Evanuerunt dies: i giorni sono fuggiti via.
CosĂ si intitolava, nella precedente edizione di questo libro, il capitolo finale che portava a conclusione la narrazione della vicenda di Piazza Fontana. Un capitolo che essenzialmente doveva delineare lo «stato delle cose» a trentâanni dalla strage.
Avevo stabilito, nel mettermi allâopera su questo libro, lâarchitettura complessiva che avrei voluto dare allâintero lavoro. A differenza di altri autori che occupandosi di Piazza Fontana avevano mosso i passi dal contesto generale, politico e sociale â e dunque avevano affrontato di petto i conti con la cruenta discontinuitĂ che la strage aveva rappresentato nella storia del Paese â avevo voluto dare altro avvio. Partendo dalle vite spezzate dalla bomba.
Nella prima parte del testo avevo dunque cercato di dare una voce e un volto alle vittime, di rendere nella sua dimensione piĂș concreta lâimpatto della strage sulla vita delle famiglie che avevano perso i loro cari, colpite da unâazione di una guerra che nessuno aveva dichiarato e che tuttavia aveva spazzato via, in un attimo, un irripetibile universo di legami quotidiani, di certezze domestiche, di piccole felicitĂ .
Lâaffresco complessivo â il quadro sociale e politico di un Paese vitale e conflittuale, e dunque in rapido, forse per qualcuno troppo rapido, mutamento, il Paese che la bomba aveva cercato di mettere in ginocchio â era venuto appena dopo.
Forse perchĂ© come molti miei coetanei conoscevo per esperienza diretta questi aspetti, volevo evitare di dare per scontato elementi non conosciuti dai piĂș giovani. Ad esempio il fatto che in quel 12 dicembre 1969 erano prossime a spegnersi molte delle lotte di categoria che avevano alimentato la radicalitĂ dellâ«autunno caldo». Agitazioni che stavano per trovare conclusione nella firma dei diversi contratti sindacali prevista in quelle ore. Un giorno, dunque, che senza la strage avrebbe potuto fissarsi nella memoria collettiva non come una ricorrenza di lutto e di sangue ma come la possibile, e ben diversa, conclusione di una stagione di forte conflittualitĂ ma, anche, di sostanziale tenuta di una democrazia giovane come quella della Repubblica italiana che da poco aveva superato il traguardo dei suoi primi ventâanni.
Ma considerazioni di questo genere si collocavano, in un certo senso, sulla soglia di ingresso dellâedificio della memoria che avevo intenzione di allestire.
Câera, appena al di lĂ , un lungo cammino a ritroso da fare. Andava ripercorso non tanto col senno di poi ma, per quanto possibile, conservando lâimpatto che aveva avuto in quei giorni, nelle settimane immediatamente successive al 12 dicembre, su chi lâaveva vissuto.
Dunque con la consapevolezza di quanto la cosiddetta «pista rossa» avesse costituito â con le accuse agli anarchici subito rimbalzate dagli investigatori ai titoli cubitali dei quotidiani, lâarresto di Valpreda, la morte del ferroviere Pinelli presentata dal questore di Milano come una sorta di confessione postuma di colpevolezza, il riconoscimento del ballerino anarchico da parte del taxista Rolandi â un passaggio stretto e drammatico per tutti gli italiani. Ma soprattutto come nel giro di poche ore, di alcuni giorni, questa ipotesi investigativa creata ad hoc avesse rimescolato le carte delle strategie e delle modalitĂ con cui le istituzioni dello Stato si erano sino ad allora confrontate con la contestazione giovanile e operaia, con il massimalismo rappresentato dalle organizzazioni extraparlamentari della sinistra.
Con quei settori, insomma, che per non pochi esponenti del partito dellâordine erano riassumibili nella figura complessa dellâeditore milanese Giangiacomo Feltrinelli. Non a caso sarĂ proprio Feltrinelli lâobiettivo sul quale cercarono di far convergere, almeno inizialmente, le loro accuse i suggeritori degli sforzi investigativi dispiegati contro gli anarchici, nellâambito della «pista rossa».
Del resto i sospetti contro lâarea piĂș radicale della sinistra avevano costituito la tessitura sulla quale si erano mossi, in quei giorni, le forze dellâordine, gli uffici investigativi, la magistratura e i prefetti. Le accuse contro gli appartenenti a questi schieramenti non erano rimaste nellâambito del confronto politico o delle polemiche ideologiche: si erano concretizzate in modo diretto e conclamato su alcune migliaia di giovani, in gran parte militanti della sinistra, che proprio sullâonda della campagna giudiziaria e mediatica contro Valpreda e contro gli anarchici, e dunque in nome della «pista rossa», giĂ nelle ventiquattro ore successive allâattentato erano stati visitati da perquisizioni disposte dalle autoritĂ giudiziarie per «rinvenire su di essi o nelle loro abitazioni materiale esplosivo». Un modo per affermare urbi et orbi che erano se non gli autori degli attentati perlomeno dei possibili complici degli stragisti.
Ma la «pista rossa», foriera di gravi concatenazioni e severe conseguenze, aveva poi dovuto cedere il passo a indagini che, non essendo piĂș totalmente teleguidate da Roma e subordinate a inquietanti scenari politici, cominciavano ad avvicinarsi alla veritĂ .
