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Lezioni di filosofia per un pianeta che cambia

Bruno Latour

  1. 184 pages
  2. Italian
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Lezioni di filosofia per un pianeta che cambia

Bruno Latour

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À propos de ce livre

«Latour ci insegna ad atterrare, vivere e pensare su questa nostra Terra».
Donna Haraway «Una metafisica del confinamento che ci invita a rompere con il mondo di prima».
Le Monde «Una straordinaria riflessione su come la vera libertà provenga dalla conoscenza».
The New York Times «In questo libro Latour ci invita a una metamorfosi. Per riorganizzare la società intorno alle urgenze ecologiche Ú necessario ripensare il nostro rapporto con il vivente».
Libération «Comincio a situarmi come un terrestre fra altri terrestri ma, una volta passata la sorpresa, mi accorgo che i terrestri non si spostano mai ovunque "liberamente" in uno spazio indifferenziato, ma che questo spazio se lo costruiscono pezzo per pezzo. Stranamente, Ú proprio il fatto di sentirsi "confinati" a darci questa libertà di muoverci infine "liberamente"».

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Informations

Éditeur
EINAUDI
Année
2022
ISBN
9788858439005
1.

Un divenire-termite

Si puĂČ cominciare in tanti modi. Per esempio, esordire come il personaggio di un romanzo che si risveglia dopo uno svenimento, si sfrega gli occhi, stralunato, e biascica: «Dove sono?» In effetti non Ăš facile raccapezzarsi, a maggior ragione dopo un confinamento cosĂ­ lungo, con il viso coperto da una mascherina e, per strada, sporadici passanti di cui scorge appena lo sguardo sfuggente.
Quello che piĂș lo sconforta, anzi, che lo lascia sgomento, Ăš che da poco si Ăš messo a guardare la luna – piena da ieri sera – come se fosse l’unica cosa che potesse ancora contemplare senza provare disagio. Il sole? Impossibile crogiolarsi al suo tepore senza pensare immediatamente al riscaldamento globale. Gli alberi che frusciano al vento? Lo tormenta la paura di vederli rinsecchire o stroncati dalla sega. Ha la spiacevole sensazione di ritenersi responsabile persino dell’acqua che cade dal cielo: «Sapete bene che tra poco scarseggerĂ  ovunque!» Bearsi a contemplare un paesaggio? Neanche a pensarci! Siamo responsabili del suo inquinamento a tutti i livelli, e se ancora vi estasiate alla vista dei campi di grano dorati, avete dimenticato che i papaveri sono scomparsi a causa della politica agricola dell’Unione Europea; lĂ  dove gli impressionisti dipingevano un tripudio di bellezze, adesso non si vede altro che l’impatto della Pac che ha trasformato le campagne in deserti
 Decisamente, al nostro personaggio non resta che posare lo sguardo sulla luna per placare le sue inquietudini: della sua rotazione e delle sue fasi non si sente affatto responsabile; Ăš l’ultimo spettacolo che gli resta. Se il suo fulgore ti emoziona tanto, Ăš perchĂ© in fin dei conti sai di non interferire con il suo moto. Lo stesso valeva fino a poco tempo fa quando guardavi i campi, i laghi, gli alberi, i fiumi, le montagne e i paesaggi senza pensare all’effetto che poteva avere il piĂș piccolo dei tuoi gesti. Prima. Non molto tempo fa.
Al risveglio mi ritrovo a patire i tormenti del personaggio della Metamorfosi di Kafka che durante il sonno si Ăš trasformato in un insetto – scarafaggio o blatta che sia. Dalla sera alla mattina si ritrova atterrito perchĂ© non riesce ad alzarsi come al solito per andare al lavoro; si nasconde sotto il letto; la sorella, i genitori, il suo principale vengono a bussargli alla porta che lui si Ăš premurato di chiudere a chiave; non puĂČ piĂș alzarsi, ha il dorso duro come l’acciaio; deve reimparare a usare le zampe o le pinze che si agitano in tutte le direzioni; pian piano si rende conto che nessuno capisce piĂș quello che dice; il suo corpo ha cambiato dimensioni; si sente trasformato in un «mostruoso insetto».
