Il principio responsabilitĂ 
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Il principio responsabilitĂ 

Un'etica per la civiltĂ  tecnologica

Hans Jonas, Pier Paolo Portinaro, Paola Rinaudo

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Un'etica per la civiltĂ  tecnologica

Hans Jonas, Pier Paolo Portinaro, Paola Rinaudo

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Il dibattito intorno alla nostra responsabilitĂ  verso le generazioni future si Ăš fatto in questi anni sempre piĂč fitto e interessante, man mano che svanivano le certezze sul modello di sviluppo fondato sull'asservimento tecnologico della natura e l'«euforia del sogno faustiano» della modernitĂ  lasciava il posto a una visione della storia disincantata e perplessa - quando non disperante e apocalittica. L'uomo Ăš diventato per la natura piĂč pericoloso di quanto un tempo la natura lo fosse per lui, mentre alle tante fratture sociali che ostacolano il cammino verso un'umanitĂ  unificata si Ăš venuta ad aggiungere la contraddizione antagonistica tra il mondo di oggi e il mondo di domani. Muovendo da questa diagnosi, Hans Jonas cerca in questo lavoro di andare alle radici filosofiche del problema della responsabilitĂ , che non concerne soltanto la sopravvivenza, ma l'unitĂ  della specie e la dignitĂ  della sua esistenza. Tra il «principio speranza» di Ernst Bloch e il «principio disperazione» di GĂŒnther Anders, il «principio responsabilità» dĂ  voce a una via di mezzo, nel tentativo di coniugare in un modello unitario etica universalistica e realismo politico.

