Due solitudini
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Due solitudini

Il romanzo nell'America Latina

Gabriel García Márquez, Mario Vargas Llosa, Bruno Arpaia

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Due solitudini

Il romanzo nell'America Latina

Gabriel García Márquez, Mario Vargas Llosa, Bruno Arpaia

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Nel settembre del 1967 l'Universidad Nacional de Ingeniería peruviana invita a Lima Gabriel García Márquez, che da pochi mesi ha pubblicato Cent'anni di solitudine. L'eccezionale successo lo ha reso la figura più in vista della letteratura latinoamericana, una leggenda vivente. A Lima si trova anche Mario Vargas Llosa, fresco vincitore del premio Rómulo Gallegos per La casa verde. I due futuri premi Nobel sono i protagonisti di un evento che va ben oltre le abituali conferenze: un dialogo sull'essenza e il futuro del romanzo, latinoamericano e non solo.

Dalle loro parole emergono le due diverse personalità e nei vivaci scambi di battute risuonano grandi temi come la responsabilità del romanziere o il peso del convulso mondo politico sudamericano nella letteratura; ma soprattutto aleggia quel concetto di "realismo magico" che proprio da Cent'anni di solitudine si sarebbe imposto come il carattere più tipico della letteratura latinoamericana. D'altronde, in quel fatidico 1967 il boom della letteratura latinoamericana era al suo esordio: come a Macondo, «il mondo era così recente che molte cose erano senza nome».

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Informations

Éditeur
Mondadori
Année
2021
ISBN
9788835713623

IL ROMANZO NELL'AMERICA LATINA

Dialogo tra Mario Vargas Llosa e Gabriel García Márquez (Lima, 5 e 7 settembre 1967)

Prima parte

MARIO VARGAS LLOSA

Agli scrittori succede una cosa che – mi pare – non accade mai agli ingegneri o agli architetti. Molte volte la gente si chiede: a cosa servono? Le persone sanno a cosa serve un architetto, a cosa serve un ingegnere, a cosa serve un medico; però, quando si tratta di uno scrittore, hanno dei dubbi. Perfino chi pensa che serva a qualcosa, non sa esattamente a cosa. La prima domanda che voglio fare a Gabriel è proprio su questo: che chiarisca il problema a voi, e anche a me, perché anch’io ho dei dubbi al riguardo. A cosa credi di servire tu come scrittore?

GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ

Ho l’impressione di essere nato come scrittore quando mi sono reso conto che non servivo a nulla. Mio padre aveva una farmacia e, naturalmente, voleva che facessi il farmacista per prendere il suo posto. Ma la mia vocazione era totalmente diversa: volevo fare l’avvocato. E volevo fare l’avvocato perché nei film gli avvocati vincevano in tribunale difendendo le cause perse. Tuttavia, ormai all’università, con tutte le difficoltà che ho avuto per studiare, ho scoperto che non sarei servito nemmeno come avvocato. Ho cominciato a scrivere i primi racconti e, in quel momento, davvero non sapevo assolutamente a cosa servisse scrivere. All’inizio, mi piaceva scrivere perché mi pubblicavano le cose, e ho scoperto ciò che poi ho dichiarato diverse volte e che ha molto di vero: scrivo perché i miei amici mi vogliano più bene. Ma poi, analizzando il mestiere dello scrittore e analizzando i lavori di altri scrittori, penso che sicuramente la letteratura, e soprattutto il romanzo, abbia una funzione. Ora, non so se per fortuna o per disgrazia, credo che sia una funzione sovversiva, non è vero? Nel senso che non conosco nessuna buona letteratura che serva a esaltare valori consolidati. Sempre, nella buona letteratura, trovo la tendenza a distruggere ciò che è consolidato, ciò che è ormai imposto, e a contribuire alla creazione di nuovi modi di vita, di nuove società; insomma, a migliorare la vita degli uomini. Mi è un po’ difficile spiegarlo perché, in realtà, io funziono molto poco nella teoria. Vale a dire che non so benissimo perché succedano queste cose. Ora, la verità è che il fatto di scrivere obbedisce a una vocazione urgente, e chi ha la vocazione di scrittore deve scrivere perché soltanto così riesce a farsi passare i suoi mal di testa e la cattiva digestione.