Anch’io, Ăš come se avessi subito una vera e propria metamorfosi. Ricordo ancora che, prima, mi spostavo candidamente portandomi dietro il mio corpo. Adesso, invece, sento di trascinare un lungo strascico di CO2 che mi impedisce di spiccare il volo prendendo un biglietto aereo e impaccia ormai tutti i miei movimenti, tanto che oso appena digitare sulla tastiera del mio computer per paura di far fondere qualche lontano ghiacciaio. Da gennaio, poi, Ăš anche peggio poichĂ©, per giunta, proietto davanti a me – come mi ripetono di continuo – un aerosol le cui goccioline finissime diffondono nei polmoni minuscoli virus capaci di uccidere chi mi sta vicino, costringendolo al ricovero in terapia intensiva e saturando cosĂ­ le strutture ospedaliere. Devo imparare a trascinare una specie di carapace di conseguenze ogni giorno piĂș spaventose. Mi sforzo di mantenere le distanze regolamentari boccheggiando dietro la mia mascherina chirurgica, ma non mi spingo tanto lontano, giacchĂ© non appena mi metto a riempire il carrello della spesa il disagio si accresce: questa tazza di caffĂš distrugge un suolo tropicale; questa maglietta condanna alla miseria un bambino del Bangladesh; la bistecca al sangue che mangiavo con gusto esala zaffate di metano che aggravano la crisi climatica. Allora comincio a gemere, mi dibatto, terrorizzato da tale metamorfosi. FinirĂČ per svegliarmi da quest’incubo e tornare come prima: libero, integro, mobile? Un essere umano vecchia maniera, insomma! Confinato a casa, d’accordo, ma solo per qualche settimana; non per sempre, la prospettiva sarebbe troppo spaventosa. Chi mai vorrebbe finire come Gregor Samsa, morto rinsecchito in un armadio, con grande sollievo dei suoi genitori?
Eppure una metamorfosi c’ù stata e non pare proprio che al risveglio da questo incubo torneremo indietro. Confinati oggi come domani. Il «mostruoso insetto» deve imparare a spostarsi di sbieco, a scontrarsi con il prossimo, con i propri familiari (forse anche il resto della famiglia Samsa subirĂ  una mutazione?), tutti impacciati da antenne, strascichi, scie di virus e di gas, in un clicchettio di protesi e un cozzare spaventoso di pinne d’acciaio. «Ma dove sono?»: da un’altra parte, in un altro tempo, qualcun altro, membro di un’altra popolazione. Come abituarsi? Brancolando, come sempre. In che altro modo se no?
Kafka aveva colto nel segno: il divenire-insetto fornisce un buon punto di partenza per permettermi di raccapezzarmi e mettere a fuoco la situazione. In tutto il mondo gli insetti sono in via di estinzione, ma formiche e termiti resistono. Per capire dove tutto questo ci condurrĂ  direi di partire dalle loro linee di fuga.
Un esempio istruttivo Ăš quello delle termiti coltivatrici che vivono in simbiosi con funghi specializzati in grado di digerire il legno – i famosi Termitomyces –, innalzando vasti nidi di terra masticata all’interno dei quali mantengono una specie di aria condizionata. Una Praga di argilla in cui, nel giro di qualche giorno, ogni pezzetto di cibo transita nel tubo digerente di ciascuna termine. La termite vive confinata, anzi rappresenta un vero e proprio modello di confinamento: non esce mai! Ma si costruisce da sĂ© il termitaio impastando con la saliva una zolla dopo l’altra. Di conseguenza puĂČ andare dappertutto, a patto di estendere un po’ piĂș in lĂ  il termitaio. La termite si avvolge nel termitaio, si arrotola nel suo ambiente interno che Ăš al contempo il suo modo di produrre un’esterioritĂ , una sorta di estensione del suo corpo; gli scienziati lo definirebbero un secondo «esoscheletro» oltre al primo, costituito dal carapace, i vari segmenti e le zampe articolate.
L’aggettivo «kafkiano» non ha lo stesso significato se lo applico alla singola termite, isolata senza cibo in un universo carcerario di argilla secca e scura, o se invece designa un Gregor Samsa tutto soddisfatto di aver digerito la sua casa di terra grazie al legno ingurgitato da centinaia di milioni di familiari e compatrioti, il cui nutrimento Ăš un flusso continuo dal quale ha prelevato qualche molecola di passaggio. Sarebbe una nuova metamorfosi, l’ennesima, del celebre racconto di Kafka. Nessuno, perĂČ, lo troverebbe mostruoso; nessuno cercherebbe di schiacciarlo come uno scarafaggio, alla maniera di papĂ  Samsa.