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Informations

Éditeur
EINAUDI
Année
2014
ISBN
9788858415559

Capitolo sesto

La critica dell’utopia e l’etica della responsabilità

Le tesi sostenute a conclusione del capitolo precedente vengono ora tematizzate. In base ad esse quel che finora veniva considerato natura umana era il prodotto di circostanze inibitorie e deformanti; soltanto la societĂ  senza classi porterĂ  alla luce la vera natura dell’uomo e soltanto con il «regno della libertà» avrĂ  inizio l’autentica storia umana. Non Ăš cosa da poco! Qualcosa di simile si era riscontrato finora soltanto nella fede religiosa: la trasformazione messianica dell’uomo, anzi della natura, con l’avvento del Messia o con la «seconda venuta» del Figlio di Dio, seconda creazione a compimento della prima, con la liberazione dal peccato; il «nuovo Adamo» sollevatosi dalla caduta del vecchio Adamo e immune da una ricaduta; l’imago Dei finalmente e definitivamente realizzata sulla terra nella sua presunta purezza. Anche in questa visione messianica non c’era null’altro da dire a proposito del nuovo stato (se si prescinde dalle raffigurazioni poetiche di una pace universale presso i profeti ebraici). Un’escatologia secolarizzata del nuovo Adamo viene a sostituire al miracolo divino, che lĂ  Ăš operato dalla transustanziazione, delle cause terrene, vale a dire le condizioni esterne della vita umana suscettibili di essere create grazie alla socializzazione della produzione. Determinare quelle condizioni Ăš appunto il compito della rivoluzione, alla quale tocca qui il ruolo dell’intervento divino, mentre tutto il resto continua a essere rimesso alla sua concreta attuazione. Senza l’intervento dello Spirito Santo, si compirĂ  per mezzo suo il prodigio della Pentecoste. Tutto si concentra perciĂČ sulla rivoluzione, nelle sue tappe e quindi sul processo della sua realizzazione. In contrasto con le precedenti utopie, il marxismo si pronuncia sull’avvento e non sull’essere dell’utopia. Anche per lui l’essere non puĂČ essere determinato in anticipo come lo Ăš il Regno di Dio nell’escatologia religiosa, se non in senso negativo mediante l’affermazione che, come lĂ  il peccato, sparirĂ  anche qui il male della societĂ  classista. Sul contenuto positivo del nuovo stato nell’un caso come nell’altro non viene delineato un quadro ideale1, come avveniva invece principalmente nelle utopie pre-marxiste, che dal canto loro lasciavano nell’oscuritĂ  la modalitĂ  dell’«avvento». In effetti questa Ăš la novitĂ  dell’utopismo marxista e uno dei tratti che lo contraddistinguono come escatologia secolarizzata, erede della religione. (Un altro tratto Ăš la dottrina della «colpa» o della radicale provvisorietĂ  di tutta la storia precedente). Ma quale pretesa fideistica! La fede in Dio, quando esista, Ăš in grado di giustificare la certezza dell’attesa di una trasfigurazione futura dell’uomo ad opera di Dio, pur «senza poterla raffigurare», cioĂš senza averne una rappresentazione, accettando in vista di ciĂČ le «doglie della venuta del Messia» e i sussulti della fine di un’epoca. Su ciĂČ che Ăš completamente oscuro domina soltanto la fede e su di essa non si puĂČ discutere. Ma lĂ  dove le «doglie» sono opera dell’uomo, cioĂš dove la rivoluzione mondiale e il suo esito, la societĂ  senza classi, devono fare affidamento sulla ben nota materia del nostro mondo, allora la fede nella sua causalitĂ  salvifica, che Ăš pensata in modo completamente terreno, dovrĂ  sottoporsi a una verifica terrena. Per promettere quel che avverrĂ  «dopo», non si puĂČ invocare l’«invisibilità» del miracolo trascendente, tanto piĂș che dobbiamo essere noi a marcarne l’inizio. Ma la «visibilità» solleva anche la questione del prezzo, che nella visione messianica non si pone.