Si trattava di un complesso cammino attraverso i rivoli e i filoni di quella «pista nera» che per non poco tempo aveva visto convivere diverse azioni investigative. Quelle che sorte a Treviso, a Padova, a Milano, in un gioco complicato di competenze giudiziarie e di rimandi territoriali, una volta confluite nel capoluogo lombardo e pazientemente accostate e ricomposte, consentivano giĂ di delineare le linee principali della pianificazione dellâattentato da parte della cellula nera padovana. Dunque lâorganizzazione eversiva di Freda e di Ventura e la loro responsabilitĂ in merito alla strage sancita il 23 febbraio 1979 da parte della Corte di Assise di Catanzaro, con un verdetto di colpevolezza: per loro due e per Guido Giannettini, reputato lâelemento di collegamento con alcuni settori dei servizi segreti. Tutti e tre condannati allâergastolo.
Un verdetto ribaltato il 20 marzo 1981 in appello a Catanzaro, quando Freda e Ventura saranno assolti per insufficienza di prove dallâaccusa di strage ma condannati a 15 anni di carcere per gli attentati precedenti. Pure assolto Giannettini. Una sentenza a sua volta annullata il 10 giugno 1982 dalla Corte di Cassazione che, confermando solo lâassoluzione di Giannettini, dispone un nuovo processo da celebrare a Bari.
Il 1° agosto 1985 nel capoluogo pugliese la Corte di Assise di Appello emette la sua sentenza (poi confermata dalla Cassazione). In questa occasione i giudici baresi mentre condannano due ex ufficiali dei servizi segreti â il generale Maletti e il capitano Labruna â per lâazione di depistaggio e di occultamento di prove a favore di alcuni imputati, decidono di assolvere per insufficienza di prove dallâimputazione di strage Freda e Ventura.
Questa assoluzione in base al principio giuridico ne bis in idem â ovvero che non si puĂČ essere processati due volte per lo stesso reato â consente a Freda e a Ventura, anche quando nuovi procedimenti giudiziari aggiungeranno ulteriori indizi e testimonianze sul ruolo giocato nellâattentato del 12 dicembre, di rimanere impuniti.
La cospirazione che porterĂ alla strage ha una modalitĂ che si sottrae ai clichĂ© piĂș scontati. Vi si scorge, persino dentro la preparazione delle bombe, un ritmo, un affollarsi di voci e di personaggi che formano lâillustrazione di certa provincia italiana di quegli anni. Un affresco dove il complotto e i mortiferi disegni di un attentato che cambierĂ la storia di un intero Paese convivono con dettagli degni di figurare in un film di Germi. La filatura criminale procede infatti tra spazientite ordinazioni di timer necessari agli ordigni e chiacchiere trascinate tra botteghe di libraio e studi dâavvocato, missioni in casolari nella campagna veneta per depositare arsenali dâarmi ed esplosivi e pasticciati affari fra personaggi che non dovrebbero avere nulla in comune tra di loro. Vi si aggiungano amicizie strette in collegio e vanterie di importanti e misteriosi legami con pezzi grossi degli apparati romani capaci di sventare le curiositĂ e le sacrosante intromissioni di qualche servitore dello Stato â come il commissario Pasquale Iuliano â che non ha dimenticato il proprio dovere e che, proprio per questo, la pagherĂ cara in un Paese dove il potere Ăš da sempre debole con i forti e forte con i semplici.
Nel riandare al complesso mosaico che si dispiega tra la Padova di Franco Freda, le residenze nel trevigiano di Giovanni Ventura e le localitĂ venete dove si muove il drappello di cospiratori, si intravedono i passi e i gesti degli altri comprimari che piĂș tardi un altro giudice, il milanese Guido Salvini, cercherĂ di portare alla luce.
Dando il via allâindagine che sboccherĂ , nellâultimo decennio, nei nuovi processi davanti alla Corte di Assise di Milano. Processi che hanno contribuito a fare meglio intravedere tutto un ambiente, i profili dei complici e dei convitati di pietra che assistono allo svolgersi del piano stragista. Senza che tuttavia questi scorci diventino veritĂ giudiziaria, visto che le condanne allâergastolo comminate in prima istanza dalla Corte di Assise di Milano contro i tre presunti ulteriori cospiratori e organizzatori, appartenenti alla destra estremista veneta e milanese â Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni â, sono state annullate dalle assoluzioni disposte dalla Corte di Assise di Appello e dalla Cassazione. Anche se in tutti e tre i livelli di pronunciamento i giudici hanno ribadito di ritenere, anche se non piĂș processabili, Franco Freda e Giovanni Ventura tra i responsabili della strage di Piazza Fontana.
Quella della «cellula nera» veneta Ăš unâazione di terrorismo e di provocazione politica che cresce sotto lâombra protettiva di apparati contigui a quelli militari, si dirama guidata da una pseudo-intelligence cresciuta nel sottobosco di un Triveneto che allora piĂș che mai Ăš ancora avamposto della Guerra Fredda contro il Patto di Varsavia e il blocco comunista. E in questo contesto Ăš obbligator...