Forse dovrei attribuirgli altri sentimenti, esclamando, come Ăš stato fatto per Sisifo, benchĂ© per tutt’altre ragioni: «Bisogna immaginare Gregor Samsa felice »
Questo divenire-insetto, questo divenire-termite permetterebbe di mitigare lo sgomento di colui al quale non resta che trovare conforto nella contemplazione della luna, l’unico essere vicino estraneo alle sue preoccupazioni. PerchĂ©, insomma, se ti senti cosĂ­ a disagio a guardare gli alberi, il vento, la pioggia, la siccitĂ , il mare, i fiumi – e naturalmente le farfalle e le api – Ăš perchĂ© ti senti responsabile, sĂ­, in fondo, colpevole di non lottare contro quelli che li distruggono; perchĂ© ti sei insinuato nella loro esistenza, hai incrociato la loro traiettoria; eh giĂ , proprio cosĂ­: anche tu, tu quoque; li hai digeriti, modificati, metamorfizzati: ne hai fatto il tuo ambiente interiore, il tuo termitaio, la tua cittĂ , la tua Praga di pietra e cemento. Ma allora perchĂ© ti senti a disagio? Non c’ù piĂș niente che ti sia estraneo; non sei piĂș solo; digerisci tranquillamente qualche molecola di quello che ti arriva nell’intestino dopo essere passato attraverso il metabolismo di centinaia di miliardi di parenti, affini, compatrioti e concorrenti. Non sei piĂș nella tua stanzetta, Gregor, puoi andare dappertutto, perchĂ© dunque continui a rintanarti per la vergogna? Sei fuggito: forza, mostraci come si fa!
Con le tue antenne, le tue articolazioni, le tue emanazioni, i tuoi escrementi, le tue mandibole, le tue protesi, forse stai diventando finalmente umano! I tuoi familiari, invece, quelli che bussano alla tua porta, preoccupati, inorriditi, persino la tua cara sorella Grete, rifiutando il loro divenire-insetti sono diventati disumani. Loro dovrebbero sentirsi male, non tu. E se fossero loro a essersi metamorfizzati, a essere stati trasformati in «mostri» dalla crisi e dalla pandemia? Abbiamo letto il racconto di Kafka al contrario. Sulle sue sei zampe pelose, Gregor cammina finalmente dritto e potrebbe insegnarci a uscire dal confinamento.
Mentre parlavamo la luna ù calata; aliena alle tue preoccupazioni; estranea ma in un modo diverso da prima. Non ne sei convinto? Il senso di disagio non se ne va? Forse ti ho consolato un po’ troppo a buon mercato. Ti senti ancora peggio? Detesti questa metamorfosi? Vuoi tornare a essere umano alla vecchia maniera? Hai ragione. Anche ammesso che fossimo diventati insetti, saremmo dei cattivi insetti, incapaci di spostarci molto lontano, chiusi a chiave nella nostra camera.
Questa faccenda del «ritorno alla terra» mi dĂ  il capogiro. Non Ăš giusto spingerci ad atterrare se non ci dicono dove possiamo posarci senza schiantarci, che cosa ne sarĂ  di noi, a chi ci sentiremo affini e a chi no. Sono stato troppo sbrigativo. È l’inconveniente di quando si parte dal luogo di uno schianto, non posso piĂș localizzarmi con l’aiuto di un Gps; non posso piĂș sorvolare alcunchĂ©. Ma Ăš anche la mia fortuna: basta cominciare dal punto in cui ci si trova, il ground zero, sforzandosi di seguire la prima pista individuata tra la boscaglia e vedere dove porta. Non c’ù fretta, resta ancora un po’ di tempo per trovare una sistemazione. Certo, ho perso la bella voce stentorea che mi permetteva di disquisire dall’alto rivolgendomi all’insieme del genere umano; come la voce di Gregor all’orecchio dei suoi genitori, il mio eloquio rischia di essere un terribile borborigmo, purtroppo Ăš lo svantaggio di questo divenire-animale. Quel che conta, perĂČ, Ăš far sentire le voci di quelli che avanzano brancolando nell’oscuritĂ  senza luna, chiamandosi l’un l’altro. CosĂ­ che altri compatrioti riusciranno forse a radunarsi intorno a quei richiami.
2.