La fede, che nell’escatologia secolarizzata Ăš bisognosa e suscettibile di verifica, risulta piuttosto composita: Ăš fede nel «potere delle circostanze» in generale e nel presupposto che «l’uomo» ne sia il prodotto, e dunque nella possibilitĂ  che possano esservi condizioni migliori e univoche, tali da risultare soltanto favorevoli; in secondo luogo fede nella prospettiva che l’uomo inserito in tali condizioni diventerĂ  buono come esse lo sono, poichĂ© glielo consentiranno; e infine fede nel presupposto che questo uomo buono non Ăš mai esistito prima, poichĂ© non poteva esistere nelle condizioni finora dominanti, non avendo ancora fatto fino ad oggi la sua comparsa «l’uomo autentico». Quest’ultimo aspetto Ăš per noi il punto dolente, poichĂ© il pathos dell’utopia marxista non sta nell’intenzione di migliorare semplicemente le condizioni che lo richiedono, nella soppressione dell’ingiustizia e del bisogno (a questo fine esistono molti programmi di riforma), ma nella promessa di una trasformazione dell’uomo diretta a elevarlo mediante condizioni prima sconosciute. Questo elemento influisce in misura determinante sui rischi che si devono correre in vista di una cosĂ­ esaltante prospettiva.
I.
I DANNATI DELLA TERRA E LA RIVOLUZIONE MONDIALE
Qui va osservato (e su questo ci soffermeremo ancora nell’esame del pensiero utopico) che non era necessaria nessuna «sublimazione» del fine rivoluzionario per mobilitare le masse alle quali era diretta inizialmente quell’esortazione: il proletariato industriale depauperato e condannato (stando alla teoria) a un ulteriore immiserimento in un capitalismo che si arricchisce sempre di piĂș sulle sue spalle. Ai «dannati della terra», i quali «non hanno nulla da perdere all’infuori delle proprie catene», non occorreva il sogno dell’uomo nuovo o di qualche regno celeste sulla terra per risvegliare il desiderio di redenzione dalla loro intollerabile situazione mediante ridistribuzione e socializzazione – il che era possibile e perseguibile in forza della loro solidarietĂ . La redenzione come tale Ăš il sogno della sofferenza; ogni approssimativa equiparazione agli sfruttatori di un tempo, una modesta partecipazione al loro superfluo prodotto dagli sfruttati stessi poteva bastare a questi ultimi come la piĂș audace delle «utopie»: certo sufficiente per il tentativo della rivoluzione. Le loro condizioni non sarebbero potute peggiorare neppure in caso di fallimento, ma soltanto migliorare nell’eventualitĂ  della vittoria – non importa ora se in modo definitivo e sotto tutti i profili. A questo potente motore del bisogno, all’anelito della sofferenza verso la redenzione, potevano far appello i pensatori della rivoluzione socialista, anche se il loro obiettivo andava ben al di lĂ  di ciĂČ. Tale motivazione, si deve aggiungere, Ăš umanamente anche del tutto sufficiente per giustificare sul piano dell’etica e della prassi il ricorso alla violenza rivoluzionaria qualora non esista nessun’altra via per soddisfare quella aspirazione.
1. Mutamento nella configurazione della «lotta di classe» in seguito alla nuova distribuzione planetaria della sofferenza.
Questo vale ancor oggi per i «dannati della terra». Tuttavia, in quanto fenomeno di gruppo e di massa, essi non vivono piĂș all’interno dei paesi industriali avanzati (nell’Occidente capitalistico forse ancor meno che nell’«Oriente» comunista), ma al suo esterno nei paesi sottosviluppati, ex coloniali, del cosiddetto «terzo mondo», dove a essere tali sono interi popoli depauperati e non classi oppresse di societĂ  economicamente in ascesa2. Questo dato modifica la posizione di partenza e il significato della rivoluzione propagandata, che diventa qui «rivoluzione mondiale» in un senso completamente nuovo, concernente essenzialmente la politica estera.
a) Pacificazione del «proletariato industriale» occidentale.
Nei paesi progrediti e ricchi, che raccolgono i frutti dell’incremento della produzione tecnologica, la situazione del proletariato industriale abbandonato inerme alla mercĂ© dell’anarchia del mercato Ăš ormai da tempo, come ognuno sa, un ricordo del passato. LĂ  dove potenti sindacati e «staff manageriale» vincolato da contratto siedono di fronte al tavolo delle trattative, non si puĂČ piĂș parlare di sfruttamento unilaterale, anche se la distribuzione finale dei benefici resta disuguale. Una lotta di potere regolata per statuto sulla base di un rapporto di forze approssimativamente equilibrato decide la partecipazione della quota salariale al reddito economico e quindi la definitiva distribuzione del prodotto sociale nel suo insieme. Se la trattativa fallisce, il ricorso, ancor sempre pacifico, allo sciopero ‘tiene in ostaggio’ non soltanto la controparte