forza della loro solidarietĂ . La redenzione come tale Ăš il sogno della sofferenza; ogni approssimativa equiparazione agli sfruttatori di un tempo, una modesta partecipazione al loro superfluo prodotto dagli sfruttati stessi poteva bastare a questi ultimi come la piĂș audace delle «utopie»: certo sufficiente per il tentativo della rivoluzione. Le loro condizioni non sarebbero potute peggiorare neppure in caso di fallimento, ma soltanto migliorare nellâeventualitĂ della vittoria â non importa ora se in modo definitivo e sotto tutti i profili. A questo potente motore del bisogno, allâanelito della sofferenza verso la redenzione, potevano far appello i pensatori della rivoluzione socialista, anche se il loro obiettivo andava ben al di lĂ di ciĂČ. Tale motivazione, si deve aggiungere, Ăš umanamente anche del tutto sufficiente per giustificare sul piano dellâetica e della prassi il ricorso alla violenza rivoluzionaria qualora non esista nessunâaltra via per soddisfare quella aspirazione.
1. Mutamento nella configurazione della «lotta di classe» in seguito alla nuova distribuzione planetaria della sofferenza.
Questo vale ancor oggi per i «dannati della terra». Tuttavia, in quanto fenomeno di gruppo e di massa, essi non vivono piĂș allâinterno dei paesi industriali avanzati (nellâOccidente capitalistico forse ancor meno che nellâ«Oriente» comunista), ma al suo esterno nei paesi sottosviluppati, ex coloniali, del cosiddetto «terzo mondo», dove a essere tali sono interi popoli depauperati e non classi oppresse di societĂ economicamente in ascesa2. Questo dato modifica la posizione di partenza e il significato della rivoluzione propagandata, che diventa qui «rivoluzione mondiale» in un senso completamente nuovo, concernente essenzialmente la politica estera.
a) Pacificazione del «proletariato industriale» occidentale.
Nei paesi progrediti e ricchi, che raccolgono i frutti dellâincremento della produzione tecnologica, la situazione del proletariato industriale abbandonato inerme alla mercĂ© dellâanarchia del mercato Ăš ormai da tempo, come ognuno sa, un ricordo del passato. LĂ dove potenti sindacati e «staff manageriale» vincolato da contratto siedono di fronte al tavolo delle trattative, non si puĂČ piĂș parlare di sfruttamento unilaterale, anche se la distribuzione finale dei benefici resta disuguale. Una lotta di potere regolata per statuto sulla base di un rapporto di forze approssimativamente equilibrato decide la partecipazione della quota salariale al reddito economico e quindi la definitiva distribuzione del prodotto sociale nel suo insieme. Se la trattativa fallisce, il ricorso, ancor sempre pacifico, allo sciopero âtiene in ostaggioâ non soltanto la controparte diretta, ma ampi settori dellâeconomia, e nei servizi vitali tutta quanta la pubblica utenza. Spesso «il capitale» deve cedere. Il vantaggio economico per la classe lavoratrice di questa evoluzione «riformistica», strappato alla controparte sociale in parte per merito dellâintelligenza (e anche della moralitĂ ) e in parte con la coercizione, e sancito politicamente nel diritto, Ăš ben noto: lo standard di vita dellâoperaio nellâodierno capitalismo occidentale, commisurato ai beni di consumo come anche alle condizioni e al tempo lavorativo, supera quello della maggior parte dei modesti cittadini e contadini dellâepoca anteriore al processo di proletarizzazione3; alle vittime degli spietati primordi del capitalismo le condizioni attuali sarebbero sembrate un paradiso. Ă anche da mettere in dubbio che si sarebbero aspettati di piĂș da una rivoluzione. Inoltre aspetti «socialisti» dellâassistenza pubblica, quali la previdenza sanitaria e pensionistica, hanno eliminato una buona parte