Confinati in un luogo comunque abbastanza vasto

«Dove sono?» sospira l’essere che si risveglia insetto. In cittĂ , probabilmente, come la metĂ  dei miei simili. Di conseguenza mi trovo all’interno di una specie di esteso termitaio: un enorme apparato di mura, passaggi, impianti di condizionamento, flussi alimentari, circuiti di cavi le cui ramificazioni si espandono lontano, sotto terra. Allo stesso modo in cui i cunicoli scavati dalle termiti le aiutano a penetrare nelle travi piĂș massicce di una casa anche per grandi distanze. In un certo senso, in cittĂ  sono sempre «a casa», quanto meno per una porzione minuscola: io ho ritinteggiato quel muro, io ho portato quel tavolo dall’estero, io ho allagato per sbaglio l’appartamento del vicino, io ho pagato l’affitto. Ecco qualche infima traccia aggiunta per sempre all’ambiente di calcare luteziano, alle impronte, alle rughe e alle ricchezze di questo luogo. Se considero l’ambiente, per ogni pietra ritrovo un essere urbano che l’ha fatta; se parto dagli esseri urbani, troverĂČ per ciascuna delle loro azioni una traccia lasciata nella pietra – quella grande macchia sul muro, lĂ­ da vent’anni, l’ho fatta io; e anche quella scritta. Quella che agli altri appare un’inquadratura anonima e fredda, per me Ăš quasi un’opera d’arte.
La cittĂ  Ăš come un termitaio: habitat e abitanti sono un continuum; definire l’uno equivale a definire gli altri; la cittĂ  Ăš l’esoscheletro dei suoi abitanti, giacchĂ© gli abitanti si lasciano dietro un habitat quando se ne vanno o rinsecchiscono – ad esempio quando li sotterrano al cimitero. Un essere urbano sta alla cittĂ  come il paguro Bernardo alla sua conchiglia. «Dove sono dunque?» Nella, tramite e in parte grazie alla mia conchiglia. Prova ne Ăš che, senza un ascensore che me lo consenta, non posso nemmeno portare su la spesa. L’essere urbano sarebbe dunque un insetto «da ascensore» come un ragno Ăš «da ragnatela»? Sempre che i proprietari abbiano provveduto alla manutenzione. Dietro l’inquilino, una protesi; dietro la protesi, altri proprietari e addetti alla manutenzione. E via di seguito. L’ambiente inanimato e quelli che lo animano fanno un tutt’uno. Non esiste un essere urbano nudo e crudo, cosĂ­ come non esiste una termite fuori dal termitaio, un ragno senza ragnatela o un indiano la cui foresta Ăš stata distrutta. Un termitaio senza termiti Ăš solo un cumulo di fango, come lo erano i quartieri chic durante il lockdown, quando, sfaccendati, passavamo davanti a quei sontuosi palazzi privi di abitanti ad animarli.
La cittĂ , per un urbano, non Ăš propriamente estranea ai suoi modi di esistere, ma posso spingermi un po’ piĂș lontano per incontrare qualcosa che ne sia davvero fuori? Quest’estate, nel Vercors, ai piedi del Grand Veymont, un amico geologo ci ha dimostrato che tutta la cima di questa maestosa falesia era un cimitero di coralli, un’altra conurbazione gigante disertata da tempo dai suoi abitanti e i cui detriti depositati, pressati, sepolti e successivamente sollevati, erosi e sospesi avevano generato quella bella formazione calcarea urgoniana di pietra bianca dai finissimi cristalli che brillava sotto la sua lente di ingrandimento. Quei calcari li chiamava «bioclastici», ossia «composti dai detriti di organismi viventi». Non ci sarebbe dunque nessuna rottura o discontinuitĂ  nel passaggio dal termitaio urbano, oltremodo bioclastico, a questa valle del Vercors che in tempi antichi un ghiacciaio ha tagliato attraverso un cimitero di innumerevoli organismi viventi? All’improvviso mi sento un po’ meno alienato; posso continuare ad allontanarmi sempre di piĂș spostandomi come un granchio. La mia porta non Ăš piĂș chiusa a chiave.