diretta, ma ampi settori dell’economia, e nei servizi vitali tutta quanta la pubblica utenza. Spesso «il capitale» deve cedere. Il vantaggio economico per la classe lavoratrice di questa evoluzione «riformistica», strappato alla controparte sociale in parte per merito dell’intelligenza (e anche della moralitĂ ) e in parte con la coercizione, e sancito politicamente nel diritto, Ăš ben noto: lo standard di vita dell’operaio nell’odierno capitalismo occidentale, commisurato ai beni di consumo come anche alle condizioni e al tempo lavorativo, supera quello della maggior parte dei modesti cittadini e contadini dell’epoca anteriore al processo di proletarizzazione3; alle vittime degli spietati primordi del capitalismo le condizioni attuali sarebbero sembrate un paradiso. È anche da mettere in dubbio che si sarebbero aspettati di piĂș da una rivoluzione. Inoltre aspetti «socialisti» dell’assistenza pubblica, quali la previdenza sanitaria e pensionistica, hanno eliminato una buona parte dell’insicurezza di vita delle epoche precedenti. All’interno di questo mondo Ăš scomparsa la miseria come destino di gruppo4. Questi frutti di un processo complessivamente pacifico hanno reso anche le classi operaie dell’«Occidente», ora interessate alla stabilitĂ  di un sistema nei cui meccanismi funzionali sono inseriti strumenti di pressione a loro favore, inadatte alla candidatura rivoluzionaria. In mancanza di una classe oppressa, la rivoluzione non puĂČ aver luogo. Gli autentici antesignani di quest’ultima, poco interessati al semplice «miglioramento» della situazione della loro classe di adozione, considerato anzi sospetto in quanto «corruzione», hanno perciĂČ sempre ritenuto, a ragione, il «revisionismo» (= riformismo) il loro piĂș acerrimo nemico. Tanto piĂș importante diventa, a dispetto della volontĂ  della classe di adozione, l’«utopia» autentica che Ăš diventata ora prerogativa di un’esigua Ă©lite di idealisti radicali provenienti dai ceti privilegiati, trovando paradossalmente, all’interno della societĂ  nel suo complesso, la piĂș scarsa risonanza proprio presso i presunti oggetti della loro missione. I suoi naturali alleati tattici si trovano oggi altrove, fra i «dannati della terra» di altre parti del mondo. Anche presso questi ultimi non Ăš l’affrettata pacificazione mediante il miglioramento della loro situazione, ma la mobilitazione del loro intatto potenziale rivoluzionario a stare a cuore all’utopismo autentico, ormai senza radici nei suoi paesi d’origine. Proprio la pacificazione, comunque ne si voglia valutare l’esito, della societĂ  del benessere – che in un certo senso Ăš stata una vittoria pre-escatologica della causa utopica, in quanto non si sarebbe verificata senza la sua minaccia (nĂ© certo senza la forza di persuasione della sua retorica) –, sta a dimostrare che gli obiettivi non utopici, del tutto razionali, della concezione originaria sono raggiungibili anche mediante trasformazioni graduali, non rivoluzionarie del sistema dominante, orientate complessivamente in direzione del «socialismo»5. Sono state rilevate piĂș volte le convergenze strutturali fra un «capitalismo» riformato e i «comunismi» esistenti, sorti da rivoluzioni (ma pur sempre ancora «pre-utopici»). In ogni caso la crescente socializzazione nella forma del moderno Stato assistenziale sembra essere per ora l’orientamento generale delle societĂ  occidentali, in precario equilibrio con i principĂź della libertĂ  (e i bisogni dell’irragionevolezza). Tutto ciĂČ Ăš ben lontano dalla perfezione, ma questa Ăš peculiaritĂ  esclusiva dell’utopia.
b) La lotta di classe come lotta delle nazioni.