dellâinsicurezza di vita delle epoche precedenti. Allâinterno di questo mondo Ăš scomparsa la miseria come destino di gruppo4. Questi frutti di un processo complessivamente pacifico hanno reso anche le classi operaie dellâ«Occidente», ora interessate alla stabilitĂ di un sistema nei cui meccanismi funzionali sono inseriti strumenti di pressione a loro favore, inadatte alla candidatura rivoluzionaria. In mancanza di una classe oppressa, la rivoluzione non puĂČ aver luogo. Gli autentici antesignani di questâultima, poco interessati al semplice «miglioramento» della situazione della loro classe di adozione, considerato anzi sospetto in quanto «corruzione», hanno perciĂČ sempre ritenuto, a ragione, il «revisionismo» (= riformismo) il loro piĂș acerrimo nemico. Tanto piĂș importante diventa, a dispetto della volontĂ della classe di adozione, lâ«utopia» autentica che Ăš diventata ora prerogativa di unâesigua Ă©lite di idealisti radicali provenienti dai ceti privilegiati, trovando paradossalmente, allâinterno della societĂ nel suo complesso, la piĂș scarsa risonanza proprio presso i presunti oggetti della loro missione. I suoi naturali alleati tattici si trovano oggi altrove, fra i «dannati della terra» di altre parti del mondo. Anche presso questi ultimi non Ăš lâaffrettata pacificazione mediante il miglioramento della loro situazione, ma la mobilitazione del loro intatto potenziale rivoluzionario a stare a cuore allâutopismo autentico, ormai senza radici nei suoi paesi dâorigine. Proprio la pacificazione, comunque ne si voglia valutare lâesito, della societĂ del benessere â che in un certo senso Ăš stata una vittoria pre-escatologica della causa utopica, in quanto non si sarebbe verificata senza la sua minaccia (nĂ© certo senza la forza di persuasione della sua retorica) â, sta a dimostrare che gli obiettivi non utopici, del tutto razionali, della concezione originaria sono raggiungibili anche mediante trasformazioni graduali, non rivoluzionarie del sistema dominante, orientate complessivamente in direzione del «socialismo»5. Sono state rilevate piĂș volte le convergenze strutturali fra un «capitalismo» riformato e i «comunismi» esistenti, sorti da rivoluzioni (ma pur sempre ancora «pre-utopici»). In ogni caso la crescente socializzazione nella forma del moderno Stato assistenziale sembra essere per ora lâorientamento generale delle societĂ occidentali, in precario equilibrio con i principĂź della libertĂ (e i bisogni dellâirragionevolezza). Tutto ciĂČ Ăš ben lontano dalla perfezione, ma questa Ăš peculiaritĂ esclusiva dellâutopia.
b) La lotta di classe come lotta delle nazioni.
Eppure i dannati della terra, necessari alla rivoluzione marxista come lâacqua per la ruota del mulino (o la miccia per lâesplosione) non mancano. Come si Ăš detto, si tratta delle masse popolari veramente depauperate dei continenti «sottosviluppati», nei quali, nonostante la presenza al loro interno di classi maggiormente oppresse, la povertĂ complessiva Ăš cosĂ grande ed endogena che persino spazzando via lâesiguo ceto dei parassiti locali non si modificherebbe di molto la situazione. Nel loro complesso essi sono la «classe oppressa» nella gerarchia globale del potere e della ricchezza e la loro «lotta di classe» va necessariamente combattuta sul piano internazionale. La loro forza propulsiva, messa in moto dal bisogno, potrebbe quindi essere mobilitata, al di lĂ della loro volontĂ immediata, per lâutopia a cui mira la rivoluzione mondiale. Anche qui scenderebbero in campo a loro favore tutti gli istinti filantropici ed egualitari presenti nei paesi privilegiati, istinti che di per sĂ© hanno poco a che vedere con lâaspirazione utopica. Ma la situazione Ăš sostanzialmente diversa