Tanto piĂș che, mentre salgo verso la cima del Grand Veymont, il cammino Ăš punteggiato ogni cento metri da formicai giganti che stanno lĂ­ a ricordarmi che anche le formiche conducono un’esistenza di urbani indaffarati. Gregor deve sentirsi meno solo da quando il suo corpo segmentato trova una corrispondenza nella sua Praga di pietra, in cui ogni aggregato cristallizzato conserva l’eco di un oceano di conchiglie sbatacchiate. Un buon motivo per piantare in asso la famiglia, imprigionata in casa, nei loro poveri corpi di umani delineati all’antica come sagome in fil di ferro.
In camera sua, Gregor soffriva di essere un estraneo tra i suoi familiari; bastava un tramezzo e un chiavistello per rinchiuderlo a doppia mandata. Diventato insetto, eccolo trasformato in un passe-muraille, capace di attraversare i muri a. Da questo momento la sua stanza, la sua casa, sono per lui palle di argilla, pietra e calcinacci che avrĂ  in parte digerito ed espettorato e che non limitano piĂș i suoi movimenti. Adesso puĂČ uscire a suo piacimento senza timore di essere sbeffeggiato. La cittĂ  di Praga, i suoi ponti, le sue chiese, i suoi palazzi, non sono altro che zolle di terra un po’ piĂș grosse, piĂș antiche, piĂș sedimentate, tutte cose artificiali e fabbricate, create dalle mandibole di suoi numerosi compatrioti. A rendermi sopportabile il divenire-insetto Ăš forse il fatto che, passando dalla cittĂ  alla campagna, mi ritrovo davanti altri termitai, montagne di calcare, anch’esse artificiali, piĂș grandi, piĂș antiche e ancor piĂș sedimentate da una lunga opera di ingegnositĂ  e di industria da parte di innumerevoli, microscopici animaletti. L’essere confinato esce dal confinamento e ritrova una grande libertĂ  di movimento.
Seguiamo questo sottile condotto, prolunghiamo questa minuscola intuizione, obbediamo ostinatamente a questa singolare ingiunzione: se posso passare dal termitaio alla cittĂ , e dalla cittĂ  alla montagna, Ăš possibile passare nello spazio stesso in cui poc’anzi avevo l’impressione che la montagna si limitasse a «situarsi»?
Se il lavoro del formicaio crea una bolla tutt’intorno alla formica, mantenendo la giusta temperatura e purificando l’aria, lo stesso vale per VĂ©ronica che si arrampica col fiatone su per l’erta china del Grand Veymont. L’ossigeno che inspira non proviene da lei, come se portasse sulle spalle le pesanti bombole dei conquistatori dell’Annapurna. Altre creature, innumerevoli e invisibili, le permettono di riempirsene – gratuitamente, per il momento – i polmoni. Quanto allo strato di ozono che la protegge dal sole – sempre per il momento –, forma sopra di lei una cappa che Ăš il risultato del lavoro di agenti altrettanto invisibili, innumerevoli e ancora piĂș antichi: batteri in azione da due miliardi e mezzo di anni. Per cui le emanazioni di CO2 che rilascia espirando non fanno di lei un’estranea, un «insetto mostruoso», ma un essere respirante in mezzo a miliardi di altri esseri respiranti, alcuni dei quali ne approfittano per formare il legno del faggeto all’ombra del quale lei riprende fiato. Il che rende questa camminatrice il pedone di un’immensa metropoli percorsa in un pomeriggio. Fuori, in aperta campagna, eccola sistemata all’interno di una conurbazione che non potrebbe mai abbandonare, pena una m...

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Latour, B. (2022). Dove sono? ([edition unavailable]). EINAUDI. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3424777/dove-sono-lezioni-di-filosofia-per-un-pianeta-che-cambia-pdf (Original work published 2022)

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Latour, Bruno. (2022) 2022. Dove Sono? [Edition unavailable]. EINAUDI. https://www.perlego.com/book/3424777/dove-sono-lezioni-di-filosofia-per-un-pianeta-che-cambia-pdf.

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Latour, B. (2022) Dove sono? [edition unavailable]. EINAUDI. Available at: https://www.perlego.com/book/3424777/dove-sono-lezioni-di-filosofia-per-un-pianeta-che-cambia-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Latour, Bruno. Dove Sono? [edition unavailable]. EINAUDI, 2022. Web. 15 Oct. 2022.