Eppure i dannati della terra, necessari alla rivoluzione marxista come l’acqua per la ruota del mulino (o la miccia per l’esplosione) non mancano. Come si Ăš detto, si tratta delle masse popolari veramente depauperate dei continenti «sottosviluppati», nei quali, nonostante la presenza al loro interno di classi maggiormente oppresse, la povertĂ  complessiva Ăš cosĂ­ grande ed endogena che persino spazzando via l’esiguo ceto dei parassiti locali non si modificherebbe di molto la situazione. Nel loro complesso essi sono la «classe oppressa» nella gerarchia globale del potere e della ricchezza e la loro «lotta di classe» va necessariamente combattuta sul piano internazionale. La loro forza propulsiva, messa in moto dal bisogno, potrebbe quindi essere mobilitata, al di lĂ  della loro volontĂ  immediata, per l’utopia a cui mira la rivoluzione mondiale. Anche qui scenderebbero in campo a loro favore tutti gli istinti filantropici ed egualitari presenti nei paesi privilegiati, istinti che di per sĂ© hanno poco a che vedere con l’aspirazione utopica. Ma la situazione Ăš sostanzialmente diversa rispetto a quella riscontrabile nella lotta di classe sulla scena nazionale, cioĂš all’interno di una stessa societĂ  caratterizzata da coesione sul piano funzionale e territoriale. Qui tutto Ăš molto piĂș mediato e isolabile. Soltanto fino a un certo punto si puĂČ parlare di una colpa delle nazioni privilegiate nello sfruttamento di quelli sottosviluppati («imperialismo economico»). Le avversitĂ  naturali vi contribuiscono pesantemente e anche la specificitĂ  storico-antropologica puĂČ concorrere dal canto suo a tener lontano il progresso civilizzatore (laddove questo ritardo, data la circolaritĂ  del condizionamento, non sia a sua volta un risultato di questo stesso processo). Dovendovi l’etica fornire una motivazione, il soccorso esterno si configura qui come piĂș volontario, piĂș generoso e piĂș sensibile di quello che nel proprio paese si manifesta sotto il segno di una colpevole corresponsabilitĂ , della giustizia e della prossimitĂ . Per quanto riguarda il grido di dolore della miseria, Ăš un dato di fatto che la distanza rende sufficientemente insensibili e ci permette di tollerare passivamente la fame di popolazioni lontane che non ci darebbe pace se si verificasse attorno a noi. Il detto perfettamente legittimo: «Charity begins at home» fa agevolmente sĂ­ che la caritĂ  non vada oltre le pareti domestiche; sul piano emotivo la responsabilitĂ  diretta ha i suoi limiti in ciĂČ che le Ăš prossimo. CosĂ­ almeno stanno le cose secondo la psicologia individuale. Quanto al gruppo o alla collettivitĂ  politica, che deve essere qui l’agente reale, non ci si puĂČ certo attendere che sia «nobile, disponibile e buono»; qui un illuminato egoismo subentra al posto dell’etica personale e impone non soltanto di mitigare il bisogno altrui ricorrendo al palliativo della rinuncia al superfluo, ma detta persino sacrifici costanti a scapito del proprio appagamento, al fine di porre rimedio alla povertĂ  mondiale andando alle sue radici. Quel che manca alle nazioni ricche non Ăš tanto la bontĂ  altruistica quanto piuttosto la lungimiranza dell’egoismo, il quale mostra un’ineliminabile tendenza alla miopia, visto che l’«ego» Ăš rappresentato di volta in volta proprio dai viventi.
Un egoismo lungimirante avrebbe qui il duplice interesse di favorire complessivamente lo sviluppo di un’economia mondiale sana e di scongiurare che l’accumulazione progressiva della miseria porti a un’esplosione di violenza internazionale. Tale violenza puĂČ assumere la forma tradizionale della guerra fra Stati (ad esempio di una coalizione delle popolazioni povere «insorte», eventualmente sotto la guida di, o con gli armamenti forniti da, una terza potenza) o piĂș probabilmente la nuova forma del terrorismo internazionale (senza il riscontro di una responsabilitĂ  nazionale), per estorcere concessioni economiche dai paesi ricchi a quelli poveri. In ogni caso la «guerra di classe» finirebbe cosĂ­ per degenerare inevitabilmente in guerra nazionale di vecchio stile, se non addirittura in conflitto razziale. Nei paesi attaccati (e anche nelle loro classi lavoratrici) quella guerra mobiliterebbe tutti gli istinti di solidarietĂ  nazionale e soffocherebbe le simpatie per la controparte, che prima erano pur presenti al loro interno. In caso di estrema gravitĂ  l’appello alla violenza finirebbe per ritorcersi contro la parte piĂș debole – magari con l’epilogo di un tardivo aiuto dei vincitori ai vinti. Non si possono avanzare qui previsioni reali. Ma la prospettiva globale, che si va delineando, di anarchia internazionale Ăš sufficientemente terrificante da far apparire una saggia politica di prevenzione costruttiva come la piĂș adeguata nel proprio interesse a lungo termine. Alla stessa conclusione ...

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