MARIO VARGAS LLOSA

Cioè, tu pensi che la letteratura sia un’attività che, dal punto di vista sociale, è eminentemente sovversiva. Adesso sarebbe interessante che ci dicessi se credi che quel potere sovversivo della letteratura, quella trasgressione che la letteratura diffonde nell’ambito sociale, possa essere in qualche modo prevista o calcolata dallo scrittore; vale a dire, se lo scrittore, nel momento in cui concepisce un racconto o un romanzo, in qualche modo può prevedere le conseguenze sediziose, sovversive, che avrà il suo libro quando arriverà ai lettori.

GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ

Credo che se questa cosa viene prevista, se è deliberata la forza, la funzione sovversiva del libro che si sta scrivendo, già da quel momento il libro è un brutto libro. Ma prima voglio mettere in chiaro una cosa: quando qui diciamo scrittore, quando diciamo letteratura, ci stiamo riferendo al romanziere e al romanzo, perché altrimenti tutto questo si potrebbe prestare a cattive interpretazioni; in realtà, sto parlando di romanziere e di romanzo. Credo che lo scrittore sia sempre in conflitto con la società; di più, ho l’impressione che la scrittura sia come un modo per risolvere quel conflitto personale dello scrittore con il suo ambiente. Quando mi siedo a scrivere un libro lo faccio perché mi interessa raccontare una buona storia. Una storia che mi piaccia. Il fatto è che anch’io ho una formazione ideologica; credo che se lo scrittore, ogni scrittore sincero, al momento di raccontare la sua storia, che sia quella di Cappuccetto Rosso o una storia di guerriglieri, per citare due casi estremi; se lo scrittore, dicevo, ha una posizione ideologica salda, questa posizione ideologica si vedrà nella sua storia, alimenterà, cioè, la sua storia, ed è a partire da quel momento che quella storia può avere la forza sovversiva di cui parlo. Non credo che sia deliberata, però di certo è inevitabile.

MARIO VARGAS LLOSA

Allora, in quel caso, il fattore puramente razionale, diciamo, non è preponderante nella creazione letteraria. Quali altri fattori sarebbero quelli preponderanti, quali elementi determinerebbero la qualità dell’opera letteraria?

GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ

A me l’unica cosa che interessa quando scrivo una storia è se l’idea di quella storia può piacere al lettore, e che io sia totalmente d’accordo con quella storia. Non potrei scrivere una storia che non sia basata esclusivamente su esperienze personali. Ora sto per l’appunto preparando la storia di un dittatore immaginario, cioè la storia di un dittatore che, dall’ambientazione, si suppone sia latinoamericano. Questo dittatore che ha centoottantadue anni, che è da così tanto tempo al potere che non ricorda neanche più quando l’ha ottenuto, che ha tanto potere che non ha più bisogno di comandare, è completamente solo in un enorme palazzo, nelle cui sale passeggiano le vacche e mangiano i ritratti, i grandi quadri a olio degli arcivescovi, eccetera. Ebbene, la cosa curiosa è che, in qualche modo, questa storia è basata su esperienze personali. Cioè, sono elaborazioni poetiche di mie esperienze personali che mi servono per esprimere ciò che voglio in questo caso, che è l’immensa solitudine del potere; e credo che per esprimere la solitudine del potere non esista nessun archetipo migliore di quello del dittatore latinoamericano, che è il grande mostro mitologico della nostra storia.

MARIO VARGAS LLOSA

Cambiando bruscamente piano, vorrei farti una domanda più personale, perché, mentre parlavi della solitudine, ricordavo che è un tema costante in tutti i tuoi libri; l’ultimo si chiama perfino Cent’anni di solitudine, ed è curioso, perché i tuoi libri sono sempre molto popolati o molto popolosi, sono pieni di gente; tuttavia, sono libri la cui materia profonda è, in certo qual modo, la solitudine. In molte tue interviste, ho notato che fai sempre riferimento a un tuo famigliare che ti ha raccontato tante storie quando eri bambino. Ricordo perfino un’intervista in cui dicevi che la morte di quel famigliare, quando avevi otto anni, è stato l’ultimo avvenimento importante della tua vita. Allora, sarebbe forse interessante che ci dicessi in quale misura questo personaggio può essere servito da stimolo, può avere fornito materiali per i tuoi libri. Voglio dire, chi è anzitutto questo personaggio?

GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ

Faccio una digressione prima di arrivare alla risposta. In realtà, non conosco nessuno che in una certa misura non si senta solo. È questo il significato della solitudine che interessa a me. Temo che questo risulti metafisico e reazionario e che sembri tutto il contrario di ciò che sono, di ciò che voglio essere in realtà, ma credo che l’uomo sia completamente solo.

MARIO VARGAS LLOSA

Credi che sia una caratteristica dell’uomo?

GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ

Credo che sia parte essenziale della natura umana.

MARIO VARGAS LLOSA

Però la mia domanda mirava a questo: ho letto in un discorso, in un saggio molto lungo sui tuoi libri pubblicato da una rivista parigina, che quella solitudine, il contenuto principale di Cent’anni di solitudine e dei tuoi libri precedenti, era la caratteristica dell’uomo latinoamericano, perché rappresentava la profonda alienazione dell’uomo latinoamericano, l’incomunicabilità che esiste fra gli uomini, il fatto che l’uomo latinoamericano nasce da una serie di condizionamenti; vale a dire, che è condannato a una specie di incontro mancato con la realtà, e questo lo fa sentire frustrato, mutilato, solitario. Cosa pensi di questa osservazione?

GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ

Non ci avevo pensato. Il fatto è che questi valori sono totalmente inconsapevoli. Credo, inoltre, che mi sto addentrando in un terreno pericoloso, che è quello di tentare di spiegarmi questa solitudine che esprimo e che cerco in diversi aspetti dell’individuo. Penso che il giorno in cui ne sarò cosciente, in cui saprò esattamente da dove viene tutto questo, non mi servirà più. Per esempio: c’è un critico in Colombia che ha scritto una cosa molto completa sui miei libri; diceva di aver notato che le donne che compaiono nei miei romanzi sono la sicurezza, sono il senso comune, sono quelle che preservano la stirpe e l’uso della ragione nella famiglia, mentre gli uomini si lanciano in ogni tipo di avventure, andando in guerra e cercando di esplorare e fondare paesi, che finiscono sempre in fallimenti spettacolari, e grazie alla donna, che sta a casa – preservando, diciamo, la tradizione, i valori fondamentali –, gli uomini hanno potuto fare le guerre e hanno potuto fondare paesi e hanno potuto fare le grandi colonizzazioni americane. Nel momento in cui l’ho letto, ho passato in rassegna i miei libri precedenti e mi sono reso conto che era vero, e credo che questo critico mi abbia fatto un grande danno, perché mi ha fatto questa rivelazione proprio mentre stavo scrivendo Cent’anni di solitudine, dove tutto questo sembra raggiungere la sua apoteosi. Lì c’è un personaggio, Úrsula, che vive centosettanta anni ed è colei che sostiene realmente l’intero romanzo. A partire da questo personaggio – che avevo già completamente concepito, completamente disegnato – non sapevo più se ero sincero o se stavo cercando di far piacere a quel critico. Allora temo che mi succeda la stessa cosa con la solitudine. Se riesco a spiegarmi esattamente di cosa si tratta, allora forse sarò totalmente razionale, totalmente cosciente, e non me ne preoccuperò più. Ora tu mi hai appena fornito una chiave che mi spaventa un poco. Io pensavo che la solitudine fosse un tratto comune della natura umana, però adesso mi viene da pensare che probabilmente è un risultato dell’alienazione dell’uomo latinoamericano e che quindi sto esprimendo, dal punto di vista sociale, e perfino dal punto di vista politico, molto più di quello che credevo. Se così fosse, non sarei più tanto metafisico quanto temo. Ho voluto comunque essere sincero e ho lavorato ancora con il timore che la solitudine possa essere un tema un po’ reazionario.

MARIO VARGAS LLOSA

D’accordo, allora non parliamo della solitudine, visto che è un argomento un po’ pericoloso. Io però sono molto interessato a quel personaggio, a quel tuo famigliare di cui tutti parlano negli articoli e a cui dici di dovere tanto. Si tratta di una zia?

GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ

No. Era mio nonno. Pensate che era un signore che poi mi ritrovo nel mio libro. Una volta aveva dovuto uccidere un uomo, quando era molto giovane. Viveva in un villaggio e sembra che lì ci fosse qualcuno che lo molestava molto e lo sfidava, ma lui non gli faceva caso, finché la situazione era diventata così difficile che, semplicemente, gli aveva sparato. Sembra che il villaggio fosse talmente d’accordo con ciò che ...

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