rispetto a quella riscontrabile nella lotta di classe sulla scena nazionale, cioĂš allâinterno di una stessa societĂ caratterizzata da coesione sul piano funzionale e territoriale. Qui tutto Ăš molto piĂș mediato e isolabile. Soltanto fino a un certo punto si puĂČ parlare di una colpa delle nazioni privilegiate nello sfruttamento di quelli sottosviluppati («imperialismo economico»). Le avversitĂ naturali vi contribuiscono pesantemente e anche la specificitĂ storico-antropologica puĂČ concorrere dal canto suo a tener lontano il progresso civilizzatore (laddove questo ritardo, data la circolaritĂ del condizionamento, non sia a sua volta un risultato di questo stesso processo). Dovendovi lâetica fornire una motivazione, il soccorso esterno si configura qui come piĂș volontario, piĂș generoso e piĂș sensibile di quello che nel proprio paese si manifesta sotto il segno di una colpevole corresponsabilitĂ , della giustizia e della prossimitĂ . Per quanto riguarda il grido di dolore della miseria, Ăš un dato di fatto che la distanza rende sufficientemente insensibili e ci permette di tollerare passivamente la fame di popolazioni lontane che non ci darebbe pace se si verificasse attorno a noi. Il detto perfettamente legittimo: «Charity begins at home» fa agevolmente sĂ che la caritĂ non vada oltre le pareti domestiche; sul piano emotivo la responsabilitĂ diretta ha i suoi limiti in ciĂČ che le Ăš prossimo. CosĂ almeno stanno le cose secondo la psicologia individuale. Quanto al gruppo o alla collettivitĂ politica, che deve essere qui lâagente reale, non ci si puĂČ certo attendere che sia «nobile, disponibile e buono»; qui un illuminato egoismo subentra al posto dellâetica personale e impone non soltanto di mitigare il bisogno altrui ricorrendo al palliativo della rinuncia al superfluo, ma detta persino sacrifici costanti a scapito del proprio appagamento, al fine di porre rimedio alla povertĂ mondiale andando alle sue radici. Quel che manca alle nazioni ricche non Ăš tanto la bontĂ altruistica quanto piuttosto la lungimiranza dellâegoismo, il quale mostra unâineliminabile tendenza alla miopia, visto che lâ«ego» Ăš rappresentato di volta in volta proprio dai viventi.
Un egoismo lungimirante avrebbe qui il duplice interesse di favorire complessivamente lo sviluppo di unâeconomia mondiale sana e di scongiurare che lâaccumulazione progressiva della miseria porti a unâesplosione di violenza internazionale. Tale violenza puĂČ assumere la forma tradizionale della guerra fra Stati (ad esempio di una coalizione delle popolazioni povere «insorte», eventualmente sotto la guida di, o con gli armamenti forniti da, una terza potenza) o piĂș probabilmente la nuova forma del terrorismo internazionale (senza il riscontro di una responsabilitĂ nazionale), per estorcere concessioni economiche dai paesi ricchi a quelli poveri. In ogni caso la «guerra di classe» finirebbe cosĂ per degenerare inevitabilmente in guerra nazionale di vecchio stile, se non addirittura in conflitto razziale. Nei paesi attaccati (e anche nelle loro classi lavoratrici) quella guerra mobiliterebbe tutti gli istinti di solidarietĂ nazionale e soffocherebbe le simpatie per la controparte, che prima erano pur presenti al loro interno. In caso di estrema gravitĂ lâappello alla violenza finirebbe per ritorcersi contro la parte piĂș debole â magari con lâepilogo di un tardivo aiuto dei vincitori ai vinti. Non si possono avanzare qui previsioni reali. Ma la prospettiva globale, che si va delineando, di anarchia internazionale Ăš sufficientemente terrificante da far apparire una saggia politica di prevenzione costruttiva come la piĂș adeguata nel proprio interesse a lungo termine. Alla stessa conclusione ...